Prof. Maurice Gilbert, S.J.

L'ENCICLICA "DIVES IN MISERICORDIA" di S.S. GIOVANNI PAOLO II E LA BIBBIA

Un'enciclica veramente biblica

Chiunque ha letto l'enciclica "Dives in misericordia" di S.S. Giovanni Paolo II sarà stato colpito dal carattere profondamente biblico di questo testo. Uno sguardo rapido sull'indice della materia dell'enciclica lo rivela subito: degli 8 capitoli che la compongono, i primi 5 parlano esplicitamente del messaggio biblico; il primo si apre con una citazione del Vangelo di Giovanni, il secondo presenta il messaggio messianico, il terzo offre una sintesi sulla misericordia nell'Antico Testamento, il quarto rilegge la parabola del figliol prodigo e il quinto espone l'insieme del mistero pasquale. Inoltre colui che percorre rapidamente la serie delle note può constatare che la quasi totalità di queste rinvia unicamente alla Bibbia: quantità di referenze bibliche sono date e anche una lunghissima nota, al numero 52, analizza il vocabolario della misericordia nell'Antico Testamento. Delle 140 note 10 soltanto rinviano a testi diversi dalla Bibbia: il I capitolo, che serve di introduzione, si riferisce tre volte alla Costituzione "Gaudium et spes" del Vaticano II; l'"Exultet" della Vigilia pasquale è citato poi una volta (nota 70), egualmente il Credo di Nicea-Costantinopoli (nota 77). La Costituzione "Lumen Gentium" del Vaticano II è citata a proposito di Maria (nota 108); gli ultimi capitoli citano ancora "Gaudium et spes" tre volte (note 109, 110, 120) e il Papa Paolo VI è citato due volte (note 125, 127). Queste poche osservazioni, molto materiali, confermano ciò che Giovanni Paolo II scrive alla fine del I capitolo: "Desidero attingere all'eterno e insieme, per la sua semplicità e profondità, incomparabile linguaggio della Rivelazione e della fede, per esprimere proprio con esso, ancora una volta, dinanzi a Dio ed agli uomini le grandi preoccupazioni del nostro tempo" (p. 10).

Raramente un'enciclica si sarà conformata a questo punto, fino nell'espressione, alla Bibbia. Importanza dell'argomento

C'è di più. Il Papa è cosciente di toccare in questa enciclica un elemento fondamentale della Scrittura, e di conseguenza, della vita cristiana: "Questa esigenza (che gli uomini si facessero anche guidare nella loro vita dall'amore e dalla misericordia) fa parte dell'essenza stessa del messaggio messianico, e costituisce il midollo dell'ethos evangelico" (p. 14); "quell'appello alla misericordia... è una delle componenti essenziali dell'ethos del Vangelo" (p. 15) scrive Giovanni Paolo II concludendo la sua esposizione sul messaggio messianico.

Pertanto la misericordia ci è rivelata anzitutto in Gesù. Il testo giovanneo: "chi mi vede vede il Padre" (Gv 14,9), non soltanto serve il titolo al I capitolo, ma ritorna, come un ritornello, lungo tutta l'enciclica (note 3, 59, 79, 112-113, 140). Ora, il Papa rilegge quel testo, che Giovanni mette sulle labbra di Gesù, alla luce di un passo di "Gaudium et Spes" (22,1): "Cristo... svela... pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione ": egli lo fa "proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore" (p. 4). Così il Papa, non soltanto può indicare il legame che egli intende mettere tra questa enciclica sulla misericordia e la precedente "Redemptor Hominis", consacrata alla "Verità intorno all'uomo" (p. 4), ma inoltre, parlando della misericordia, intende chiarificare le preoccupazioni degli uomini di oggi: "un'esigenza di non minore importanza (di quella alla quale la "Redemptor Hominis" fu consacrata), in questi tempi critici e non facili, mi spinge, scrive Giovanni Paolo II (p. 4), a scoprire nello stesso Cristo ancora una volta il volto del Padre che è "misericordioso e Dio di ogni consolazione" (2 Cor 1,3)"; "lo esigono anche le invocazioni di tanti cuori umani, le loro sofferenze e speranze, le loro angosce e attese" (p. 5); "Oggi desidero dire che l'apertura verso Cristo... non può compiersi altrimenti che attraverso un sempre più maturo riferimento al Padre ed al suo amore" (p. 6); "l'uomo e il mondo contemporaneo hanno tanto bisogno (della misericordia). E ne hanno bisogno, anche se sovente non lo sanno" (p. 10); "nonostante molteplici pregiudizi, essa (la misericordia" appare particolarmente necessaria ai nostri tempi" (p. 35).

