«OH, SE LE MIE PAROLE SI SCRIVESSERO!»: QUANDO SI SOFFRE, DOV’È IL DIO MISERICORDIOSO?
 IL LIBRO DI GIOBBE

 

PERCHÉ TANTA SOFFERENZA?

Il problema del dolore e del suo perché, soprattutto il problema del dolore innocente viene affrontato spesso nelle Scritture sante, ma nessuno prima di Giobbe aveva osato alzare tanto la voce per gridare l’ingiustizia della sofferenza, di fronte a un Dio che sembra sordo, muto e impotente (cf Gb 9,3.15-16; 19,7; 24,12; 30,20)(1).

Tutto comincia come in una favola: "C’era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe" (Gb 1,1). Il libro è una parabola sulla sofferenza umana. Uz evoca un paese lontano, ma si vedrà che è il territorio da noi più abitato. Il nome Giobbe indica una misteriosa identità di "essere ostile, avversato, nemico": "Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico?" (Gb 13,24)

Giobbe è un uomo retto, che teme il Signore e gode una vita prospera. Su di lui, all’improvviso si abbatte la catastrofe.

All’origine c’è una questione posta da Satana (satan = ostacolo, accusatore, colui che insinua dubbi) a Dio stesso: "Forse che Giobbe teme Dio per nulla (chinam = gratis)"? (Gb 1,9). Viene introdotto da questa domanda il grande tema della retribuzione: è possibile credere nel Signore, amarlo e servirlo senza aspettarsi nulla in cambio? Ma se il principio della retribuzione viene assunto come il criterio principale che regola i nostri rapporti con Dio, non cadiamo in una fedeltà interessata? Se io sono buono e fedele il Signore mi deve benedire per forza e tutto mi andrà bene.

Questo criterio della retribuzione viene sconvolto dal libro di Giobbe. Le disgrazie si abbattono su di lui una dopo l’altra, in una sequenza drammatica. Privato di tutto, beni, servi, figlie e figli, non solo non maledice il Signore, ma confessa la sua fede e lo benedice:

"Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore" (Gb 1,21).

Ma Satan insiste: "Stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia!" (Gb 2,5). E il Signore permette anche la prova di una terribile e umiliante malattia: "Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita" (Gb 2,6). Sono le ultime parole di Dio a Satana, prima di entrare in un silenzio lungo e pesante che romperà solo alla fine del dramma. E’ il mistero di un Dio che lascia libero il male di scagliarsi contro l’uomo, mentre Lui rimane in silenzio.

TACERE O PARLARE NEL DOLORE?

Il libro di Giobbe appartiene agli scritti sapienziali. Ma di fronte al dolore, soprattutto al dolore innocente, la sapienza è messa a dura prova.

Non è facile parlare di fronte a chi soffre e quando si soffre.

L’esasperazione dei più vicini (la moglie di Giobbe)

La stessa moglie di Giobbe è un esempio dell’esasperazione a cui si può arrivare quando si è vicini a chi soffre. Ma proprio a lei, il sofferente, colui che dovrebbe essere aiutato e consolato, dà una lezione di sapienza (cf Gb 2,9-10).

I tre amici

Arrivano i tre amici di Giobbe, Elifaz, Bildad e Zofar, per condolersi con Giobbe e "consolarlo" (2,11). La prima reazione è il pianto, i gesti di lutto e il silenzio per sette giorni e sette notti (2,12-13). Spesso di fronte al dolore il miglior aiuto è l’accompagnamento silenzioso, perché trovarsi di fronte a una persona che soffre è come avvicinarsi a un luogo sacro in cui si deve entrare con molto rispetto. I tre amici, muti sono grandiosi, quando apriranno la bocca, per rispondere allo sfogo di Giobbe, saranno deludenti. Prendono la parola a turno. Sono tre discorsi preparati, che danno l’impressione di una intromissione indebita, con la quale pretendono addirittura di giustificare e difendere Dio di fronte a un Giobbe che, secondo loro, è sicuramente colpevole e per questo soffre e sbaglia a lamentarsi (cf Gb 4-5; 8; 11). Lo sbaglio degli amici è nel fare prediche o alti discorsi di teologia di fronte al dolore.

Il grido di sfogo, l’autodifesa, le domande, la fede, la speranza e l’amore di Giobbe

Il monologo-lamento di Giobbe (Gb 3) è una esplosione di tutta l’amarezza della sua situazione. Una sofferenza eccessiva, anche se accettata all’inizio, può produrre poi uno sfogo eccessivo, che sembra contraddittorio e incontrollato.

Giobbe arriva a maledire il giorno della sua nascita. Il suo grido fa eco a quello di vari salmisti, che chiedono a Dio il senso di una sofferenza innocente e sentono angosciosamente la sua lontananza e il suo silenzio (cf Sal 44,18-25; 22; 69-70; 73; 79-80; 88…). Tra i profeti, l’esperienza più vicina per molti aspetti a Giobbe è quella di Geremia (cf Ger 12,1-2; 20,7-9.14-18).

