Prof. Gianfranco Morra

MISERICORDIA E CULTURE ATTUALI

1 - Enciclica e sociologia

Cosa può dire lo studioso di scienze sociali della seconda Enciclica di Papa Giovanni Paolo II. "Dives in misericordia"? Come può una scienza incerta e limitata come la sociologia affrontare un discorso così alto? Della "Dives in misericordia", certo la più biblica e teologica delle encicliche sinora scritte da Papa Wojtyla, non sarebbe meglio al sociologo, tacere, piuttosto che, parlando, banalizzare e profanare un messaggio così alto?

Sono, queste, domande reali, che non si possono non avanzare preliminarmente. Esse, tuttavia, non escludendo la possibilità di un discorso sociologico sull'Enciclica, ma richiedono un atteggiamento di cautela e di disponibilità. Non si tratta, cioè, di fare una lettura sociologica dell'Enciclica; e neppure di desumere dall'Enciclica una sociologia. Si tratta, piuttosto, di indicare che cosa l'Enciclica può offrire all'uomo delle culture contemporanee; e si tratta, ancora, di comprendere meglio il richiamo di Giovanni Paolo II alla misericordia analizzando le culture attuali, nelle quali vi è, insieme, una quasi totale assenza di misericordia e un bisogno irrefrenabile di amore misericordioso.

È necessario - mi sembra - avvicinarsi all'Enciclica con una mentalità nuova e progressiva, capace di mettere alle spalle vecchi miti e superficiali utopie. Per troppo tempo la cultura cattolica ha pensato che le scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia) consentissero un intendimento più profondo della rivelazione e della teologia. Capire il Vangelo attraverso Marx o la teologia morale attraverso Freud era divenuto un tema obbligato. L'esito non fu davvero soddisfacente, in quanto si finì per non capire più non solo il Vangelo e la teologia, ma neppure Marx e Freud.

La via da seguire è piuttosto un'altra: mettere alle spalle ogni complesso d'inferiorità e dialogare con le scienze umane (quasi sempre enunciate in termini di anticristianesimo) sulla base della propria identità cristiana, della fedeltà alla tradizione, dell'unità ecclesiale. Le scienze umane aiutano certo a conoscere meglio l'uomo di oggi, la sua situazione e i suoi condizionamenti; ma nulla possono dire circa la natura dell'uomo e il destino dell'uomo come ente naturale-soprannaturale (a queste domande solo la teologia e la filosofica sanno dare una risposta).

È, poi, ancora vero che le scienze umane rischiamo di divenire totalitarie, di trasformare la loro descrizione dei fenomeni in un progetto normativo. Solo il riferimento ad una saggezza superiore consente di evitare tentazioni assolutistiche incompatibili con il carattere provvisorio e subalterno delle scienze umane. In tal senso si può affermare che la rivelazione, la teologia e la filosofia sono necessarie per un retto uso delle scienze umane.

2 - Antropologia e teologia

Scienze dell'uomo e scienza di Dio insieme stanno e insieme cadono. Anche questo è il significato della affermazione decisa, con la quale si apre la "Dives in misericordia": la "cognizione organica e profonda di antropocentrismo e teocentrismo" (D 1). Possiamo anche dire, con S. Agostino prima ancora che con la Redemptor hominis", che l'uomo trova se stesso solo quando trova il suo Dio ("Deus semper idem, noverim me, noverim te", questa è, secondo Agostino (Soliloquia, II, 1, 1), la preghiera più breve e perfetta). E non a caso lo psicologo sociale Erich Fromm ha affermato che, come il secolo XIX ha assistito alla "morte di Dio" così il secondo XX non ha potuto impedire la "morte dell'uomo" (Psicanalisi della società contemporanea, Edizioni di Comunità, Milano 1960, p. 386).

