Luis M. Armendariz

IL PADRE MATERNO

Introduzione

Desidero iniziare domandandomi cosa ha potuto spingere gli organizzatori di questo Congresso Internazionale ad affidarmi un argomento dal titolo così sorprendente e stimolante insieme, quale è quello de Il Padre materno.

Sarà forse per le insinuazioni del Papa in due passi dell'Enciclica Dives in misericordia che ci sforziamo di commentare? Saranno le parole di Madre Speranza riprese nel programma e che costituiscono un tema ricorrente della sua spiritualità? Vorranno le Ancelle dell'Amore Misericordioso rivolgendosi a Lui, invocarLo nel modo che è poi quello in cui loro Lo sentono, e cioè un grembo di materna tenerezza?

Risuona, dentro questo gruppo di donne, il clamore di tante altre che desiderano affrancare la Sua immagine da una pretesa mascolinità, imposta da coloro che, attraverso di essa, vogliono dare una giustificazione agli abusi della società patriarcale? La conquista da parte della donna della parità di diritti e di valore nei confronti dell'uomo non comporta la conquista da parte dell'umana conoscenza e religiosità della "femminilità" di Dio? Non ci destano profonda impressione i dubbi che sulla Sua immagine di padre ha gettato la modernità?

Tutti questi motivi sono indiscutibilmente presenti, ma reputo che il più importante sia una altro: in questa ora cruciale che il mondo sta vivendo, scoprire a questa umanità così ricca di successi tecnologici ma così povera di un'autentica identità, l'essenza più profonda e vera di Dio, il Suo cuore di Padre.

Proporre ad essa, promanante dal cuore di Dio, una civiltà dell'amore, uno spirito di misericordia. A questo il Papa aspira come si evince dall'enciclica che stiamo analizzando (1).

Orbene, per esprimere tutta la ricchezza misericordiosa di questo cuore del Padre, come non ricorrere anche ai termini di attribuzione materna, ma senza i quali sarebbero appena comprensibili le Sue intime apprensioni, quali la Sua sensibilità e tenerezza?

Lo stesso senso di stupore che in noi appellativo come Padre materno non rivela che la bontà di Dio era ai nostri occhi del tutto virile, incapace dunque d'essere compassionevole e premurosa come una madre sa essere?

Facendo il punto di tutte queste tendenze, potrei orientare il discorso secondo una direzione duplice: o ricercando, vicino al Padre già conosciuto, una Madre ignorata, o ricercando, nella stessa paternità di Dio, tratti insospettati di premura, delicatezza, affetto... che permettono di definirla materna. In questo secondo caso, è lo stesso Dio Padre che ancora resterebbe da conoscere.

La designazione Padre materno, che mi è stata proposta, è espressione di questa seconda linea d'indagine. Anch'io la considero la più giusta e la seguo per vari motivi: se diamo per assodata la paternità di Dio, è possibile che la implichiamo di pregiudizi e interessi che l'idea di padre si porta dietro. Se, d'altro canto, discerniamo fra tratti notoriamente paterni e altri tipicamente materni, entriamo in un terreno incerto e soggettivo (che cos'è maschile, cos'è femminile? Si escludono o convivono nei due sessi? in quale misura?). Però, più che altro, scelgo di parlare del Padre materno perché la paternità di Dio è irrinunciabile per la Fede e insostituibile, come vedremo, da qualsiasi altra designazione. Con essa inizia il nostro Credo, il battesimo, la nostra preghiera, l'Eucarestia, il segno della Croce... e anche il nostro Congresso.

Cercherà pertanto di delineare i tratti materni del padre e questo non per via diretta, aggiungendo cioè caratteristiche materne all'immagine paterna di Dio, ma indirettamente, dal mio precisare cosa significa e come sia questa paternità, verificando come per sua natura essa si offra non quanto di più nobile e ardente abbia la condizione umana di madre.

Per quello che ho appena detto, non ritengo necessario che si inizi chiarendo cosa bisogna intendere per paterno e cosa bisogna intendere per materno. Nel corso dello studio e dall'analisi dell'amore di Dio, che è l'essenziale, spero che i due termini si precisino nello loro sostanza e mostrino la loro legittimità allorché si applicano a Dio (2).

Cap. 1: "Il materno" del Dio Padre nelle religioni e nella filosofia

Al momento di iniziare questa ricerca, bisogna operare una scelta non necessariamente condivisa da altri teologi. Ci atteniamo all'appellativo cristiano di Dio come Padre non badando e forse squalificando i suoi antecedenti nella storia di Israele e delle religioni, o giungiamo al cristianesimo prestando attenzione a queste in primo luogo e poi, per ovvio passaggio, all'Antico Testamento? Il dubbio della scelta non è solo tattico o metodologica. Postivi di fronte, o risolviamo di vincolare la fede cristiana al fenomeno religioso o di contrapporla allo stesso.

