Giovanni Testori

"LA STRUTTURA DELLA "DIVES IN MISERICORDIA"  COME METAFORA DEL SUO SIGNIFICATO

Forse può parer giusto chiedersi sin dall'inizio se sia lecito e, soprattutto non diminuito, avvicinare e leggere un'Enciclica assumendola come evento totale e, dunque, conglobante tutti i suoi significati (o, quantomeno, il significato in cui primariamente s'incentra); assumendola, dicevo, dalla parte della sua scrittura. Non si tratta di svolgere un'esercitazione di critica stilistica; per quanto, ove pure a tale esercizio intendessimo fermarci e, anzi, tanto più quanto più quell'esercitazione riuscissimo a portare sino all'estreme conseguenze, a crescerci davanti sarebbe proprio, di lei, l'Enciclica, il senso e il significato primari; cioè a dire la parola vissuta, anzi, ricreata come verbo d'amore, di preghiera, d'insegnamento e di missione. Ma, per l'appunto, tale parola, tale verbo, facendosi pronuncia, facendosi scrittura, facendosi, ecco, sangue e carne, si determina fatalmente quale forma; dunque, quale struttura. Pronuncia, scrittura e, in prima e ultima analisi, sangue e carne il verbo non può diventare che accettando la stessa umiliazione, solo apparentemente dimunitiva, che accettò Dio quando per passione infinita d'amore e di misericordia, volle incarnarsi e farsi uomo; l'umiliazione d'assumere cioè i limiti e le miserie della nostra forma.

L'inscindibilità tra forma e contenuto, tra significato e significante, dilatando, tra fede e testimonianza, tra fede e azione, è del resto il punto focale cui si riferisce Giovanni Paolo II proprio quando parla di "cultura". Non è solo una forma o un significato espressivi quelli cui Papa Wojtyla si riferisce, bensì una forma e un significato "complessivi" che costituiscono l'immagine stessa della vita dell'uomo, del suo duro e dolente passare nel tempo e nello spazio, dunque, del suo comporsi in storia. In tale costituirsi in forma, che riguarda l'interità stessa dell'esperienza esistenziale, si trovano momenti più direttamente e liminarmente tesi a creare archetipi di strutture significanti, tanto degli atti primari dell'esperienza religiosa, quanto degli atti primari dell'esperienza espressiva. Ancorché tutta la forma della vita sia struttura esprimente, l'espressività legata all'esperienza religiosa e quella legata all'esperienza artistica s'accostano fino a sovrapporsi proprio nella loro diretta e liminare esigenza di farsi costruzioni, strutture, forme luminose, piene, perfette, e direi, emblematiche di quelle medesime esperienze.

Emblematiche, non significa simboliche. Significa solo capaci di contenere, uno per uno, tutti i segni e, uno per uno, tutti i significati da cui si sono mosse e sono state determinate; e poi, alla fine, la somma intera di quei segni e di quei significati. Praticamente alla struttura di un'opera è demandato d'offrire l'immagine visibile e tangibile del suo senso più imo e della sua più ima complessità. Tale visibilità e tale tangibilità risultano così efficienti che, forse, non è improprio dire come, solo procedendo da loro e penetrando dentro le loro strutture e le loro articolazioni più segrete, si faccia veramente visibile e tangibile il significato e, nel nostro caso, l'insegnamento; poiché esse, in realtà, sono il luogo reale dell'incarnazione e, insieme, dell'ostensione di lui, il significato; e, dunque, di lei, la docenza.

Fin dalla prima Enciclica di Giovanni Paolo II, la "Redemptor hominis", soprattutto se paragonata alle encicliche dei suoi predecessori e, magari, proprio perché le seguiva, a proposito di strutture, un dato apparve con evidenza impressionante. Dentro la continuità di linea della Chiesa maestra, della Chiesa cioè docente, s'apriva una diversificazione la cui novità e la cui forza non potevano (e non possono) non chiamare in causa il nuovissimo e irrepetibile timbro (forse dir timbro è dir poco) della personalità umana e dell'esperienza culturale dell'attuale Pontefice.