Di tale morte dell'uomo, derivata dalla coincidenza di desacralizzazione e demoralizzazione, l'Enciclica non esita a indicare (ai paragrafi 11 e 12) numerosi e terrificanti segni, riprendendo la tragica descrizione fatta (ai paragrafi 15-17) dalla "Redemptor hominis". L'umanità sembra vicina all'autodistruzione e tre minacce le incombono imminenti: la crisi atomica, la crisi ecologica, la crisi energetica. Gli squilibri economici fra popoli sviluppati e popoli sottosviluppati, tra il Nord opulento e il Sud misero, creano inquietudine e pericoli per la pace: se in alcuni paesi si muore di ricchezza, in altri si muore di fame. Nord opulento e il Sud misero, creano inquietudine e pericoli per la pace: se in alcuni paesi si muore di ricchezza, in altri si muore di fame.

L'oppressione politica e religiosa è largamente presente nel mondo e interi popoli o razze sono privi della libertà di esprimere i loro valori e le loro scelte, fortemente manipolati, come sono, da quei mezzi di comunicazione di massa, che generalmente vengono usati senza scrupoli per fini di dominio. La tortura è ancora una triste realtà, se è vero che circa due terzi degli stati rappresentati all'ONU ne fa ancora uso; la violenza sembra ormai l'unica soluzione possibile dei rapporti politici, sociali e personali, nei quali ogni interesse si difende con la lotta (lotta di classe, lotta di generazioni, lotta per la pace, etc.). È, soprattutto, sulle categorie più deboli che la violenza e il crimine scaricano le loro armi micidiali: i concepiti con l'aborto, i giovani con il permissivismo e la pornografia, le donne con la "falsa emancipazione" del femminismo radicale, i vecchi con la solitudine, i minorati con l'emarginazione.

La misericordia, secondo la precisa formulazione di San Tommaso, è partecipazione alla miseria dell'altro sulla base della simpatia: "misericors dicitur aliquis habens miserum cor: quia scilicet afficitur ex miseria alterius per tristitiam, ac si esset eius propria miseria. Et ex hoc sequitur quod operetur ad depellendam miseriam alterius, sicut miseriam propriam" (Summa theologiae, I, q. 21, a. 3, corpus). Per la misericordia non è facile trovare spazio nelle culture contemporanee, le quali sembrano animate da quell'utilitarismo e da quell'edonismo, che nulla possono avere in comunione con l'amore misericordioso. La misericordia, infatti, richiede il superamento dell'utilità nella carità e del piacere nella disponibilità per l'altro, se è vera la densa definizione di S. Agostino: "misericordia est alienae miseriae in nostro corde compassio, qua utique, si possumus, subvenire compellimur" (De civitate Dei, IX, 5).

Quali sono le culture attuali più lontane dalla misericordia, in quanto la loro stessa struttura è antimisericordiosa? Non è facile dirlo, dato che la situazione socio-culturale è, oggi, assai pluralistica e sincretistica, nel senso che ogni cultura ha presente in sé elementi delle altre culture. Tuttavia, se ci serviamo di una metodologia del tipo-ideale, che astrae e definisce sinteticamente gli elementi specifici prevalenti, possiamo indicare alcune culture essenzialmente antimisericordiose, nel senso che la misericordia, in esse, non manca solo sul piano reale, come purtroppo, è sempre più o meno accaduto in ogni cultura, ma viene considerata negativa sullo stesso piano ideale, cioè in riferimento ai valori fondamentali di cui esse sono portatrici.

Le culture, che esamineremo, sono tre: la cultura della potenza, la cultura della violenza, la cultura del desiderio.

3 - La cultura della potenza

Nei secoli della storia moderna, in coincidenza con l'ascesa del ceto sociale borghese, si svolge una concezione centrata sull'autonomia dell'uomo e della sua storia. Le energie creative dell'uomo vengono distratte dal mondo soprannaturale e religioso, e vengono incarnate verso il dominio sempre più efficiente del cosmo. La rivoluzione industriale trasformerà radicalmente non solo le condizioni di vita, ma anche la mentalità dei popoli. Valori massimo diviene, ormai, l'affermazione di sé, della propria potenza e della propria vitalità. Tale atteggiamento di ottimismo antropocentrico può anche essere espresso socialmente e si traduce allora nel concetto di "Progresso", come marcia incessante e inarrestabile dell'uomo verso il Più e il Meglio.