In ultima analisi, la domanda potrebbe essere posta in questo modo: quando Gesù chiama Dio, Abbà, conserva e si serve, purificandolo, di quel che le religioni di Israele esprimono quando Lo invocano come padre, o intende qualcosa di totalmente nuovo e differente?

Verso quest'ultima linea interpretativa sembrano inclinare, benché con sfumature differenti, J. Moltmann e C. Geffré in alcuni importanti articoli recentemente apparsi (3). Da parte mia, senza negare legittimità e valore imprescindibile a quel cristianesimo di contrasto che fissa da Cristo, e non da nessun altro, la propria identità (e quel qualcosa di così essenziale come è l'appellativo di Dio) e rimandando ad altro momento ogni riflessione su questa divergenza, scelgo l'altro metodo e l'altra teologia.

In primo luogo perché questo appellativo del quale Gesù darà una interpretazione peculiare è per se stesso eloquente e radica in esperienze umane primigenie che lo stesso Gesù Cristo si trovò a vivere, fatte da tutti noi uomini. In secondo luogo perché storicamente questo appellativo paterno di Dio da parte delle religioni non ha potuto fare a meno di influire su Israele, e attraverso Israele, su Gesù. E, infine, perché una visione radicalmente cristocentrica della creazione porta ad affermare che quel che Cristo disse e fu, è stato instaurato da suo Padre Creatore nel germe e nelle strutture della realtà e vien fuori dovunque l'uomo riveli le sue più riposte inquietudini, le più profonde ansie ed aneliti. Detto più biblicamente: perché questo Gesù che chiama Dio, Abbà, è il Logos che illumina ogni uomo che viene a questo mondo e, mediante il suo Spirito, all'uomo sboccia dalle labbra, per torpida, confusa, e fors'anche infedele che sia, questa invocazione (4).

Orbene, nell'immenso ambito delle religioni in generale, e più particolarmente in quelle dell'area dell'Oriente Antico che attorniano Israele, risulta molto diffusa sin dell'antichità, la concentrazione di Dio come Padre di alcune tribù, popoli... e dei loro Re. Questa realtà, vasta e primitiva, meriterebbe un minuzioso studio che adesso ci diventa impossibile effettuare. Una prima spiegazione risiederebbe nella tendenza a far risalire la propria progenie ad un'origine divina (5). In questo modo la propria stirpe viene ad essere legittimata e nobilitata in maniera definitiva. Ma questa spiegazione famigliare e un po' egoista del principio di casualità che fa capo a tale processo, si compenetra perfettamente con una sensazione e una necessità più profonda; vedersi consolidati per l'eternità nel ritmo dell'esistenza, percepire come positivo e invocare come favorevole il mistero che presiede alla realtà, poter trovare una garanzia e una sicurezza per i propri limiti e necessità, in colui che è insieme potere, bontà, dominio e compassione.

J. Jeremias nel tradurre queste due ultime parole, dice che il termine padre, quando si applica a Dio, suppone per gli orientali un quid che possiamo qualificarlo materno (6).

Ci muoviamo nell'ambito del simbolo: realtà ed esperienze umane sono gravide di senso e trasferite su un piano divino; sono utilizzate per nominare l'innominabile, per descrivere l'invisibile e poter vivere coerentemente alla sua ombra (7).

Questo meccanismo simbolico che consente all'uomo di entrare in contatto col trascendente, è la struttura più elevata dell'uomo, quella che gli permette il contatto con il radicalmente Diverso. Ma, al contempo, quella più soggetta alla degradazione quando divinizza l'umano in una visione immanente, e perciò viziata, ponendosi come autogiustificazione all'uomo ed ai suoi interessi; quando non permette all'altro di essere veramente altro e quando si serve di lui per ergersi al Suo posto in Dio.

In questo modo, quasi senza accorgersene, si divinizza quello che di più grandioso e potente ha in sé la natura umana: l'energia fisica dell'uomo, la sua capacità di organizzare, la volontà di farsi agente di filtro e di trasmissione delle tradizioni..., da tutto ciò che quel che si deduce è un Dio patriarca cui a sua volta ci si appella per legittimare il patriarcalismo sociale. Da un lato l'idea di Dio ci arricchisce con gli attributi umani, però d'altra parte, viene minacciata da tutte le manipolazioni socioculturali del momento. La storia, la sociologia segnalano frequenti periodi durante i quali l'immagine paterna di Dio è stata connotata con tratti maschili ed inumani, meramente congiunturali, allo scopo di proteggere gli interessi e le alienazioni.

La psicologia, da parte sua, messa in guardia dalla risaputa ambiguità dei bisogni primari, nutre forti sospetti su questo appellativo paterno che l'uomo dedica a Dio. Non nasconderà, tutto questo, il sogno infantile di un padre onnipotente che garantisca una sicurezza quand'ancora non la offre l'equilibrio della maturità, che risparmi all'uomo di essere un Io dimidiato e scisso, esposto ai problemi della convivenza e del contrasto con gli altri; il sogno di un Dio arcaico che assolva una duplice funzione: darci la possibilità di non crescere e, paradossalmente, di essere grandi e illimitati come Lui (8).