Mai però si era sentita risuonare nelle Scritture una voce con la veemenza di quella di Giobbe, che ruggisce come un leone contro gli amici che lo tormentano con le loro vane chiacchiere, rispondendo loro uno a uno; e poi se la prende con Dio, il suo vero interlocutore, rasentando quasi la bestemmia, provocandolo a venire allo scoperto in un confronto faccia a faccia, citandolo in giudizio perché gli spieghi le ragioni del suo agire incomprensibile (Gb 6,13-7,8; 17,2-4; 27,7; 9,32-10,22;13,17-14,22). Giobbe parla a Dio e non di Dio come gli amici, anzi grida a Lui. Dio, il Silente, accoglierà alla fine come una preghiera questo lamento straziante.

Se la sofferenza è un mistero incomunicabile nella sua sostanza, dobbiamo essere grati alle parole di Giobbe, anzi allo Spirito di Dio che dice la sua Parola sul dolore attraverso questa esperienza. Quante grida di oppressi soffocate possono finalmente risuonare in quelle di Giobbe! Se si sa ascoltare chi soffre, ci si rende conto che le sue parole sono tra le più vere che si possano dire sull’uomo e su Dio (cf Gb 42,7-8).

Infatti il grido di Giobbe, nonostante l’apparenza contraria, non è mai del tutto disperato. L’Altissimo che sembra torturarlo e trafiggerlo con le sue frecce (6,4), è Colui che egli ama e in cui spera contro ogni speranza:

"Mi uccida pure, spererò in lui!" (Gb 13,15; cf 14,13-17). La speranza, nel dolore è fragile, appesa a un filo. Eppure è speranza(2).

Giobbe ama il suo Signore e, come Giacobbe al guado dello Iabbok (Gen 32,23-33), lotta con Lui. Giacobbe dopo la lotta, dice: "ho visto Dio faccia a faccia", e così Giobbe dice il canto della sua fede sofferta ma viva, della sua speranza invincibile e del suo amore struggente: ! "Io so che il mio Redentore(3) è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! ... Io lo vedrò, io stesso... Le mie viscere si disfanno dentro di me" (Gb 19,25ss).

DIO RISPONDE NELLA TEMPESTA (Gb 38-41)

Le parole umane tacciono, gli amici spariscono dalla scena con la loro retorica. Rimane solo Giobbe davanti a Dio. E Dio risponde "in mezzo alla tempesta" (38,1), nell’oscurità misteriosa della sua sapienza, che mai occhio vide ne orecchio udì. Il turbine in mezzo al quale Dio fa udire la sua voce è quello che si è schiantato contro Giobbe. Chi ha orecchi per intendere intenda, chi ha occhi per vedere veda!

E la risposta di Dio parte, anzitutto dalla contemplazione del creato, le cui descrizioni sono stupende e vibranti. Dio stesso canta il canto delle proprie creature, che ha plasmato con le sue mani di artista, le conosce nell’intimo e se ne prende cura (Gb 38,2-39,2). Dio parla a Giobbe attraverso la creazione, e lui passa, pian piano, dalla lotta all’abbandono fiducioso in Colui che, con tanta tenerezza, segue delicatamente ogni più piccola creatura, conosce i dolori del parto delle cerve (39,1) e, contemporaneamente, domina l’orgoglio delle creature più grandi e mostruose (40,15ss). Il Creatore fa percepire l’armonia anche nei suoni discordanti della sua creazione, e Giobbe, che non si sente più minacciato e aggredito, si mette "la mano sulla bocca" (40,4). Tace e adora, sentendosi un piccolo uomo limitato tra le braccia del suo Creatore (cf Sal 131). E finalmente vede ciò che prima non poteva vedere: "Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto" (42,5).

E poiché vede con gli occhi di Dio, può intercedere anche per gli amici ciechi e attirare su di essi e su di sé la benedizione del Signore. Il ristabilimento di Giobbe nello stato di prima, anzi più di prima, è pura grazia, il centuplo di un Dio che vuole la felicità dei suoi figli (42,7-16).

Ora l’esperienza vissuta, oltre che occhi nuovi gli ha dato un cuore nuovo, capace di comprensione profonda e di compassione amorosa. Lui non sa perché ha dovuto soffrire tanto, non se lo chiede neanche più, erano interrogativi più grandi di lui quelli che si poneva (42,3): sa solo che attraverso le tenebre e l’angoscia ha incontrato l’Amore.

Giobbe diventa allora profezia di quell’Amore che un giorno, assumerà tutto il dramma della sofferenza umana nel Figlio Crocifisso, Sapienza incarnata di Dio.


[1] Cf F. ROSSI DE GASPERIS, A. CARFAGNA, Prendi il libro e mangia, 3.2, EDB, pp. 181ss.

[2] E’ interessante notare che, in ebraico, tiqwah significa, al tempo stesso, “speranza” e “filo”.

[3] Dio stesso diventa il Go’el di chi soffre. Cf il tema di Rut.