I pregiudizi sono infatti molteplici. Il Papa né dà i principali: "la mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende, altresì, ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia. La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l'uomo, il quale, grazie all'enorme sviluppo della scienza e della tecnica, non mai prima conosciuto nella storia, è diventato padrone e ha soggiogato e dominato la terra" (p. 8); " alle volte... accade che avvertiamo nella misericordia soprattutto un rapporto di diseguaglianza tra colui che la offre e colui che la riceve. E, di conseguenza, siano pronti a dedurre che la misericordia diffama colui che la riceve, che offende la dignità dell'uomo" (p. 34); "tutto sembrerebbe indicare che soltanto una parte sia quella che dona e offre, e l'altra quella che soltanto riceve e prende (ad esempio, nel caso del medico che cura, del maestro che insegna, dei genitori che mantengono ed educano i figli, del benefattore che soccorre i bisognosi)" (p. 69); "tali giudizi ritengono la misericordia come un atto o processo unilaterale, che presuppone e mantiene le distanze tra colui che usa misericordia e colui che ne viene gratificato, tra chi fa il bene e chi lo riceve. Da qui deriva la pretesa di liberare i rapporti interumani e sociali dalla misericordia e di basarli solamente sulla giustizia" (pp. 70-71).

Questi pregiudizi possono e devono essere superati con una migliore comprensione dei rapporti tra giustizia e misericordia alla luce della rivelazione. Vi ritorneremo più tardi. Resta il fatto che "l'uomo contemporaneo si interroga spesso, con profonda ansia, circa la soluzione delle terribili tensioni, che si sono accumulate sul mondo e si intrecciano in mezzo agli uomini. E, se talvolta non ha il coraggio di pronunciare la parola misericordia, oppure nella sua coscienza, priva di contenuto religioso, non ne trova l'equivalente, tanto più bisogna che la Chiesa pronunci questa parola, non soltanto in nome proprio, ma anche in nome di tutti gli uomini contemporanei" (p. 79); "il mondo degli uomini può diventare sempre più umano, solo se introdurremo nel multiforme ambito dei rapporti interumani e sociali, insieme alla giustizia, quell'amore misericordioso che costituisce il messaggio messianico del Vangelo" (p. 73). Ciò si farà se introduciamo il momento del perdono o se ci sopportiamo gli uni gli altri con carità, come lo chiede San Paolo (Ef 4,2): "se disattendessimo questa lezione, nota il Papa (p. 75), che cosa rimarrebbe qualsiasi programma "umanistico" della vita e dell'educazione?". Quest'ultima frase ci suggerisce un'osservazione che crediamo importante sulla base di un testo celebre dei libri sapienziali dell'Antico Testamento. Se in opposizione ai pregiudizi correnti, la misericordia deve essere considerata come fondamentale per la rivelazione, non dobbiamo dire che fa parte integrante del programma di vita e di educazione proposto dai saggi della Bibbia? Ora, in Prov. 8, nel discorso che rivolge agli uomini, chiunque essi siano, la Sapienza giustifica l'udienza che richiede, non soltanto dal fatto che le sue parole - essa dice - sono rette e franche, giuste e vere, non soltanto dal fatto che essa è Dio ed era accanto a Lui quando Egli organizzò l'universo e vi mise un ordine stabile, ma anche dal fatto che la Sapienza assicura un ordine nella società. Questa Sapienza di Dio, della quale i libri sapienziali dell'Antico Testamento sono l'espressione ispirata, e che Ben Sira chiama la Torà, cioè la rivelazione stessa di Dio nella nostra storia (Sir 24, 23), assicura l'ordine autentico, l'armonia nei rapporti interumani; il governo delle società può essere considerato buono e giusto se si ispira veramente ad essa affinché il diritto e la giustizia siano comuni. Essa si presenta da sé, dotata delle virtù essenziali del consigliere reale. Ora, quale immagine si facevano del re nel Prossimo Oriente antico? Fin dall'inizio del codice di Hammurabi fino al salmo 72 (71), il re appare essenzialmente come il difensore dei poveri, degli oppressi. Questa ideologia regale è ancora presente nelle beatitudini che aprono il discorso inaugurale di Gesù sulla montagna. All'epoca ellenistica, la clemenza, la bontà, la misericordia sono delle qualità che si esigono dai re.