Sono tanti i sospetti che si possono accumulare a proposito di questo appellativo di padre, che Paul Ricoeur sostiene che bisogna tornare "al punto zero" per poterlo applicare a Dio (9). Non è necessario, per quanto è scontato, insistere sopra. Vi ci siamo soffermati soltanto per ricordare che se udiamo chiamare Dio, Padre, dobbiamo sempre essere coscienti del meccanismo nobile e però pericoloso che agisce.

E inoltre essere consapevoli della condizioni simbolica e impropria di questa designazione. Non si tratta di chiamare qualcosa di immediatamente percepito, nel caso specifico l'uomo che tutela e guida infinitamente questo termine, la sua portata semantica, per designare il potere onnipotente, benevolo, che si indovina e si anela, posto al di là di ogni limite, al quale dobbiamo la nostra vita.

Quando l'uomo prende coscienza di questi meccanismi diviene molto più cauto nel riferire al divino questa denominazione e analizza molto più attentamente i suoi atteggiamenti e desideri, e anche la legittimità di questa spinta verso il trascendente. La metafisica, che è la scienza di questa trasposizione su un piano che risiede al di là di ogni esperienza fenomenica e, in particolare, una metafisica di radice cristiana, ricorda due principi fondamentali: a) tra il Fattore e la Sua opera deve darsi una certa somiglianza che permetta di impiegare per entrambi quelle parole che esprimono un valore positivo e non implichino in sé una limitazione (p. es. la paternità); b) giacché si tratta del Creatore e non del capostipite dell'umanità, la differenza tra Lui e la Sua creatura è sempre maggiore della somiglianza (10). Da ciò risulta che il "paterno", perché possa essere predicato di Dio, non solo deve purificarsi di tutto l'inumano di cui gli egoismi su descritti potrebbero sfigurarlo, ma anche che, nella sua stessa autenticità umana esso deve decantarsi di ogni connotazione limitante per esempio quella corporale (un Dio sessuato, un Dio maschile è manifestamente idolatrico) (11), e inoltre deve innalzarsi così infinitamente sopra tutto ciò che non è Dio, sì che non si possa concepire che il paterno umano sia più vicino a Lui di quanto non sia il materno umano. In qualità di trascendente può accogliere in sé non solo la vera realtà di padre, ma ugualmente quella di madre. Quando Lo si chiama padre non Gli si sta dicendo maschio (benché così l'immaginazione può figurarselo), né per questo Gli si sta negando la Sua maternità; si sta affermando che all'origine, nei fondamenti e nello scopo della realtà, c'è un'infinità onnipotente, fatta d'amore. Questo per quanto riguarda Dio. Però nemmeno è giusto confondere l'uomo che proietta in Lui la sua condizione di padre, con il maschio.

Le scienze umane ammoniscono che non c'è una separazione poi così netta tra il maschile e il femminile come gli occhi da parte loro pretendono, e dunque non tale da poter attribuire a Dio una componente e negarGliene per ciò stesso l'altra.

Al contrario, ognuna di loro include le caratteristiche dell'altra sebbene in minor proporzione, e ognuna di loro definisce se stessa solo nel rapporto di reciprocità con l'altra (12).

La metafisica, da parte sua, senza ignorare la differenza tra i sessi, ma anzi estendendola alla globalità della persona, riconosce altrettanto che esistono dei tratti, comuni che qualificano l'essere "uomo", non il maschio, e cioè interrogazione della realtà, ansia della verità e della felicità completa, inquietudine del futuro, punto di riferimento per gli altri esseri, libertà corporeità, ecc. Da questo uomo-persona, in genere configurato come maschile e femminile, sorgono la domanda, l'ansia e l'indizio dell'amore onnipotente che chiamiamo padre, però al quale competono pure i caratteri femminili dell'amore.

A questo livello, la legittimità dell'appellativo paterno applicato a Dio comporta la legittimità dell'appellativo di madre, egualmente purificato e trasceso. E, a questo proposito, non bisognerebbe dimenticare che l'esperienza materna è la prima esperienza che l'uomo ha della realtà. Materno è il primo volto offerto all'essere, la prima manifestazione dell'amore, il primo impatto con la benevolenza. Potrà egli dimenticare anche per una volta la dolcezza di quel seno, il calore, il rifugio di quel grembo materno, anche quando dovrà passare per il trauma della separazione e sperimentare una condizione nuova, lo stadio della autonomia individuale?