Restando alle strutture, con la "Redemptor hominis" s'assisteva al formarsi, sulla linea per dir così distesa, verticale o orizzontale, delle encicliche dei precedenti pontefici, d'una sorta di curvatura continua, di circolarità. Insomma, sulla progressione ragionata, di necessità teologicamente e filosoficamente dimostranti di quelle, s'assisteva all'inglobarsi sferico d'una progressione e d'una necessità che parvero subito, furono e sono ben più testimoniali che dimostranti. Proprio per questo ho parlato di struttura circolare e di sfera. Tale evidenza, anche nella sua capacità d'aprirsi, sigillarsi, riaprirsi continuo e, dunque, nel suo continuo dilatarsi, recuperare il passato, vivere il presente e spalancarsi verso il futuro, farsi, insomma, via via sempre più vasta, fino a coincidere con l'infinitezza stessa del cosmo, ha ricevuto nella "Dives in misericordia" la sua strutturazione più lucentemente architetturale ma, nello stesso tempo, più arditamente esplosiva.

Qualcuno potrebbe chiedersi come possano coesistere in un sol testo (ché tale, senza voler ricorrere ad alcuna riduzione, anche un'enciclica resta pur sempre); qualcuno potrebbe chiedersi come in un sol testo possano coesistere la stabilità propria e ciò che è architettura e la vitalità e persino l'improvviso e l'inatteso, propri a ciò che è esplosivo.

Ma, la misericordia di cui il Padre è ricco, e che proprio in Cristo viene rivelata, non è architettura così aperta da scendere a calarsi dentro l'uomo e d'accettare e redimere, dell'uomo e della terra, tutti i sussulti e le esplosioni? E ancora quella misericordia non è così trepida, reale innamorata e infinita da scatenare e suscitare nell'architettura della terra e del cosmo, dell'uomo e della storia, dentro il tempo e fuori del tempo, prima di farsi carne, poi il suo spirare là sulla croce, quindi l'impeto travolgente del suo risorgere?

Del resto la struttura circolare, anche quale forma geometrica, pare la sola capace di far accendere in sé le esplosioni nella misericordia, di lasciar che esse invadano il mondo, senza che risulti intaccata la sua originaria struttura. Anzi, la struttura circolare proprio da quelle esplosioni riceve la possibilità di continuamente aprirsi e sigillarsi, cui ci riferivamo prima: di continuamente darsi (il che è proprio della misericordia) e nello stesso tempo di continuamente ricostituirsi; cioè a dire d'essere e divenire continuamente se stessa. È qualcosa di ben più centrale dei movimenti di sistole e diastole propri al cuore umano: se mai, ecco, più vicina sembrerebbe l'immagine della circolazione sanguigna presa nella sua globalità; anche per l'arricchimento che in essa avviene (ma che avviene altresì fuori di essa) da quel continuo movimento che la dissalda e risalda.

A questo punto converrà avvicinarsi alla struttura della "Dives in misericordia" e, anzi, cogliere e sorprendere in atto la circolarità e sfericità cui fin qui ci siamo riferiti. In effetti, se esaminiamo il punto d'attacco e poi ci spostiamo ad esaminare il punto di chiusura, ci avvediamo che i termini del discorso si presentano uguali; persino le parole sono restate quasi le stesse. La citazione paolina con cui l'Enciclica si apre, riappare nel suo chiudersi. Ecco le parole d'inizio: "Dio ricco di misericordia è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre; proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l'ha manifestato e fatto conoscere". Ed ecco le parole di chiusura: "La ragione del suo essere (cioè della Chiesa) è, infatti, quella di rivelare Dio, cioè quel Padre che si consente d'essere visto nel Cristo". Il termine nuovo (esplosivo), che s'è inserito tra inizio e chiusa, è lei, la Chiesa; ma tutta la struttura dell'Enciclica consiste proprio nel testimoniare il manifestarsi storico del Padre quale infinita, esplodente misericordia; quella misericordia di cui la Chiesa è, per l'appunto, la prima, perenne e continuamente rinnovantesi costruzione.

A provar meglio l'uguaglianza dei termini d'inizio e dei termini di chiusura dell'Enciclica, mi par giusto far notare un altro particolare, che solo una lettura affrettata potrebbe considerare laterale. Si dice, infatti, ad apertura, a proposito dei nostri anni. "In questi tempi critici e non facili"; e, alla fine, è scritto: "per quanto forte possa essere la resistenza umana, per quanto marcata l'eterogeneità della civiltà contemporanea, per quanto grande la negazione di Dio nel mondo moderno..."