Furono soprattutto i secoli XVII, XVIII, e XIX ad esprimere questa antropologia della potenza, sia nelle forme meccanicistiche e quantitative della scienza e della tecnologia di dominio, sia nell'edonismo illuministico, sia nel titanismo e prometeismo romantico, sia nella teoria dell'evoluzione in epoca positivistica. È l'antropologia, dell'homo faber, dell'imprenditore che obbedisce alla legge del profitto; è il primato dell'homo oeconomicus, che nell'attività produttiva realizza non solo la sua personalità, ma addirittura la propria vocazione religiosa (ascesi mondana).

Nella recente Enciclica "Laborem exercens" (paragrafo 11), Giovanni Paolo II ha definito tale atteggiamento antropologico con i termini di "materialismo" pratico" e di "economicismo"; e lo ha fatto corrispondere a quell'epoca del "capitalismo rigido", durante la quale la mancanza di misericordia era mistificata come progresso individuale e sociale: "i lavoratori (scrive il Papa) mettevano le loro forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e questo, guidato al principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il salario più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai. A ciò bisogna aggiungere anche altri elementi di sfruttamento, collegati con la mancanza di sicurezza nel lavoro ed anche di garanzie circa le condizioni di salute e di vita degli operai e delle loro famiglie".

Queste forme di sfruttamento esasperato del lavoro, soprattutto nei riguardi delle donne e dei bambini, erano accompagnate da una ideologia, nella quale la cultura della potenza ha espresso in maniera esemplare il suo rifiuto della misericordia. Tale dottrina, sorta in non casuale contemporaneità con una massiccia conquista coloniale, è il "darwinismo sociale", estensione alla vita degli uomini della lotta per la sopravvivenza tipica delle società animali. L'eliminazione dei meno dotati, in questa prospettiva, appare salutare e utile per la società, i cui progressi richiedono il trionfo del più forte e intelligente.

La misericordia, per il darwinista sociale, è innaturale e immorale. Non ci sarebbe progresso senza la vittoria dei forti sui deboli. Anche l'uomo è un "animale da preda" (Spengler) e chi esercita la misericordia è un nemico della civiltà, la quale progredisce solo mediante la potenza. Imperialismo e razzismo non sono degenerazioni della politica, ma la forma normale dei rapporti umani, dato che ciò che una razza superiore fa alla razza inferiore, è esattamente ciò che farebbe la razza inferiore alla razza superiore, se lo potesse. La storia del mondo altro non è che una lotta tra le razze (Rassenkampf).

"I più forti (scrive Arturo de Gobineau nel suo classico Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane, Longanesi, Milano 1965, pp. 84, 240) avranno, nella tragedia del mondo, la parte di re e di padrone. I più deboli si contenteranno di basse bisogne"; "C'è dunque ineguaglianza logica, spietata, permanente e indelebile". E un altro darwiniano sociale, Houston Stewart Chamberlain, rifiuta la misericordia, cioè l'umanitarismo, in nome della lotta: "Nessun ragionamento "umanitaristico" potrebbe sopprimere il fatto della lotta: questa, quando non è combattuta a colpi di cannone, si svolge silenziosamente nel cuore della società attraverso i matrimoni misti, l'annullamento delle distanze tra i ceti, il passaggio della ricchezza da una mano all'altra, la nascita di nuove influenze e la scomparsa di altre preesistenti, nonché numerosi altri strumenti di potere. Questa lotta anche quando è condotta silenziosamente, è pur sempre più di ogni altra una lotta per la vita e per la morte" (Die Grundlagen des XIX. Jahrhunderts, 1899; cit. da P.A. Sorokin, Storia delle teorie sociologiche, Città Nuova, Roma 1974, vol. I, p. 220).