Tutto sommato, ci pare che ricordano, sulla base della rivelazione, l'importanza primordiale della misericordia tra gli uomini, il Papa non fa nient'altro che esplicitare Prov 8, 12-21: la misericordia è uno degli elementi chiave dell'autentica Sapienza rivelata, un elemento che può assicurare un ordine reale nella società e senza il quale essa non potrà sopravvivere. Il Papa propone dunque alla nostra generazione un'autentica sapienza cristiana; la sua enciclica non è un testo pio da leggere all'ora della nostra meditazione soltanto, è una chiave di salvezza per la società umana attuale. Elogio della misericordia

Detto questo, vorrei parlare adesso del genere letterario di questa enciclica. Senz'altro il genere letterario di "Dives in misericordia" è quello di un'enciclica, però è raro, mi sembra, che un'enciclica sia consacrata a una virtù o a un attributo di Dio. Lo scopo del Papa non è semplicemente di essere letto, ma di essere ascoltato e quindi di convincere i suoi lettori. I greci dell'epoca ellenistica avevano classificato un genere letterario speciale per l'elogio di una virtù, l'encomion. Anche i latini lo conoscevano, ad esempio Seneca nel suo libro De Clementia.

Nella Bibbia, questo genere letterario è conosciuto soltanto dall'autore del Libro della Sapienza. Senza voler naturalmente forzare, vorrei mostrare che "Dives in misericordia" risponde alle stesse regole del genere letterario dell'elogio che si ritrovano nel Libro della Sapienza. Queste regole furono codificate da Aristotele nella sua Retorica e riprese in seguito da Cicerone e Quintiliano.

La prima parte, analoga ad un preludio musicale, enuncia brevemente il soggetto, ne mostra le dimensioni essenziali e l'importanza per i lettori, dei quali deve svegliare l'attenzione, sottolineando allo stesso momento la difficoltà del progetto a causa dell'opposizione che questa virtù può incontrare; alla fine l'autore precisa il suo scopo. Il primo capitolo di "Dives in misericordia" risponde a questa descrizione generale. Infatti, i principali temi dell'enciclica si trovano abbozzati rapidamente, anche la difficoltà contemporanea di accettare l'idea di misericordia. Tale autentico esordio ha inoltre questa caratteristica, in "Dives in misericordia", di utilizzare frequentemente la prima persona, l'io: l'autore si rivolge dunque personalmente ai lettori, ciò che l'autore del Libro della Sapienza farà soltanto nella seconda parte, e osserviamo che nell'enciclica questo "io" sparirà in seguito quasi completamente, per ritornare soltanto nell'ultimo capitolo. Inoltre, il Papa collega questa enciclica a quella che scrisse precedentemente, "Redemptor Hominis", indicando così che il suo nuovo testo, malgrado le apparenze del titolo, vuol apportare ancora una luce specifica alla verità sull'uomo, "Gaudium et spes" del Vaticano II è citato nella stessa prospettiva. Infine il Papa insiste sulla linea di riflessione che sarà la sua: la misericordia del Padre è rivelata e incarnata in Cristo.