Voi vedete: giunto alla fine il cerchio o la sfera della "Dives in misericordia" si riallaccia all'inizio anche nel suo assillo e nel suo giudizio sul presente; come abbiamo già visto l'esplosione intercorsa riguarda l'immanenza operativa, dentro tale cerchio, o sfera, della Chiesa. Ma anche la Chiesa, com'è voluta da Cristo e come appare lungo tutto il testo, è struttura sferica, circolare: è abbraccio. L'abbraccio della misericordia del Padre che si rivela nel Cristo genera, proprio a contatto con "le difficoltà dei tempi", un'altra struttura od abbraccio: per l'appunto, la Chiesa.

Ugualmente tutte le otto parti, di cui l'Enciclica è composta, viste, lette e penetrate nella loro costruzione, si mostrano come altrettanti cerchi interni al cerchio complessivo e totale, ovvero come altrettanti aprirsi del cerchio primario (e questo proprio mentre si conferma nella sua misericordiosa perfezione) verso la bisognosa imperfezione dell'uomo e dei tempi per poter indicare all'uomo e ai tempi la strada della salvezza; che è quella che si farà rientrare attraverso Cristo e, con Cristo, attraverso la Chiesa, nella sfera, anzi nell'abbraccio della pietà, della carità, della misericordia divina. Qualcosa di simile accade, se consideriamo i singoli capitoli in cui le otto parti sono suddivise. Il discorso di Giovanni Paolo II non può procedere se non col ritmo della misericordia del Padre: che è quello del suo perenne, quotidiano rivelarsi attraverso Cristo; dunque, non può procedere che discendendo ogni volta, ad ogni passo e ad ogni capitolo, dentro l'uomo e dentro gli affanni, l'errore e il male dei tempi umani. Più che di un ritmo "enciclico", mi sembrerebbe pertinente parlare di un ritmo "ciclico": d'un ritmo che, mentre procede e per poter procedere nell'ordine dell'infinita passione della misericordia divina, deve continuamente fermarsi, tornare su di sé e ricominciare: che significa tornare alla citazione paolina da cui prende il suo stesso titolo. Ma ognuno di questi "ritorni", mentre sviluppa l'Enciclica nella direzione del profondo e dell'ostensione, e ne aumenta ed allarga così di continui la dimensione, la cristallizza e precisa; e la cristallizza e precisa offrendola continuamente da capo come atto di carità, come atto di misericordia. Il senso finale è, per l'appunto, d'una coincarnazione continua e vibrante della parola con il movimento proprio della misericordia. Essa più che venir 'definità, viene così, nelle parole dell'Enciclica di Giovanni Paolo II, 'agità. La metafora della struttura formale diventa per questa via, non tanto, secondo la definizione di Eliot, il "correlativo oggettivo" di cosa sia la misericordia del Padre, ma il "correlativo oggetto" della misericordia del Padre che si mette continuamente in atto. Così quel senso che, a lettura terminata, noi riceviamo d'un testo che si chiude solo per potersi aprire all'infinito dentro la coscienza e il cuore d'ogni uomo, è la metafora non astratta, ma reale, anzi, pressocché fisica, dell'azione senza fine che è proprio alla misericordia. Tutto questo e, massime, l'inevitabilità persino muscolare ed ossea della struttura che via via l'Enciclica crea e ricrea dentro e davanti a noi, rende la "Dives in misericordia", come le due precedeti encicliche di Giovanni Paolo II, più simile al ritmo e alla struttura testimoniali e profetici dei testi biblici, che non al ritmo e alla struttura delle encicliche dei precedenti Pontefici.

Non è che nella "Dives in misericordia" la passione per cui ogni uomo è figlio e socius in Cristo, faccia patire una qualche diminuzione all'intensità dei pensieri; è che finalmente anche il pensiero viene ricondotto alla sua origine di passione: e questo nel doppio e parallelo significato di sofferenza e d'amore. Per questa via anche lui, il pensiero (anche il pensiero teologico) cessa d'essere staccato dalla complessità dell'uomo e della sua storia e scende (o sale), in parità di gradi e di potenza, alla necessità e alla capacità profetiche che sono in ogni uomo: e, mai separandosi, unisce o riunisce nella misericordia tutte le divisioni che nell'uomo le difficoltà dei tempi han generato o generano. Non per niente l'Enciclica si apre su quest'avviso: "Mentre le varie correnti del pensiero umano nel presente e nel passato sono stare e continuano ad essere propense a dividere, la chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli". Ma quel "seguendo Cristo" è, in primissima e totale istanza, misericordia. Dunque se il proprio della misericordia del Padre è congiungere, allacciare, abbracciare l'uomo al Padre e in quest'abbraccio congiungere e abbracciare l'uomo all'uomo, ecco che la struttura circolare della seconda Enciclica di Giovanni Paolo II è metafora anche (e, a questo punto, potremmo aggiungere soprattutto) di quell'abbraccio; e della sua iterazione che chiuderà il cerchio, la sfera solo nel giorno dell'ultima e finale Parusia. Mentre le sue continue interruzioni, i suoi continui ritorni, le sue continue discese dentro la miseria e il peccato di noi uomini, al solo scopo di salvarci, sono la metafora dolente e insieme infinitamente appassionata del continuo e riverificarsi e rioffrirsi dell'Incarnazione.