La gravità di queste affermazioni non appare evidente solo alla loro lettura, ma anche ad un riferimento alle tragedie di due guerre mondiali, delle quali questi ed altri principi furono una delle motivazioni. E se resta la consolazione che tali dottrine appartengono al passato, rimane anche vero che essere non mancano del tutto nella nostra cultura di oggi. Basti un solo esempio. Ecco cosa scrive, sul "Corriere della sera" (9 novembre 1981) un illustre scienziato, Adriano Buzzati Traverso, a proposito della fame nel mondo e della necessità di operare misericordiosamente per limitarla, in un articolo intitolato "Quanti bimbi da sfamare": sottrarre alla morte per fame un certo numero di persone è un bene solo relativo, che a lungo termine si trasforma in un male maggiore; non v'è dubbio, infatti, che gli scampati alla morte non solo continuano a mangiare, ma anche si riproducono con notevole frequenza, di modo che il problema della fame ne risulterà ulteriormente aggravato. "A lungo termine (scrive Buzzati Traverso) i soccorsi caritatevoli dei popoli ricchi a quelli poveri si possono tradurre in maggiori sofferenze per un più vasto numero di persone".

Se la cultura della potenza è chiusa alla misericordia, ciò accade perché essa parte da un concetto inadeguato di uomo. Le manca la coscienza dell'insufficienza creaturale dell'uomo e delle sue produzioni. Già Antonio Rosmini aveva mostrato la coincidenza del "perfettismo", ossia della pretesa di raggiungere risultati sempre più alti e positivi, con l'empietà (cfr. i Frammenti di una storia dell'empietà, Borla, Torino 1968).

Alla base del perfettismo delle culture della potenza, infatti è la negazione della verità antropologica del peccato originale. Misericordia e peccato insieme stanno e insieme cadono; può volgersi a Dio solo l'uomo che sente la propria insufficienza; solo l'uomo che si riconosce peccatore può aprirsi alla misericordia di Dio; e Dio può essere misericordioso appunto perché l'uomo non è autonomo e buono per se stesso. La misericordia è veramente, secondo la toccante definizione dell'Enciclica, "l'amore più potente del peccato" (D 14).

Nel momento in cui la cultura della potenza e del progresso sperimenta una crisi radicale della sua credibilità, nel momento in cui le "magnifiche sorti e progressive" del perfettismo dell'Occidente corrono il pericolo di capovolgersi nella "autodistruzione dell'umanità" (D 11), appare quanto mai opportuno un recupero dell'antropologia integrale, e della stretta connessione esistenziale tra peccato e misericordia.

4 - La cultura della violenza

Un paradossale rapporto di continuità e di superamento rispetto alla cultura della potenza si trova nella cultura della violenza. Parliamo, ovviamente, non di una cultura violenta (la violenza è presente, più o meno, in tutte le "città degli uomini"), ma di una cultura della violenza, ossia di una cultura che giustifica e considera positiva la violenza come unico modo per produrre una società senza violenza. Essa parte dalla constatazione che la società esistente si fonda su di una violenza legalizzata e che solo la "violenza giusta" (o dei poveri) potrà eliminare la "violenza ingiusta" (o dei ricchi).

La violenza cessa di essere una occasione o un fenomeno negativo, per divenire la legge stessa del reale, l'unico mezzo per raggiungere un progresso nel bene. Possiamo assumere come emblematica una frase famosa, tratta dal XXIV capitolo del I libro del Capitale di Carlo Marx: "La violenza è la levatrice di ogni società antica, gravida di una nuova società". Il marxismo esalta la "funzione rivoluzionaria della violenza" (F. Engels, Antidühring) e constata che "il potere proviene dalla canna dei fucili" e che "la guerra può essere abolita solo mediante la guerra" (libretto rosso di Mao Tze Tung).