E questa è forse la ragione per la quale in molte altre religioni ha fatto la sua apparizione la figura della madre. Ci allontanerebbe troppo dal nostro proposito indicare i motivi di questa divinizzazione del materno, non poco diverse e non poco dipendenti dalla corrispondente struttura sociale. Contentiamoci di azzardare l'ipotesi che con la madre è elevata a un piano divino la vita stessa dell'uomo e della natura nella sua unità e nella sua fecondità, l'esperienza affascinante del femminile in tutte le sue forme, la potenza dell'eros. Tutto questo, molto più ancora, in una religiosità di tipo panteista nella quale si annullano le differenze tra la vita e la fonte della vita e restano in penombra la signoria e la libertà di questa origine dell'uomo.

Cap. 2: Il "materno" di Dio Padre nell'Antico Testamento

Un antecedente più prossimo a noi è costituito dalla conoscenza filiale che il popolo dell'Antico Testamento ebbe nei confronti del suo Dio. E' chiaro che anche questa volta si ripropone, benché attenuata la scelta anteriore fra un Dio cristiano legato a quello ebraico e da esso preceduto, ed un Dio diverso rivelato da Gesù.

Propendo per la unione che lo stesso cuore umano di Gesù stabilì tra la Sua eredità ebraica e la Sua novità di figlio del Abbà. Novità di portata decisiva, come poi avremo modo di vedere.

Veniamo dunque all'Antico Testamento. Nel vocabolario religioso di Israele richiama l'attenzione il fatto di rifiutare perentoriamente di chiamare Dio, madre. Bisogna poi immediatamente aggiungere, fatta questa notazione, scomoda per noi, che tampoco è propenso chiamarlo Padre. Ciò avviene soltanto in 15 occasioni (13), se omettiamo altre nelle quali Egli viene comparato con un padre terreno, e altre ancora in cui la menzione a Dio come padre è vincolata alla presenza di alcuni propri che hanno ab per radice.

In entrambi questi riserbi, l'uno totale e l'altro parziale, probabilmente pesa la stessa riserva teologica: il rispetto alla trascendenza di Jahvé, alla Sua radicale diversità, impediscono di vincolarlo attraverso la generazione o l'unione fisica al mondo. Curiosamente questa riserva cessa quando, alla fine dell'esilio, il deutero-Isaia stabilisce per Jahvé il titolo di Creatore. Questo significa che è Padre in quanto Creatore o, almeno, che non si può separare la Sua condizione di Padre dalla Sua condizione di Creatore. Tutta l'affinità che quella rileva viene controbilanciata dalla differenza che questa mantiene (14).

E' noto che fra i vari criteri sorti per spiegare l'atto creatore, diffusi nell'Antico Oriente, e di cui esistono tracce nei racconti biblici, quello della creazione per generazione, derivato dalla cosmogonia sumerica, accadica e egizia, è quasi del tutto scomparso nella Bibbia; sussistono, invece, quella della lotta vittoriosa contro il caos, quello del modellare e del prodursi dalla semplice parola, segno, quest'ultimo, di una sovranità assoluta e di una possibilità di scelta su cui si fonda e per cui si mantiene la condizione di alterità.

La prima conseguenza di questa trascendenza di Jahvé è la Sua desessualizzazione radicale (il rifiuto del Baal e dei riti sessuali che accompagnavano il loro culto è in stretta connessione con questa concezione della divinità) Destituito di questa connotazione genetica, il titolo di padre viene in primo luogo a denotare (come s'è detto) la condizione sovrano di Creatore. Ma contiene pure un altro elemento. Jahvé è particolarmente Padre di Israele, perché l'ha eletto tra tutti i popoli. Questa filiazione adottiva, prodotto di una scelta libera, e che investe popolo e Re (15), mette ancor più in risalto il carattere non fisico della paternità di Dio. Il rapporto paterno-filiale non dipende da un mitico atto di generazione, ma da una elezione storica (16).

Ma neanche questo sarebbe sufficiente a chiamarLo Padre. Solo se la Sua potestà è piena di benevolenza, soltanto se riscuote sottomissione e fiducia, è sincero questo appellativo e non un'adulazione. (17) La si chiama Padre per i sentimenti di misericordia e di tenerezza in cui si esprime la Sua preferenza.

Quando nell'Ex. 33-34 si descrive la grande rivelazione della gloria di Jahvé. Questi appare radicalmente libero ("Farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò misericordia di chi vorrò avere misericordia"), assolutamente trascendente ("ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo") e, al contempo, "pietoso, clemente, paziente, misericordioso e fedele, che conserva la Sua misericordia fino alla millesima generazione, che perdona, che colpe, delitti e peccati" (18); ma anche esigente dato che "non lascia senza punizione e castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli" (19). Queste sono le caratteristiche di Jahvé come risultano da questo passo capitolare dell'Antico Testamento: la sovranità e la libertà unite alla misericordia. E c'è un particolare significativo: l'aggettivo ebraico che indica il Dio compassionevole è rahum, parola che conferisce una sfumatura inconfondibile di femminilità a Dio giacché il sostantivo rehem dal quale deriva, denota il seno materno (o la donna nell'accezione più generale) (20). A pieno titolo il Papa ha fondato la sua descrizione della misericordia divina, in un certo senso femminile, sul termine rahamin (grembo materno) di misericordia con il quale l'Antico Testamento descrive l'amore di Dio, un argomento quest'ultimo, sul quale ulteriormente ritorna comparandolo all'amore di una madre verso il bimbo, da cui scaturisce un rapporto speciale, un amore totalmente gratuito, dove non vige il criterio del merito, ma è una necessità interiore, un'esigenza del cuore. E' una variante quasi femminile, conclude la nota 52 della Dives in misericordia, della fedeltà maschile a se stessi espressa dal termine hesed.