Nell'encomion dei greci, dopo l'esordio, segue l'elogio propriamente detto. Vi si mostrano principalmente tre cose: l'origine, la natura e le opere di ciò che si loda: è la parte più importante del discorso. Nel Libro della Sapienza questa parte si trova nei capitoli 7-9, dove il caso di Salomone, il saggio per eccellenza, servi di filo conduttore all'autore che parla in prima persona. Questa parte del discorso è fatta soprattutto di analisi precise, poiché si tratta di definire l'oggetto del discorso. In "Dives in misericordia" questo elogio propriamente detto copre i capitoli 2-5. Questi quattro capitoli sono organizzati in modo concentrico: il cap. 2 ricorda il messaggio messianico di misericordia quando Cristo cominciò ad agire e ad insegnare, mentre il cap. 5 si focalizza sul mistero pasquale, sulla croce e la risurrezione di Gesù, e il Papa aggiunge ancora delle bellissime pagine su Maria, unita a Gesù nel mistero pasquale. Questi due capitoli sono dunque centrati sulla vita reale di Gesù, nel suo inizio pubblico e nel suo termine; così si illuminano e l'origine e l'agire della misericordia. Per definire la natura della misericordia, Giovanni Paolo II prende due capitoli, l'uno consacrato all'Antico Testamento, il cap. 3, e l'altro alla parabola del figliol prodigo. I termini utilizzati qua e là dal Papa mostrano che egli intende definire la vera natura della misericordia: il "significato dei termini e il contenuto del concetto, soprattutto il contenuto del concetto di misericordia (in rapporto al concetto di amore)" (p. 14): questa frase serve di annuncio al tema; "il concetto di misericordia nell'Antico Testamento ha una sua lunga ricca storia" (p. 16); "sarebbe forse difficile cercare in questi libri una risposta puramente teorica alla domanda che cosa sia la misericordia in se stessa. Non di meno, già la terminologia, che in essi è usata, può dirci moltissimo a tale proposito" (p. 20), e segue la lunga e importante nota 52, che precisa questa terminologia nell'Antico Testamento; la "precisa immagine dello stato d'animo del figliol prodigo ci permette di comprendere con esattezza in che cosa consista la misericordia divina" (p. 31 sottolineato nel testo); "occorre che il volto genuino della misericordia sia sempre nuovamente svelato", conclude il Papa (p. 35). Così i capitoli 3 e 4 riguardano infatti la vera natura della misericordia. Ne parleremo più avanti.

Nell'encomion dei greci, dopo l'elogio propriamente detto, il discorso cerca di convincere i lettori a decidersi a praticare ciò di cui si fa l'elogio. Il linguaggio si fa più semplice e si avvale di esempi concreti nella storia della pratica della virtù in questione. Questi esempi devono essere già ben conosciuti dai lettori che ne trarranno le conclusioni per la loro vita morale. Uno dei più adatti è di procedere con dei paragoni che sottolineano il contrasto tra quello che accetta e quello che non accetta l'oggetto dell'elogio. Nel Libro della Sapienza, la storia dell'Esodo era ripresa a questo scopo. Nell'enciclica "Dives in misericordia" del Papa Giovanni Paolo II i capitoli 6-8 mi sembrano avere lo stesso ruolo.

L'esempio è quello della Chiesa alla quale si contrappone la situazione del mondo di oggi. Malgrado gli aspetti positivi, il nostro mondo soffre di molti mali e le rivendicazioni della giustizia non riescono, anzi non possono riuscire a risolvere questi aspetti nefasti della situazione attuale. D'altra parte la Chiesa agisce sotto tre aspetti: proclama la misericordia di Dio, la realizza nel concreto, implora per l'umanità questa misericordia divina. L'introduzione del cap. 7 lega esplicitamente questi tre aspetti, che saranno poi sviluppati in due capitoli, dei quali il secondo e ultimo dell'enciclica, il cap. 8, sarà consacrato alla preghiera della Chiesa. In tal modo, l'enciclica culmina in questo invito alla preghiera. A questo proposito, è interessante notare che nel Libro della Sapienza anche l'elogio della Sapienza culmina nella preghiera per ottenerla: lì la preghiera è al centro del libro, alla conclusione dell'elogio propriamente detto, mentre qui, nell'enciclica, forma l'ultima fase di tutta la costruzione, e il fatto di consacrare alla preghiera un capitolo a parte ne sottolinea l'importanza. D'altra parte, questi capitoli da 6 a 8 sono legati tra di loro e a ciò che precede dal riprendere, in momenti ben precisi del discorso, il tema del Magnificat: "la sua misericordia si estende di generazione in generazione" (Lc 1,50). Questo testo biblico fu citato all'inizio del capitolo sulla parabola del figliol prodigo, dove la natura della misericordia doveva essere precisata, poi all'inizio delle pagine consacrate a Maria nel mistero pasquale; appare di nuovo all'inizio del capitolo consacrato alla situazione del mondo di oggi e ancora all'inizio di quello consacrato alla Chiesa, prima di tornare un'ultima volta proprio prima della conclusione finale.