Non v'è dubbio che il marxismo non intende giustificare la violenza come condizione insuperabile della società umana; esso è, al contrario convinto che dalla violenza, che distrugge la reale violenza del presunto ordine legale, uscirà una società senza violenza. La violenza del contropotere eliminerà la violenza del potere, per creare infine una società umana senza stato e senza violenza. La violenza, per il marxismo, è strumentale, non definitiva; essa dura quanto la rivoluzione, per distruggere la violenza borghese, e quanto la dittatura del proletariato, per impedire la controrivoluzione.

La violenza, dunque, che esclude la misericordia come tradimento, è valida solo quando è usata a fin di bene - ossia per costruire una società socialista. Nel suo libro L'estremismo come malattia infantile del comunismo ciò che Lenin rimprovera agli estremisti non è l'uso della violenza, ma l'uso irrazionale della violenza. Ciò che deve fare il militante è la razionalizzazione della violenza e la sua associazione con le forme pacifiche della democrazia: "La dittatura del proletariato è una lotta tenace, cruenta e incruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica ed amministrativa, contro le forze e le tradizioni della vecchia società".

Sarebbe inesatto far coincidere la cultura della violenza con il marxismo; ma sarebbe anche superficiale non riconoscere che il marxismo è la più rigorosa giustificazione della violenza rivoluzionaria in nome dell'utopia messianica della società buona (Bloch: il "regno di Dio senza Dio"). Ora in questa unione di utopia e violenza, il secondo XX (che Lenin aveva profetizzato secondo di guerre e di rivoluzioni) ha visto allontanarsi sempre più l'utopia (il "Dio in avanti") ed estendersi irrefrenabilmente la violenza in tutte le sue forme, sia nei rapporti tra le nazioni, sia tra le classi, sia tra le persone. La violenza è, ormai, un fatto ecumenico e la stessa pace, diffidente e precaria, si regge solo sul timore della violenza onnidistruttiva degli armamenti nucleati. E la società nate dalla violenza rivoluzionaria, lungi dal costituirsi in convivenze libere di uomini solidali, si sono consolidate nell'universo concentrazionario del collettivismo burocratico, che in nome della totale socialità entra in tutte le sfere di vita e ne scaccia la libertà e la solidarietà.

Ricordare le tristi statistiche dell'aumento della violenza nel nostro paese è superfluo, tanto l'evidenza del fenomeno ci è davanti agli occhi. Gli atti distruttivi delle persone e dei beni non sono soltanto in crescita costante, ma assumono forme di cinismo inaudite. La vecchia ideologia, che pretendeva di spiegare la violenza in termini di miseria, ingiustizia ed emarginazione, non è più in grado di dare ragione di episodi di violenza così crudele come il tenere in cella frigorifera un sequestrato morto per estorcere altro danaro alla famiglia facendolo credere vivo; o come il rogo, da parte di alcuni giovani, di una ragazza di quattordici anni, che non voleva prostituirsi.

L'antimisericordia non potrebbe mostrarsi più legata alla cultura della violenza, nella quale, come leggiamo al paragrafo 12 della "Dives in misericordia", "sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forme negative, quali il rancore, l'odio e perfino la crudeltà". Una violenza così diffusa e frequente non potrebbe certo essere superata da nessuna ideologia o da nessuna utopia, ma solo dal riconoscimento della dimensione soprannaturale dell'uomo, che mi è fratello in quanto siamo figli di uno stesso padre e di una stessa madre.