Potenza infinita del creatore trascendente, libertà e predilezione da parte del Padre che adotta, un appassionato fremito materno sono i tratti che configurano l'immagine del Padre che Israele applicò al suo Dio.

La liberazione dall'Egitto, punto nodale nella storia di Israele, è interpretata da quest'ultimo come un gesto di fedeltà paterna (21) che Jahvé compie per riguardo a se stesso e al Suo popolo e, allo stesso tempo, come prodotto da un impeto di compassione verso Israele (22) che potremmo qualificare materno.

Queste tappe militari e tutta la storia di Dio con il figlio Suo ci offrono un completa esegesi di quel che è la Sua paternità. Mentre corregge, abbandona e castiga il Suo popolo, trema di compassione, non può fare a meno di perdonarlo e mostra nei suoi confronti delle delicatezze tipicamente materne "Non è forse Efrain un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente. Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza" (23).

Che esiste di più materno che il poema di Dio in Osea? "Quando Israele era giovinetto il l'ho amato... Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano.... Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore... Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione". (24)

Cosa di più teneramente femminile della promessa di Dio a Isaia? "Come una madre consola un figlio io vi consolerò" (25). C'è un modo migliore per descrivere l'indole materna del cuore di Dio che quella Sua replica con la quale risponde ai sospetti di Israele di essere stato abbandonato da Lui? "Può una madre dimenticarsi della sua creatura, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai". (26) Ancora una volta viene usata la parola rahamin, come fa notare il Papa, che avvolge di calore materno questa invincibile misericordia.

Per questo non deve stupire che quando Israele vuol intenerire il suo Dio, Gli ricordi che la Sua tenerezza, la Sua lealtà sono eterne. (27) La paternità di Dio esclude solo l'intransigenza e l'indifferenza, epperò mai la Sua maternità, cioè l'attaccamento e la difesa appassionata per ciò che è suo, la comprensione senza limiti verso il suo piccolo.

Hesed e Rahamim: fedeltà alla Sua promessa di amore e tenerezza verso i Suoi figli, paternità e maternità si riflettono così uniti nel volto di Dio.

Una prova ancora che il paterno, esclusivamente il paterno, non esaurisce il comportamento e l'essere del Dio di Israele, ci è offerta dalla constatazione che, accanto al simbolismo del padre, appare, a volte senza soluzione di continuità, la metafora nuziale: Dio è Padre e sposo del popolo Suo; la Sua alleanza con esso è un'unione coniugale e le vicissitudini di questo amore fra sposi traducono la storia di Israele, come prima abbiamo visto accadere a proposito dei rapporti paterno-filiali: (28)

Ma questo non fa che dar adito alla domanda: perché non si chiama Dio, madre, per lo meno con la stessa frequenza con la quale lo si chiama padre e sposo? Sarà per l'influsso di quella cultura patriarcale, che prima segnalammo, la quale riservava al padre tutte le prerogative del potere e le funzioni elevate di guerriero, educatore, giudice e sacerdote? O sarà che Israele credeva nella disparità fra i sessi e nella preminenza teologale dell'uomo? Molti hanno rintracciato questa tendenza di pensiero nel racconto genesiaco del Paradiso. Dio non crea direttamente la donna come è il caso dell'uomo, ma la estrae da questi e la subordina a lui; la donna, più debole di fronte alla tentazione, sembra lei stessa convertirsi in tentazione, dopo il peccato è castigata con la schiavitù all'uomo. (29) Non tutti gli esegeti condividono questa interpretazione così diffusa. Al contrario, alcuni sostengono che il racconto vuole evidenziare la reciprocità e comunione di vita tra l'uomo e la donna, tanto nel piacere di esistere insieme come nell'errore del peccato.

In tutto il vicino Oriente non esisterebbe allora un racconto più incredibilmente favorevole di questo alla dignità della donna. (30) Più tardi, il racconto del 1° capitolo del Genesi li pone entrambi sullo stesso piano per la loro condizione comune di essere fatti a somiglianza di Dio. (31) E' però più che probabile che questi fermenti innovativi della rivelazione non poterono imporsi per causa della corrente sociologica che privilegiava l'uomo e vietava l'attribuzione dell'appellativo materno a Dio. Però dimostrerebbe di essere andato ancor più a fondo della questione quegli che, nel rifiuto a chiamare Dio, madre, nell'Antico Testamento, percepisse quanto questa designazione poteva avere significato nell'area religiosa limitrofa ad Israele.