Questa breve analisi del genere letterario e della struttura letteraria dell'enciclica avrà permesso, lo speriamo, di percepire meglio l'ordinamento e il senso del messaggio del Papa Giovanni Paolo II. La dimensione della misericordia

Si dovrebbe dire adesso quello che è la misericordia secondo l'enciclica. Si ritorna dunque al centro, ai capitoli 2 e 5 e specialmente ai capitoli che definiscono ciò che si intende per misericordia, i capitoli 3 e 4.

Cosa ci dice il cap. 2 dedicato al messaggio messianico? Dall'inizio della sua vita pubblica e per tutta la sua durata, Gesù manifesta, rende presente il Padre come amore e misericordia verso i poveri, gli ammalati e i peccatori. Questa manifestazione, Gesù lo proclama "con i fatti ancor più che con le parole" (p. 15) ed "è, nella coscienza di Cristo stesso, la fondamentale verifica della sua missione di Messia" (p. 13). "Gesù, soprattutto con il suo stile di vita e con le sue azioni, ha rivelato come nel mondo in cui viviamo è presente l'amore, l'amore operante, l'amore che si rivolge all'uomo e abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità,... sia fisica che morale. Appunto il modo e l'ambito in cui si manifesta l'amore, viene denominato nel linguaggio biblico misericordia" (p. 12-13). Accanto alle azioni, ci sono le parole di Gesù: "Gesù fa della misericordia stessa uno dei principali temi della sua predicazione" (p. 13), soprattutto nelle sue parabole. In particolare "Cristo, nel rivelare l'amore-misericordia di Dio, esigeva al tempo stesso dagli uomini che si facessero anche guidare nella loro vita dall'amore e dalla misericordia. Questa esigenza... costituisce il midollo dell'ethos evangelico" (p. 14). E c'è un legame interno tra la rivelazione della misericordia del Padre che Gesù ci porta e l'esigenza da lui proclamata: Gesù è "per gli uomini modello dell'amore misericordioso verso gli altri" (p. 15). Ma "il messaggio messianico di Cristo e la sua attività fra gli uomini terminano con la croce e la risurrezione" (p. 36): il cap. 5, dal quale estraiamo quest'ultima frase, tornerà a lungo su questo tema. Nel frattempo i cap. 3 e 4 analizzeranno il concetto di misericordia.