Si può rifiutare la cultura della violenza solo distinguendo la forza dalla violenza e rifiutando la violenza in ogni caso, secondo l'imperativo della dottrina sociale della Chiesa, così efficacemente espresso al paragrafo 31 dell'Enciclica "Populorum progressio" di Paolo VI: "la violenza provoca nuova violenza; non si può combattere un male a prezzo di un male più grande". E nel "Discorso di Puebla" Giovanni Paolo II ha mostrato l'equivoco della scelta, compiuta anche da certi religiosi, spinti dalla cosiddetta "teologia della liberazione", di un impegno di violenza rivoluzionaria in favore degli oppressi. Alla cultura della violenza il cristiano oppone la legge della verità e della giustizia: la levatrice della storia non è la violenza, ma la croce, che è frutto di carità e misericordia.

5. La cultura del desiderio

Se nella cultura della violenza si ha una netta prevalenza del sociale, che diviene totalitario e burocratico, la cultura del desiderio si fonda su di una presente istanza di recupero dell'individuale e del vitale. La cultura del desiderio è una cultura libertaria, che mira a liberare istinti repressi e a riappropriarsi dei desideri soffocati. L'uomo, il quale, secondo la ben nota definizione del Deleuze, è "un fascio di desideri senza desiderante" (dato che il soggetto è morto), ha come scopo della sua esistenza di esplicate al massimo le sue possibilità di vita. Per poterlo fare, deve rifiutare tutti i divieti artificiali, che la società ha inventato per imbrigliare i desideri e deviarli verso la produttività o verso la socializzazione. Distruggere tutti i tabù (meno, ovviamente, il tabù che non esistono tabù): ecco la finalità dell'etica permissivistica della cultura del desiderio.

L'uomo del desiderio è una persona che sa vivere: cerca un lavoro breve e non troppo faticoso; effettua molti vagabondaggi esplorativi; legge poesie e ascolta musica; non si impegna mai per sempre onde salvaguardare la propria libertà del desiderio; i suoi campi privilegiati sono i rapporti interpersonali. È qui che avviene la rivoluzione della cultura del desiderio, la quale, a partire dal Sessantotto, ha modificato profondamente le due principali istituzioni dei rapporti interpersonali: famiglia e scuola.

Nella famiglia sono entrate in crisi sia le regole sessuali, sia i rapporti di autorità. La cultura del desiderio non può porre alcuna limitazione ai rapporti sessuali, se non quella fondata sul desiderio stesso. Rapporti sessuali prematrimoniali ed extramatrimoniali, omosessualità, transessualità, amore di gruppo, e altre simili combinazioni, che la fantasia del desiderio suggerisce, trovano la loro giustificazione nella libertà e nella fantasia del desiderante.

La cultura del desiderio non può ammettere dentro di sé la promessa. La promessa e il desiderio si escludono reciprocamente. La promessa è senza condizioni, mentre il desiderio non è altro che limite spaziale e temporale. Anche il matrimonio, dunque, va sottratto al tabù della promessa e reso libero e transitorio. Certo che esso deve durare (ci si sposa perché si vuole attribuire all'unione una durata); ma questa durata non può che coincidere con il desiderio e finire insieme con esso. Una cultura del desiderio, che è una cultura della contemporaneità, non può vivere senza divorzio, che viene da essa considerato come una conquista di libertà e di progresso. È il desiderio che consente la promessa, non è più la promessa che orienta e legalizza il desiderio.

I rapporti autoritativi all'interno della famiglia vengono rifiutati. Il desiderio riduce sempre più il nucleo familiare: avere in casa molti figli e gli anziani rende difficile la realizzazione dei desideri, in quanto richiede il sacrificio, che è il contrario del desiderio. Ogni componente della famiglia deve essere libero di esplicare al massimo i propri desideri, dato che la famiglia non è più una comunità di tradizione, ma una convivenza di desideranti. Il permissivismo sembra la metodologia più adeguata per rispettare il desiderio e per consentirgli di realizzarsi.