Strutturalmente la sfera complessiva della "Dives in misericordia" è l'immagine visibile, tangibile e penetrabile dell'infinito movimento circolare della carità e dell'amore del Padre: le sfere interne delle otto parti, sono le immagini, altrettanto visibili, tangibili e penetrabili, del continuo incarnarsi di tale carità e di tale misericordia nel Figlio del Padre, cioè in Cristo: le sfere, ancor più interne dei singoli capitoli di cui ognuna delle otto parti risulta composta, sono le immagini del sostare, trepido e lucente, di tale carità e di tale amore dentro le "difficoltà" dei tempi che via via l'uomo vive, sostare per illuminarlo e ricondurlo alla suprema ragione della sfera maggiore: cioè dell'abbraccio complessivo e finale dentro la Verità. In tale struttura, esattamente nel terzo capitolo della quarta parte, Giovanni Paolo II ha apertamente ripreso il ruolo primario che nell'estendersi della misericordia del Padre attraverso il Figlio ebbe Maria, che egli definisce appunto "Madre della misericordia". Qui, però, non si tratta d'una sfera interna alle altre, bensì di una creatura che, affinché la misericordia del Padre potesse essere conosciuta, venne assunta dentro la sfera primaria; per conseguenza Maria fa parte della struttura totale; del cerchio globale: e, facendo parte di quello, risulta interna, e dunque, partecipa a tutte le altre. Dunque, presente e partecipe alle discese più profonde e alle soste più lunghe e dolorose che la misericordia del Padre opera dentro la storia. "Nessuno -- dice L'Enciclica -- ha sperimentato, al pari della Madre del Crocefisso il mistero della croce, lo sconvolgente incontro della trascendente giustizia divina con l'amore: quel "bacio dato dalla misericordia alla giustizia". La citazione della parola 'baciò, tratta dai Salmi, non è caso. Essa rivela, nella sua quotidiana, umile, familiare ed insieme enorme fisicità che il cerchio e la sfera, perennemente formatisi, sono la reale, visibile e tangibile forma, struttura ed architettura, della "Dives in Misericordia". Forma, struttura ed architettura non solo di pensiero, ma anche di cuore e, ecco, di labbra. Il che torna a confermare la coincarnazione dell'Enciclica stessa nella "ciclicità" testamentaria.

Ho sentito sussurrare che alcuni eminenti esegeti avrebbero notato nelle Encicliche di Giovanni Paolo II, appetto alla nostra "lucidità" di latini, un tale quale "confusione" slava. Ignorando da dove essi possano aver tratto la confusione quale caratteristica propria alla tradizione della cultura slava, mi sembra opportuno rispondere che, per rispettare la realtà di tali encicliche, bisognerebbe togliere dalla parola "confusione" il "con". Da questa mutilazione ci resterebbe davanti la parola "fusione". Ora, nulla mi pare più giusto, trattandosi dell'insegnamento di Chi nella Chiesa ci è Padre, di lei la "fusione": e nulla più della "fusione" mi sembra giusto, trattandosi, come nel nostro caso di un'Enciclica che s'incentra sulla misericordia di Dio. Se è vero che il proprio di tale misericordia è di scendere fino alla nostra nullità e salvarla, sì da poterci portare, nell'ultimo giorno, alla partecipazione e alla fusione con lei, che è misericordia perché verità e che è verità perché è misericordia.

Riportiamo, come le abbiamo riprese, le risposte di G. Testori alle domande presentate a lui dopo il suo intervento. Il testo non è stato rivisto dall'oratore e conserva quindi il carattere discorsivo.