Il cap. 3 analizza questo concetto nell'Antico Testamento. Se Giovanni Paolo II si ferma all'Antico Testamento, la ragione è che Gesù "si rivolgeva a uomini, che non solo conoscevano il concetto di misericordia, ma anche, come popolo di Dio dell'antica Alleanza, avevano tratto dalla loro plurisecolare storia una peculiare esperienza della misericordia di Dio" (p. 16). Gesù rivelava dunque il Padre "su un terreno già preparato" (p. 25). Cosa ci insegna dunque l'Antico Testamento? Dapprima l'esperienza vissuta da Israele, dall'Esodo e durante tutta la sua storia, esperienza comunitaria come individuale, di fronte alla sofferenza come davanti al peccato. Questa esperienza mostra che "la misericordia significa una speciale potenza dell'amore" (p. 17) e che "caratterizza la vita di tutto il popolo di Israele e dei suoi singoli figli e figlie: è il contenuto dell'intimità con il loro Signore, il contenuto del loro dialogo con Lui" (p. 20). Siamo dunque prima di tutto nell'ordine esistenziale della relazione con Dio e di Dio con l'uomo. "La misericordia non appartiene soltanto al concetto di Dio" (p. 20). Si potrebbe aggiungere che la misericordia è necessaria, già secondo l'Antico Testamento, nelle relazioni interpersonali proprio sull'esempio della relazione di Dio con il suo popolo (cfr. Sl 111 (110), 4 e 112 (111), 4; Sir 28,2; Sap. 11,19-22). Quanto alla nozione stessa della misericordia, essa appare nella terminologia utilizzata nell'Antico Testamento; la lunga nota 52 ne fornisce l'analisi essenziale: il termine hèséd significa la fedeltà alle sue promesse, la fedeltà a se stesso, la responsabilità che si assume del suo stesso amore fino al perdono e alla riconciliazione; a questo termine di risonanza antropologica più maschile, risponde nel registro femminile, il termine rahamin, amore, che costituisce non il frutto di un merito dell'altro, ma una necessità interiore, un'esigenza del cuore, un'esigenza viscerale (rehm significa il seno materno), dalla quale spuntano la tenerezza, la pazienza, la comprensione, la benevolenza, la prontezza al perdono. Tali sono i due principali termini utilizzati dall'Antico Testamento per esprimere la misericordia. Appare chiaro che "tendono, si potrebbe dire, da vari lati ad un unico contenuto fondamentale, per esprimere la sua ricchezza trascendentale, al tempo stesso, per avvicinarla all'uomo sotto aspetti diversi" (p. 21): in breve, la misericordia caratterizza Dio nella sua relazione con l'uomo. Di conseguenza, la misericordia è più fondamentale che la giustizia. Poiché, l'amore, del quale la misericordia è proprio la manifestazione, supera la giustizia. Si potrebbe dire qui che tutta la rivelazione e tutta la storia della salvezza manifestano dapprima l'amore e la misericordia; la giustizia, soprattutto capita nel senso moderno del termine, fondando il rispetto dei diritti e doveri di ciascuno, è secondaria e superata dalla misericordia. Infine, la misericordia divina si radica nel fatto che gli uomini sono le creature di Dio il quale "non odia niente di quello che ha fatto", poiché è presente in ciascuno il suo Spirito incorruttibile (pp. 24-25 e Sap 11,23-12,1). La misericordia divina si estende dunque a tutta l'umanità, a tutta la storia.

Nel cap. 4, il testo della parabola del figliol prodigo servirà a precisare il significato della misericordia per Gesù: nel suo insegnamento, tutto "si semplifica ed insieme si approfondisce" (p. 27). Analizzando la prima parte della parabola, fino alla decisione del figliol prodigo di ritornare verso suo padre, Giovanni Paolo II discerne una "analogia... molto ampia" (p. 27); il figliol prodigo è ogni uomo in rottura d'alleanza d'amore, cominciando con Adamo "che per primo perdette l'eredità della grazia e della giustizia originaria" (p. 27); è anche Israele, però messo meno in rilievo che nella tradizione profetica; è ogni uomo soprattutto. Poi, dall'estensione esteriore, "l'analogia si sposta chiaramente verso l'interno dell'uomo" (p. 28). Lasciando la casa paterna, il figlio ha portato con sé senz'altro dei beni materiali, ma soprattutto ha attentato alla "sua dignità di figlio nella casa paterna" (p. 28). Questo, non lo sa ancora del tutto chiaramente quando decide di ritornare alla casa paterna; lo indovina soltanto in maniera oscura pensando di offrirsi semplicemente come operaio a servizio di suo padre: calcola in termini di giustizia, "egli si rende conto che non ha più alcun diritto se non quello di essere mercenario nella casa del padre" (p. 29). È dunque "il dramma della dignità perduta" (pp. 28-29). Pertanto, nella seconda parte della parabola, il comportamento del padre risponde a ciò che l'Antico Testamento dice della misericordia: il padre è fedele alla sua paternità, al suo amore paterno; questo traspare nella gioia dell'accoglienza e nella festa organizzata. La ragione è che, benché l'eredità fosse stata delapidata, l'umanità del figlio - il fatto che egli sia uomo e in più figlio - è salva, anzi ritrovata. "La fedeltà del padre a se stesso è totalmente incentrata sull'umanità del figlio perduto, sulla sua dignità" (p. 32). Ancor più, "un figlio, anche se prodigo, non cessa di essere figlio reale di suo padre" (p. 33). Così, "la relazione di misericordia si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l'uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria (p. 34). Quest'analisi della parabola rivela un pensiero esistenziale del quale la dignità della persona umana, come nella "Redemptor Hominis" è il centro. E non si può negare che questa lettura originale della parabola la raggiunge nella sua profondità. Il lettore sa adesso ciò che significa veramente la misericordia secondo la Scrittura.