Anche nella scuola tutto deve essere facile e spontaneo. Finita la scuola del lavoro culturale, disciplinato e organico, in quanto basato sul sacrificio, è sorta la scuola del desiderio e della spontaneità. Il permissivismo pedagogico consente, anche in essa, di rispettare la priorità del desiderio, al quale va subordinato lo studio. La scuola è un gioco di desideri, che può anche tradursi in cultura - ma è la cultura fondata sul desiderio, non il desiderio sulla cultura.

La cultura del desiderio è una cultura della provvisorietà e del narcisismo. L'individuo, in essa, non diventa mai persona, in quanto vive edonisticamente (e non di rado estetisticamente) nel presente del desiderio. L'uomo del desiderio è l'uomo Kierkegaardiano dello "stadio estetico", incapace di passare allo "stadio etico" e allo "stadio religioso", in quanto è incapace di continuità, di impegno graduale e di sacrificio.

Ora il desiderio esclude la misericordia, che è dono di sé all'altro proprio sulla base della rinuncia al desiderio. Non è un caso che la cultura del desiderio abbia combattuto con enfasi pseudoreligiosa per la legalizzazione dell'aborto e per il suo uso generalizzato e libertario. Una cultura del desiderio non può ammettere se non l'aborto libertario, che è l'aborto del desiderio. L'eliminazione di una vita umana viene giustificata con la necessità del desiderio di poter continuare a realizzarsi senza ostacoli o impedimenti.

L'eros, che non è charitas, in quanto è privo di misericordia, produce thanatos. Sul piano dell'eros non vi può essere misericordia, ma solo desiderio da soddisfare, possibilmente (secondo una espressione entrata ormai nell'uso comune) con una "gratificazione reciproca", che è la coincidenza casuale di due desideri. È solo sul piano della charitas, la quale oltrepassa l'eros nell'agape, che è possibile la misericordia: "misericordia est effectus caritatis" (scrive S. Tommaso, alla fine dell'articolo 3 della questione 36 della Secunda secundae).

Se la misericordia è l'effetto della carità, la crudeltà è l'effetto del desiderio innalzato a supremo principio di valore. Crudelitas est effectus cupiditatis: è l'imperativo della morale sadiana, di cui la cultura del desiderio è figlia. Possiamo esprimerlo con esattezza servendoci di alcune frasi tratte dal dialogo di Sade La philosophie dans le boudoir, dove viene dimostrata razionalmente la liceità e la doverosità dell'infanticidio: "non tenere l'infanticidio; è un delitto immaginario; siamo pur sempre le padrone di ciò che portiamo in seno e non facciamo più male a distruggere questa specie di materia che a purgarci dell'altra, con dei midicamenti, quando ne abbiamo il bisogno"; "Anche se fosse già nato, saremmo sempre padrone di distruggerlo. Non c'è sulla terra diritto più certo di quello delle madri sui loro figli"; "Comprendendo la misura dei nostri diritti, abbiamo finalmente riconosciuto che eravamo perfettamente liberi di riprenderci quanto avevamo dato controvoglia o per caso e che era impossibile esigere che qualsiasi individui divenisse padre o madre se non ne aveva voglia. Abbiamo capito che una creatura in più o in meno sulla terra non comporta poi una grande differenza e che noi diventiamo in una parola padroni di quel pezzo di carne, per animato che sia, non diversamente da come lo siamo delle unghie che tagliamo dalle nostre dita, delle escrescenze di carne che estirpiamo dal nostro corpo, o dei prodotti della digestione che eliminiamo dalle nostre viscere, dal momento che ci appartengono nello stesso modo e che noi siamo assolutamente padroni di tutto ciò che emana da noi" (in De Sade, Opere, Mondadori, Milano 1976, pp. 100-1).

6. Giustizia, verità e misericordia

Cultura della potenza, cultura della violenza e cultura del desiderio: tre culture incapaci di misericordia. Esse sono rispettivamente animate, in forma prevalente, dalle ideologie borghese, marxista e radicale -- ma sono, anche, fra loro mescolate, dato che l'origine loro è una soltanto: il dualismo della scienza moderna e la dialettica dell'illuminismo. Che la nostra società, che di quelle tre culture vede la prevalenza, non lasci molto spazio alla misericordia, è nella logica delle cose.