D. Mi piacerebbe sapere i motivi, di ordine esistenziale o di altro ordine che hanno spinto Testori alla conversione al cristianesimo.

R. La domanda mi obbliga a fare un pò di autobiografia. Io provengo da una famiglia profondamente cattolica, del cattolicesimo lombardo, quello della religione dei nostri vecchi di casa. La mia famiglia mi ha sempre seguito, anche quando sbagliavo, ero disperato. La mia famiglia credeva e viveva "dentro" la misericordia di Cristo. Dalla mia famiglia ho ricevuto tanti insegnamenti.
Adesso improvvisamente me ne viene uno che io non ho mai scordato perché riguardava il mio papà, che dopo aver lavorato tanti anni aveva messo su una piccola fabbrichetta che poi ha ingrandito con l'aiuto di mio fratello. Io mi ricordo che dovevo proprio essere un bullo, ero un bambinello, avevo sette anni, e c'era un bambino della mia stessa età che per Natale aveva avuto pochi regali, mentre a me il mio papà me ne aveva dati tanti. E il giorno dopo era S. Stefano. Dopo la Messa, io ho preso in giro quel bambino perché aveva avuto pochi regali finché si è messo a piangere.
Mio papà lo ha visto piangere e gli ha chiesto cosa gli fosse successo. Il bambino gli ha detto che io lo avevo preso in giro perché non aveva avuto regali belli. Allora mio padre mi ha preso, alle cinque quando uscivano gli operai, mi ha messo in ginocchio e mi ha dato calci e sberle mentre gli operai passavano e mi disse: "Ma chi credi di essere, cretino"? Questa lezione tanto violenta che oggi farebbe rabbrividire, fu per me piena di misericordia e di carità perché mi ha fatto capire l'errore orrendo che avevo commesso; mi ha fatto capire la questione dell'uomo, della giustizia, del diritto, molto più di tanti testi di sociologia.
Scusatemi se ho fatto questa disgressione, ma mi è venuto spontaneo di dirvela.
Allora io sono uscito da questa famiglia, da questo padre e da questa madre. Mia madre ce l'ho sempre addosso, la sento come una carezza, come quel bacio di cui parla il Papa con espressione poetica nella sua Enciclica. Perché voi non sapete che il bacio è argomento di cui mi parlò tempo fa un amico mio, Domenico Ponzio, il quale voleva fare un libro sul bacio nell'arte. Era venuto da me e mi dice: "Tu credi che riuscirò a fare questo libro?" Lui pensava di trovare una grande quantità di opere d'arte che riguardassero il bacio. Gli dissi: "Guarda che ti sbagli, ne troverai pochissimi; sette o otto al massimo, fra gli altri la Madonna e Gesù Bambino e Gesù Bambino alla Madonna e la Madonna a Cristo morto. Il bacio della Madonna a Cristo morto è il bacio per eccellenza che l'arte ha espresso senza ritrosie, senza fermarsi.
Sugli altri baci, non si capisce perché, anche gli artisti più avventati, si sono sempre fermati. Il bacio che mia mamma mi ha dato sul letto di morte, l'ho in me, lo porto in me; una vita che si chiude con un bacio della mamma al figlio, come la Madonna che bacia il Cristo, il Figlio suo morto.
E così ho cominciato nella mia famiglia, nell'amore ai fratelli e alle sorelle oltre che al babbo e alla mamma. Poi sono entrato in contatto col mondo; la mia sventatezza, la tentazione, mi hanno sconvolto. Però quando io sento parlare di conversione, ho un pochino di timore perché bisogna convertirsi tutti i giorni.
Sicuramente Cristo è stato sempre vicino a me, anche quando non accettavo Dio, anche quanto litigavo, anche quando lo bestemmiavo, soprattutto quando lo bestemmiavo lo sentivo lì, sentivo lì proprio lui, fisicamente. Per esempio una cosa che a me dà un'enorme forza, un aiuto enorme, è proprio la "fisicità" di Giovanni Paolo II. Il suo incarnare veramente la parola di Cristo fino al punto di essere andato così vicino al Calvario, quando ha subito l'attentato. È una cosa di cui noi cristiani ci dimentichiamo, come se avessimo paura di quello che è accaduto e invece è il momento in cui Cristo ha chiamato il Papa più vicino a sé. E il perdono subito dato. Come possiamo parlare del Papa come se questo non fosse accaduto? E pensare che il momento dell'attentato è il punto in cui forse è stato più vicino a tutti noi e ha preso tutti noi, il nostro peccato e l'ha pagato per tutti noi con il suo offrirsi nel sacrificio. Scusate se vi parlo confusamente.