Tuttavia, tornando direttamente a Cristo, Giovanni Paolo II dedica ancora un capitolo, il cap. 5, al Mistero pasquale. Bisogna farlo "se vogliamo esprimere sino in fondo la verità sulla misericordia, così come essa è stata fino in fondo rivelata nella storia della nostra salvezza" (p. 36). Da queste pagine molto dense, consideriamo soltanto quanto segue: "la redenzione porta in sé la rivelazione della misericordia nella sua pienezza" (p. 39), poiché in essa il Padre manifesta la profondità della fedeltà del suo amore per l'umanità riaprendo per essa l'accesso alla vita che viene da lui. Così il progetto iniziale di Dio, l'Alleanza, rimane. La croce e la morte di Cristo danno "l'ultima testimonianza della mirabile alleanza di Dio con l'umanità, di Dio con l'uomo - con ogni uomo" (p. 40). Come lo scriveva San Giovanni, "Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unico, affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). La croce rivela ancora radicalmente la misericordia nel senso che è manifestato "l'amore che va contro a ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell'uomo; contro al peccato e alla morte" (p. 42). Il compimento escatologico di questa vittoria sul peccato e sulla morte trova il suo fondamento nella croce. La risurrezione di Cristo ne è il segno. "Il Cristo pasquale è l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storico-salvifico ed insieme escatologico" (p. 47). In piedi, sotto la croce, Maria, partecipando con tutto il cuore al sacrificio di suo Figlio, partecipa allo stesso momento alla rivelazione piena della misericordia, "cioè alla fedeltà assoluta di Dio al proprio amore, all'alleanza che egli ha voluto fin dall'eternità e ha concluso nel tempo con l'uomo, con il popolo, con l'umanità" (p. 48).

Se si vuol riassumere in poche parole ciò che è veramente la misericordia, si potrebbe dire che è la fedeltà di Dio al suo progetto d'amore con il quale la dignità della persona umana è insieme riconosciuta e restaurata. In tal modo, i pregiudizi correnti contro la misericordia perdono la loro forza: la misericordia non avvilisce, rispetta e nobilita la persona. Inoltre, la sua origine è il Padre stesso che il Figlio ci ha manifestato pienamente in parole e in azioni, principalmente nel Mistero pasquale. Superare la giustizia

Nella sua ultima parte, al cap. 6, Giovanni Paolo II invita la nostra generazione a ritrovare l'autentica misericordia, poiché, dice il Papa, la giustizia non basta. Non intendiamo analizzare qui questa parte dell'enciclica; vogliamo soltanto proporre qualche semplice nota a proposito del solo testo biblico citato in questa esposizione sulle insufficienze della giustizia. "Non invano, scrive il Papa (p. 60) Cristo contestava ai suoi ascoltatori, fedeli alla dottrina dell'Antico Testamento, l'atteggiamento che si manifestava nelle parole: 'occhio per occhio e dente per dente'. Questa era la forma di alterazione della giustizia in quel tempo; e le forme di oggi continuano a modellarsi su di essa". Più avanti, spiegando che la Chiesa si sforza di mettere in opera la misericordia, il Papa aggiunge che lo scopo di instaurare la 'civiltà dell'amore', della quale parlava Paolo Vi, "non sarà mai conseguito, se nelle nostre concezioni ed attuazioni, relative alle ampie e complesse sfere della convivenza umana, ci arresteremo al criterio del 'occhio per occhio e dente per dente' e non tenderemo invece a trasformarlo essenzialmente, completandolo con un altro spirito" (p. 73). Il Papa si riferisce al testo seguente del discorso di Gesù sulla montagna: "Avete inteso che fu detto: 'occhio per occhio e dente per dente'; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle" (Mt 5,38-42).