Il culto di una dea madre, progenitrice degli dei e degli uomini, di una madre terre che produce ogni forma di vita e le impone le sue leggi, la sua cieca energia vitale, avrebbe chiuso l'orizzonte all'esperienza così peculiare che invece ebbe Israele di poter accogliere la Parole libera, gratuita, sovrana ed inquietante, che offriva promesse insospettate.

E' la trascendenza di Jahvé ciò che, in questo contesto, fa sì che sembri ripugnante un appellativo come quello di madre. Non possiamo dimenticare che l'ebreo, che per rispetto non menziona il nome di Jahvé, lo sostituisce con la forma equivalente Adonai, mio Signore, Signore. Questa sovranità, questa trascendenza e la differenza inestinguibile fra Jahvé e il Suo popolo determinarono nella descrizione della divinità la prevalenza degli attributi paterni. Ma il termine padre non esprimeva soltanto questa diversità; esso indicava l'amore che intercorreva in questo rapporto Dio-popolo; amore che, come si è visto, non era solo un amore paterno.

A mano a mano che si andava liberando, si ricordi il caso di Abramo, della sua connotazione corporeo-razionale e veniva a designare un'eredità personale di fede e di speranza, la parola si dilatava semanticamente per applicarsi al Dio di Israele e aggregare in sé tutti i tratti personale, anche quelli materni, dell'amore.

A conforto di ciò, si può ricordare la figura del Vecchio Testamento della Sapienza che accompagna Dio nelle Sue opere di Creatore e Salvatore. Hokma, come tutte le astrazioni, è un termine ebreo di genere femminile, e fin qui la cosa non avrebbe grande importanza. Ma il fatto è che questa Sapienza va acquistando tratti di volta in volta più personalizzati, diviene l'ipotesi di una figura femminile che fa la gioia del Creatore, (32) che è il riflesso della Sua luce eterna, l'immagine della Sua bontà, (33) la confidente del Sapere divino (34) e l'educatrice dell'umanità.

Un volto femminile avrebbe così accompagnato il Creatore fino alle soglie del Trono e avrebbe addolcito ancora di più i suoi caratteri paterni.

Cap. 3: Il Padre Materno di Gesù e di cristiani

La paternità di Dio, annunciata dai profeti, l'inculcarono nell'anima di Gesù, Maria, Giuseppe e la sinagoga. Poi l'incontro con il mondo, all'eco dei salmi, gliela rivelò sempre con maggior pienezza. Sulla base di queste due esperienze, attraverso esse, che Egli accolse e assimilò, ebbe luogo il Suo personalissimo incontro con Dio. Da questo risultò che non solo Egli possiede le qualità di Padre, ma che deve essere designato semplicemente come il Padre.

Nel Nuovo testamento non esistono esitazioni circa questo appellativo. Le più di 170 volte che appare sulle labbra di Gesù non sono solo un dato che merita di essere rilevato, ma caratterizzano il Nuovo Testamento. Non che tutte siano da attribuire allo stesso Gesù. Studi come quelli compiuti da J. Jeremias (35) ci fanno conoscere le tappe di un processo che inizia a delinearsi con sporadici accenni in Marco e Luca e finisce per invadere gli evangeli di Matteo e Giovanni. Sappiamo anche che furono l'orazione e la liturgia i centri di propaganda. Però ci rendono certi che fu Gesù stesso colui che inaugurò questa definizione di Dio come Padre, la quale costituisce la quintessenza del Cristianesimo. Gesù, in effetti non esita a comparate Dio vantaggiosamente con un padre che non sa negare al proprio figlio quel che questi gli chiede. (36) Gesù adombra l'immagine di Dio come di un padre che aspetta e accoglie commosso il figlio che torna a casa con la sua indegnità, la fame e la nostalgia. (37) L'esperienza personale di Gesù riprende così il motivo presagito dalle religioni e da Israele: Dio è Padre. Tuttavia, nella ridotta cerchia dei Suoi seguaci, Gesù spinge più innanzi questa idea della paternità di Dio e parla di vostro padre, in un senso che già non è più quello che vale per tutti gli uomini. Si tratta di una paternità speciale, gratuita, che Gli fa scegliere come Suoi coloro che seguono Gesù e consiste nel conoscere le loro necessità prima ancora che Gliele espongano, (38) nel perdonarli, (39) nel preoccuparsi per loro. (40) Preoccupazione, assistenza, perdono: è forse un'altra la definizione dell'amore di una madre? A ragione, Jeremias sostiene che questa paternità ha il carattere, ricco di qualità femminili, che i profeti avevano esaltato e lodato.