Nel momento in cui Dio, il Padre, ha voluto che io nascessi, ha fatto un'irruzione nell'abbraccio fra mio padre e mia madre, come dire: "Tu esisterai, tu sei, tu sei mio figlio". Ecco, questa nascita io la consideravo una maledizione perché non riuscivo a dire "sì"; dicevo "no" alla nascita, dicevo "no" alla vita, dicevo "no" all'amore. Mi sembrava tutto odierno, tutto destinato solo alla morte e la morte era una realtà insopportabile. E allora ho fatto questa cavalcata tremenda. Intanto vicino alla mia famiglia la gente che stava male mi fermava. Era Lui che mi fermava prendendo forma nella gente che stava male. Quelli che soffrivano.
Io non ho nessun merito in questo perché sono nato con la disposizione a sentire le sofferenze degli altri. Se uno è capace di vedere che uno sta male, di fermarsi, non è merito suo. È un segno che Dio dà e bisogna realizzare. Ma io lo realizzo, magari contro voglia, sbagliando; però, forse se non mi son perduto del tutto è perché la misericordia del Padre, di Cristo, e la luce dello Spirito nella mia famiglia e con l'azione della Madonna, questa Madre, e anche la mia madre terrena, mi inducevano sempre a non andare via quando vedevo che qualcuno stava male, con tutte le reazioni fisiche, psicologiche, di carattere. E allora andavo, e lì, quando vedevo qualcuno che stava male, di colpo, vedevo Lui, Gesù. Lo vedevo, era proprio lì, si sovrapponevano le immagini, e mi sembrava che mi dicesse: "Ma tu chi credi di aiutare? Chi credi di consolare? A chi credi di togliere un pò di dolore?" Era lui.
Poi, sapete, se uno lo fa sul serio anche la bestemmia, anche il no alla vita, anche il no a Cristo... Cristo non se ne va, mai. Si lascia calpestare, si lascia insultare, si lascia stracciare...
Uno se lo fa seriamente a un certo punto batte la testa, una, due tre, quattro volte.... poi o si sfracella, o il muro cade.
Ecco la Misericordia infinita del Signore ha fatto sì che avvenisse questo in me. È conversione finalmente l'umiltà di dire "Sì".
Forse la vera conversione è questa. L'umiltà di dire "sì, sono tuo figlio, accetto e anzi ti glorifico anche se dovrò soffrire, anche se ho sofferto, anche se è dolore della vita" Il dolore che cresceva intorno a me, quel dolore che non riuscivo mai ad evitare quando lo incontravo, era un'esigenza fisica. Tutta quella rovina di cui in qualche modo mi sentivo responsabile, questa gioventù che vedevo sfasciarsi, e poi la malattia di mia mamma, che è durata a lungo e la mia crisi anche, forte, quello che si chiama l'esaurimento. Non ne potevo più, avevo proprio bisogno di umiliarmi e finalmente mi sono umiliato pronunciando un "sì".
Tutto questo avvenne attraverso questa malattia mia, l'esaurimento, e fece sì che tornassi alla mia casa, vicino a mia madre. Mia madre non mi ha mai detto niente, questa è una carità enorme. In fondo era sempre la stessa, mi guardava con il suo sguardo che era lo sguardo stesso di Cristo. Non mi rimproverava mai prima della conversione. Ed era la cosa che a me faceva più effetto. Dicevo: "Ma dove le viene questo?" La mia mamma è morta fra le mie braccia. In quel momento ho sentito appunto come quel bacio di Maria, lei, mia madre che mi aveva dato la vita insieme a mio padre, nel momento della morte, mi ha fatto sciogliere le ultime resistenze. Tutto qui.