Il principio giuridico del taglione appare senz'altro nell'Antico Testamento (Es 21,24; Lev 24,19-20; Deut 19,21), ma anche nelle legislazioni pagane di prima dell'era cristiana, come nel codice di Hammurabi, nel XVIII secondo a.C., o nella Legge delle XII Tavole della Roma antica. In sé, questo principio intende impedire la spirale della vendetta violenta, si limita all'equivalenza tra il torto commesso e la riparazione da esigere dal colpevole stesso. Tuttavia, l'Antico Testamento non dà nessun caso dove questo principio sarebbe stato praticato alla lettera.

Questo non sarebbe stato sempre possibile: cosa fare infatti se un uomo sdentato ti rompe un dente? Era stato dunque previsto e si praticava già al tempo di Gesù il compenso pecuniario: chi rompe il dente di un altro pagherà un tanto. Come si vede, si tratta dunque di un principio giuridico, di una legge civile, che intende mantenere l'ordine pubblico.

Ma la tentazione non era probabilmente grande nell'Antichità, all'epoca di Gesù, come oggi, anche tra i cristiani ai quali si rivolge esplicitamente l'enciclica, di praticare questo stesso principio o di avere un'attitudine fondata sullo stesso?

Tuttavia già l'Antico Testamento, e in particolare gli scritti sapienziali, più interessati alla vita personale che al diritto e alla giurisprudenza, domandavano al discepolo di perdonare (Sir 28,2) o di essere umano (Sap. 12,19.22). I maestri del Giudaismo antico invitavano anch'essi alla misericordia, fedeli in questo all'Antico Testamento, e i contemporanei di Gesù lo sapevano, anche se il taglione minacciava di tentarli nella loro vita come tenta anche noi oggi.

A questo riguardo, la posizione di Gesù è nuova. Rifiuta il taglione nella vita privata: "Se uno ti percuote la guancia destra tu porgigli anche l'altra". Si deve inoltre saper rinunciare ai propri diritti, come colui al quale si vuol prendere la tunica, sotto la protezione di un giudizio iniquo di tribunale, ma che Gesù invita ad abbandonare anche il suo mantello al richiedente. Ciò che Gesù domanda è un'attitudine concreta che va al di là, ben al di là del diritto, anzi del richiesto. Va anche al di là del perdono, è più ancora che la non resistenza: si tratta di non vedere l'ingiuria o l'ingiustizia e mostrarsi sempre al servizio dei fratelli, anche ingiusti o colpevoli; si tratta di rendere il bene per il male, rinunciando ai propri diritti, per amore di quest'uomo che si mostra adesso il mio avversario. Conclusione

Queste poche pagine non avevano altro scopo che di sottolineare l'uno o l'altro aspetto biblico dell'enciclica "Dives in misericordia" di S.S. il Papa Giovanni Paolo II. Molti altri punti avrebbero meritato un'attenzione speciale. Ciò che abbiamo voluto sottolineare è stata soprattutto l'articolazione molto solida del testo pontificio. Quest'articolazione riceve luce dal paragone con il Libro della Sapienza. D'altra parte, l'importanza della materia può anche essere illuminata dalla Scrittura: ci siamo riferiti a Prov 8 e ad un passaggio del sermone di Gesù sulla montagna. Da ambedue le parti si può misurare il peso della misericordioso per la nostra umanità alla ricerca di pace e di ordine: sarebbe forse possibile di realizzare le grandi speranze della nostra umanità senza dare un posto alla misericordioso? Il Papa ci invita a dubitarne e, in questo, il suo messaggio prolunga fedelmente la Rivelazione. Infine, parlare di misericordia, nella linea della Sacra Scrittura, significa per primo intendere il rispetto della dignità umana: è la persona umana che primeggia; lì ancora, il mistero di Dio nella nostra storia, la morte in croce del Figlio, ci ricordano che il Signore ha fatto gran caso a coloro che lui ha creato a sua immagine e somiglianza. Ciò che Dio ha fatto per noi, e pienamente in Gesù Cristo, perché non cerchiamo di imitarlo verso i nostri fratelli?