Però, a volte, sulle labbra di Gesù, la parola acquista un senso speciale che non offre univocità di interpretazione neanche agli stessi discepoli. Vale solo per Lui. E' quando Gesù dice mio padre. "Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare". (41)

Questo brani, ed altri simili, (42) illustrano un rapporto assolutamente unico, descritto in forma paterno-filiale, che consiste in una conoscenza reciproca completa ove entrambi si automanifestano e si autodonano. In questo caso non si tratta, come avviene per il termine religioso universale di Dio come Padre, di illustrare con una parola umana esatta, benché dilatata per questa referenza al divino, l'esperienza confusa, vagamente presagita, di Dio. Qui, al contrario, è un'esperienza immediata del divino che ha bisogno di esprimersi con una nomenclatura umana e lo fa appoggiandosi a una parola, quale è: padre, che è assolutamente necessario spiegare. Le spiegazioni della parola padre che dà Gesù con i Suoi discorsi e con la Sua vita sono l'esegesi più fedele dell'esperienza filiale del Cristo e dell'autentica paternità di Dio.

Se prima avevamo ripetutamente resistito alla tentazione di opporre la paternità del Dio cristiano a quella che proclamavano le altre religioni e Israele, ora dobbiamo riflettere sulla sua peculiarità, su ciò che essa significa e presuppone per i cristiani, e renderci conto che è la sola versione legittima della paternità divina. Tutte le altre forme di paternità che sono state concepite derivano da questa e si riassumono in questa, sono indizi di essa e quando ad essa si comparino, rivelano la di lei legittimità e i propri limiti.

Per questo tale forma unica e definitiva della Paternità stravolge i termini abituali del linguaggio religioso e si esprime in un termine nuovo: Abba.

Non nuovo nel vocabolario famigliare dato che in quest'ambito è nato, ma inedito nell'essere impiegato come invocazione a Dio. Questo appellativo che proprio per la sua familiarità, per la dimestichezza con cui finanche i fanciulli lo adoprano nel loro dire, non era stato mai utilizzato dagli ebrei per rivolgersi a Dio, è quello che Gesù impiegherà sempre nella Sua preghiera. (43)

La inaccessibile magnitudine di Dio è messa alla portata della parola più semplice, quella che per prima utilizza un bimbo, quella che balbetta e con la quale chiede ed esprime sicurezza: Abba.

Sin dall'inizio segnalai che questo aspetto della misericordia e della dolcezza con la quale gli uomini controbilanciavano la potestà di Dio quando lo chiamavano padre, costituiva un po' il lato femminile di Dio. Gesù congiunse in modo supremo, quasi, incredibile, dominio e dolcezza, allorché chiamò il Creatore: amato padre, mio dolcissimo padre, Abba.

J. Jeremias sottolinea che la formula abi del vocativo e la forma enfatica aramaica aba (con una b), furono soppiantate dall'espressione abba (con due b) perché nel balbettio infantile il bimbo compiva la forma egualmente balbettata, e più primitiva, con la quale si rivolgeva a sua madre, ossia imma: (44) una contaminazione che portava come conseguenza alla duplicazione consonantica. Stando così le cose - aggiungiamo noi - la figura della madre avrebbe configurato l'immagine del padre in una specie di sovrapposizione del volto materno al volto paterno.

Quel che comunque, in ogni ipotesi, sembra essere fuori discussione è che la tenerezza che Gesù attribuisce a Dio quando la chiama Abba l'apprese in prima da Maria.

Fu lei, come per ogni uomo la propria madre, la prima realtà d'amore, che lo tenne a sé, la prima sorgente di vita che conobbe, il primo volto sorridente, espressivo che vide inclinarsi su di lui. Maria fu la prima esperienza della premura e dell'affetto, del legame indissolubile, fu la prima forma di quest'amore che Gesù chiamò Abba. Perché Abba e non imma? Non pretendiamo di violare la zona più intima del cuore di Cristo, però forse possiamo arrischiare qualche ipotesi. Asserisce Jeremias, rivedendo alcune sue convinzioni anteriori, (45) che il termine abba, il quale all'inizio era solo un'espressione usata dai bambini, passò poi a far parte del linguaggio familiare dei ragazzi più grandi, riferito pure alle persone anziane. (46) Esprimeva, pertanto, non solamente l'amorevole confidenza infantile, ma anche rispetto e obbedienza. (47) Gesù rende più chiaro il suo contenuto allorché spiega con esso quella autorivelazione reciproca assoluta che fa di Gesù l'unico autentico rivelatore di Dio. Tutto ciò forse, rese incline Gesù a chiamare Abba, padre mio. Quegli che i profeti di Israele già veneravano come Signore e come Padre e che gli ebrei chiamavano Adomai: Signore, mio Signore. L'Abba al quale si chiede (come un figlio ai suoi genitori) il pane, il perdono, la liberazione del male, è lo stesso il cui nome deve essere santificato, il cui regno bisogna aspettare con ansia, la cui volontà si deve compiere così in terra come in cielo.