D. Quali sono le attività che svolge attualmente? Quale accoglienza e quali difficoltà trovano la sua proposta e la sua testimonianza di vita?

R. Quando ho incominciato a scrivere i primi articoli non ho avuto speciali raccomandazioni né da ministri né da prelati, né da capi. Ho avuto l'aiuto dei ragazzi di Comunione e Liberazione.
Tentavo di dire e di partecipare quello che mi era accaduto, la grazia che avevo ricevuto. Il primo riflesso l'ho avuto nei giovani. Questo mi è sembrato un altro segno, della infinita Misericordia che mi aveva salvato. Ho toccato il punto più debole, ma anche il più vivo; il più fragile, ma anche il più innovativo della vita. Sì, dicono che ho perso degli amici; mi si disse che tutta la cultura più alta mi avrebbe lasciato.
Supponendo che qualcuno mi abbia lasciato, tanto ho trovato di ascolto, di amore, di partecipazione, di festa, di comprensione, che mi son sentito come arricchito e continuamente mi sento arricchito. Tante volte mi dico: "mamma mia sono stanco e lascio tutto". Ma poi vado avanti. Perché? Perché sento questa reciprocità, questa circolarità, mentre prima ero una larva. Nella solitudine. Facevo urli a Dio, a Cristo. Ero un urlo, un urlo imprecante. Dopo che ho visto, ho capito e ho assistito a una comunicazione circolare perché c'era già un tessuto che mi accoglieva. Naturalmente c'era una parte di resistenza, sovente.
Non mi toccano però anche perché io posso rispondere da uomo a uomo. Posso sbagliare, infinite volte. Molti hanno altre posizioni, altri modi di intendere la vita ed è giusto che si debba dialogare e anche in termini ottimi. Lasciato da parte, non vedo recensire più i miei libri, ma è una mancanza che non sento, perché è tale la ricchezza che mi è venuta da questi incontri (come questa sera) che mi sento nella pienezza dell'essere come si suol dire.
E poi, anche quando non ci sono incontri c'è continuo il miracolo della Chiesa, come il miracolo della famiglia. Uno, sente che c'è, anche quando non la vede. C'è, e continua anche quando non c'è più il papà, non c'è più la mamma. È proprio questo "essere" perenne, che non muore mai. È così, questo abbraccio della Chiesa il cui insegnamento io vivo, è un affetto, una presenza, un giudizio, e anche un richiamo che mi viene proprio come il richiamo e il giudizio che mi veniva dalla mia famiglia. La Chiesa è la grande famiglia in fondo. Questa struttura è estesa al mondo, per cui ognuno di noi è amato e incoraggiato, ma soprattutto molto amato. Io penso che se noi cristiani amassimo un pò di più questa grande famiglia, perché è la circolarità di struttura del Cristo che la rinnova continuamente e le dà vita; se contribuissimo un pò di più e non dessimo sempre le colpe agli altri (cioè se non parlassimo sempre della Chiesa come se fosse un qualcosa alla quale siamo esterni), ricordandoci che noi siamo peccatori con le nostre defezioni che colpiscono la Chiesa, la diminuiscono e la rendono e la rendono meno viva; se la sentissimo come una grande famiglia, con la Gerarchia che non è mai contro la libertà, è anzi per la nostra reale libertà, per l'obbedienza al nostro destino di figli di Dio; se facessimo tutto questo, io credo che aiuteremmo molto il compimento del disegno della Misericordia di Dio Padre celeste e di Cristo suo Figlio.
Ho avuto la fortuna di parlare con Giovanni Paolo II. Egli è talmente forte, che non ha bisogno del nostro aiuto; è talmente innamorato degli uomini che desta meraviglia. Quando lo vedo mi pare che dia tanto amore e che lo chiesa come tutti i veri, grandi, profeti e apostoli della Misericordia di Dio.