Ed è in riferimento a tali culture che il Papa richiama il mondo alla misericordia, unica via per frenare un movimento che porta alla catastrofe. Una misericordia che non è né filantropia illuministica, né solidarietà di classe, né intersoggettività ludica; ma si innalza, come compimento, oltre la giustizia e la verità. La misericordia cristiana non è mai solidarietà col male o con l'errore, come vediamo oggi non di rado accadere nella pseudomisericordia sentimentale e populistica; essa è, invece, la sovrabbondanza della carità, che riconosce la giustizia e la verità solo per superarle in un dono più alto. Come scrive S. Bonaventura (nel Sermo super Dominicam in palmis, I, 1; IX 243 b), "pietas misericordiae sine veritate justitiae est potius vitium quam virtus".

L'antropologia integrale del cristianesimo non procede per contrapposizioni o per esclusioni o per riduzioni. Essa è una antopologia comprensiva, che unifica scienza umana e saggezza divina. La misericordia non è contro o senza la giustizia, non è senza o contro la verità, ma è insieme o oltre la verità e la giustizia. Non avviene a caso che il medesimo mondo che disprezza la verità e la giustizia sia poi anche incapace di misericordia. Anche qui è l'intellectus fidei di S. Tommaso a dirci la parola giusta: "quidquid Deus facit in nobis, est ex justitia, vel veritate, vel misericordia; primum est altum, secondum est altius, et tertium est altissimum" (In expositione super Psalterium David, 35, principio).

Nel primo Libro dei Re (3, 5 ss.) il Signore concede a Salomone di chiedergli tutti ciò che vuole. Il saggio monarca chiede alla misericordia divina le due cose più importanti: la saggezza, che consente di cogliere la verità; e il cuore docile, che induce ad operare la giustizia e ad essere misericordioso con i poveri. Anche in questo episodio biblico troviamo unite giustizia, verità e misericordia. Antonio Rosmini, che commenta con profondità questo episodio nella sua Storia dell'amore (II, 22), vi trova il supremo imperativo dell'etica cristiana: che è l'agostiniano "ordo amoris" (De civitate Dei, XV, 22), ossia quell'amore ordinato, che è riconosciuto teoretico dell'ordine ontologico e impegno pratico per rispettarlo. Ma anche Salomone perse, insieme con la misericordia, la verità e la giustizia, quando il suo cuore pervertito amò di amore disordinato, mosso dalla potenza, dalla violenza e dal desiderio.

Se volessimo dare all'amore ordinato della tradizione cristiana un altro nome, assai appropriato al tema e al luogo di questo incontro, dovremmo chiamarlo "amore misericordioso". Tutta l'Enciclica "Dives in misericordia" ci svela i significati profondi di tale amore. Esso è primariamente riconoscimento, che l'uomo fa, della propria creaturalità e del proprio peccato; è, come primo motore, l'atto misericordioso di chi crea per semplice dono di amore e redime per un dono di amore ancora più grande ("mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti"); è, da parte dell'uomo, amore per Dio, che si traduce poi necessariamente nell'amore per il prossimo. Anche la nostra misericordia per l'altro, non è che misericordia ricambiata.

Nel suo breve trattato De misericordia (la questione 30 della secundae), S. Tommaso mostra che solo in Dio la misericordia, come dono del Più al meno, è la virtù suprema; nell'uomo lo è carità, come amore di Dio, di cui la misericordia è la traduzione come amore del prossimo: "Caritas, per quam Deo unitur, est potior quam misericordia, per quam defectus proximorum supplet. Sed inter omnes virtutes quae ad proximum pertinent potissima est misericordia, sicut etiam est potioris actus: nam supllere defectum alterius, inquantum huiusmodi, est superiori et melioris".