D. Come avverte Lei l'esigenza di inserire nell'odierno cristianesimo italiano la categoria del bello?

R. Il discorso diventa lungo perché riguarda il discorso della cultura cristiana e della inadempienza, cioè del "non amore" che questa cultura dimostra. Dimostra una certa dose di insufficienza, di non apertura alla Misericordia. Io ricordo che quando lessi uno dei testi di teologia rimasi affascinato come quando si leggono le poesie dei grandi poeti. Noi cristiani abbiamo dimenticato tante cose, e quando il Papa parla di cultura, di creatività, intende proprio questo: che la bellezza non è da intendersi in senso estetico. Anche perché io penso che, oggi, la bellezza non può disgiungersi dal senso drammatico. È una bellezza drammatica quella che noi consideriamo. Il cristiano è chiamato a creare delle forme di vita, di preghiera, di lavoro, di studio; ma anche delle forme poetiche, di arti figurative in cui la vita e il presente acquistino lo splendore, l'attualità e la bellezza. La bellezza non vuol dire "gusto" come diminuzione, ma la bellezza come intensità, come tensione. Io credo che questo sia necessarissimo, perché noi cristiani non siamo riusciti a produrre immagini di Cristo, in pittura, di fronte alle quali si possa inginocchiarci; dobbiamo accontentarci delle immaginette oppure di vedere riproposte le grandi immagini del tempo passato. Abbiamo paura. Non abbiamo forse abbastanza abbandono nella capacità di Cristo di invaderci con la sua grazia, è così anche quelli che sono pittori, non riescono. Se andiamo a vedere le immagini meno lontane da Cristo che sono state create nel nostro tempo sono quelle che sono state eseguite da pittori non cristiani. Anche qui mi ricordo, una intervista fatta a un pittore moderno, disperato, drogato, però grande pittore, che per alcuni anni veramente ha dato l'immagine allarmante di dove sta andando l'era moderna. Era un inglese che ha fatto alcuni trittici con il Cristo ridotto a un corpo maciullato, quasi irriconoscibile. E gli hanno chiesto come mai avesse fatto così la crocifissione, e lui ha risposto:
"Perché quando ho voluto o mi sono trovato a meditare sul dolore, mi sono accorto che la Crocefissione è il luogo degno, è il luogo unico, il luogo reale, dell'unico vero dolore".
Ecco, io credo al bello, come tensione, come intensità, come capacità di creazione di forme, di voci, di musica, di cultura, di preghiera, di vita e di modi di vita.
Guardate le nostre città come sono ridotte! Questa civiltà del benessere come le ha ridotte. E questo per guardare da noi, perché altrove c'è anche di peggio. Sono città del benessere queste, le grandi città. Sono città diventate orribili, brutte, sporche, la gente non si guarda più, non ci si dà più una mano, si ha paura e perché? Perché anche noi cristiani non ci muoviamo; cosa facciamo da contrapporre a questo dilatarsi dell'indifferenza, del "faccio per me", del tornaconto, della passività, dell'inerzia?
Cosa facciamo per proporre questa carità che deve diventare anche "sguardo" diverso? Diverso modo di camminare e di lasciar camminare, diverso modo di salutare e credere nel saluto, ripresa del saluto, che non c'è più. Le strade, o i luoghi, i giornali, i libri, è diventata la città tutta brutta, tutta inficiata, tutta venduta. Anche lì vogliamo la bellezza non come estetismo, ma bellezza come amore, come luce, come carità, come tenerezza, anche conoscendo la durezza della vita. La parola se la si ascolta, domanda di diventare incarnazione. E l'incarnazione della Parola, anche se drammatica, anche se nella realtà della croce, è bella e si costituisce come evento umano. E questo qui credo sia proprio quello che noi stiamo aspettando.
Il Papa infatti parla di cultura, di letteratura, di poesia, di filosofia, di teatro, di psichiatria, di medicina e di scienze, parla della immagine totale della vita, della immagine globale della vita ed è lì che noi cristiani pecchiamo, manchiamo e crediamo che basti, quando va bene, pregare; che basti dirsi cristiani, che basti star lì... No, no, non basta star lì. Bisogna lasciarsi invadere. E questa grazia è tale per cui se noi realizziamo questa immagine di vita, diciamo pure drammaticamente, non può essere che bella, pulita, luminosa, nel dolore. Il peccato di omissione credo sia il più terribile dei peccati. Nel Vangelo se ne parla. È tremendo dire "no" a questo bisogno che c'è nel mondo della bellezza e della lucentezza di cui noi dovremmo essere portatori.
Guai se noi continuiamo a star fuori, ad aver paura, perché l'uomo di oggi domanda aiuto e non domanda che questo. Oggi il bisogno non è più la mitologia del sociale, il sociale del benessere, il sociale del marxismo, questo non incanta più nessuno. Questa mentalità del sociale ha reso gli uomini passivi, facendoli oggetti, manipolabili e manipolati. Che cosa domanda l'uomo di oggi? Che gli sia concessa la possibilità di ricostruire l'uomo, la figura dell'uomo, cioè la figura del figlio.
Non tralasciamo di tentare di salvare e di restituire la bellezza dell'essere figli che è la bellezza di essere "dentro" la Misericordia del Padre.
Diventiamo tutti più creatori perché è proprio della Misericordia del Padre di creare figli.