E' tutto l'infinito rispetto al Creatore che Gesù ha impregnato di fiducia e di intimità, La Chiesa lo ha intuito benissimo quando, prima di recitare il Padre Nostro, riconosce la propria audacia.

Ci resta ancora da esaminare un momento cruciale della relazione tra Gesù e il Padre che definisce in maniera inaspettata e decisiva la paternità di Dio. Curiosamente, l'unica volta che gli evangelisti pongono sulle labbra di Gesù il termine Abba che era la Sua invocazione abituale a Dio è nel brano che narra l'orazione di Gesù nell'orto: "Abba, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu". (48)

L'Abba sgorga in questo istante da un cuore totalmente sottomesso ma anche profondamente addolorato e spaventato. Non è certo espressione di quella confidenza e fiducia infantili, di quello stupore dinanzi alla predilezione del Padre per i fanciulli, di quell'assoluta chiaroveggenza del Suo cuore, della totale concordia con Lui. E' il momento della solitudine e dell'abbandono. L'annuncio della paternità di Dia e della possibilità di un uomo nuovo, figlio di questo Padre, s'è scontrato con la meschinità degli interessi personali, politici e religiosi degli uomini. Questi hanno abbandonato Gesù e il Padre non vuole imporre loro il Suo Regno né salvare dal fallimento il Suo Messia. Al contrario, desidera che Colui il quale è riflesso del Suo essere e impronta della Sua sostanza sia anche il servo dolente, conosca i singhiozzi, le lacrime e le angustie e apprenda, soffrendo, forme nuove di quella stessa obbedienza che era stata una caratteristica della Sua filiazione. Vuole che il Figlio si offra in olocausto aprendo la via alla salvezza facendosi in tutto simile ai Suoi fratelli.(49)

In questa difficile scuola d'obbedienza Gesù apprese due verità fondamentali della Sua filiazione e, pertanto, della paternità di Dio. Primo: Egli vuole un figlio adulto, capace di sopportare l'essere abbandonato, capace di riconoscere che il Padre non esaurisce illimitatamente i Suoi desideri, né la Sua tutela gli evita i rischi o Lo protegge fino al punto da permetterGli di non crescere; ma è l'Altro che libera dalla sua alterità è un Padre pur rimanendo Dio.

Secondo: che è un Padre che vuole che il Suo Unigenito sia primogenito, che Lo vuole solidale con tutti gli uomini, che non lo vuole per sé soltanto, per un'estasi sublime da sperimentare Loro insieme e nessun'altro, ma per gli uomini, Gesù apprese nel momento cruciale della Sua vita che l'amore del Padre per Egli aveva esaltato come nessuno, amore verso tutti e, particolarmente, verso i bisognosi, giungeva al punto di consegnare ad essi il Figlio Suo. Questo atto di consegna era la passione di Gesù e fu in quest'ora che Gesù finì di conoscere il Padre e di conoscere se stesso come figlio.

Ci eravamo chiesti perché Gesù chiamò Dio Abba e non Imma. Forse il tirocinio di questa nuova forma totale di obbedienza, la sensazione di questa alterità e inaccessibilità di Dio, aiutano a capire. Però questo non "dissecca" l'inesauribile torrente materno della misericordia e della tenerezza. Misteriosamente però in maniera eloquente, come tutto nella passione di Cristo, questo stesso abbandono del Padre, di cui Egli soffriva, era il riavvicinamento definitivo, irreversibile, agli affamati, a quelli che non hanno guida, ai peccatori. Era la compassione di Dio verso i deboli, la tenerezza materna di Dio, Gesù era stato il portavoce di questo Dio misericordioso con i bisognosi di tutto, e il brivido di commozione che essi Gli producevano, Lo scuoteva, dicono gli evangelisti, nel profondo, nella Sua splajna, che è la traduzione greca del rahamin, venato di una già rilevata connotazione femminile. La profonda compassione di Gesù di fronte all'uomo bisognoso è il Nuovo Testamento della misericordia di Dio, la rivelazione definitiva della smisurata bontà, del viscerale amore materno del Dio d'Israele.(50)

Quel che Gesù apprese nella passione è che questa misericordia sarebbe giunta a un punto tale che Dio avrebbe dato al mondo il frutto stesso delle Sue viscere: come celebra la Chiesa: per salvare il servo Egli avrebbe dato il Suo Figlio.

Questo discorso sulla passione serve a farci ricordare che abbiamo lasciato a metà la riflessione su una grande verità: Gesù è il Figlio per antonomasia e Dio è propriamente il Padre di Gesù. Ma Egli si associa a noi per invocare insieme e nello stesso senso, Abba. Questa è una cosa dimostrata dalla esegesi, che il recente documento cristologico della Commissione Teologica Internazionale definisce come: trascendenza cristologica infinita. (51) Tuttavia Gesù, nel momento massimo di solidarietà, di comunanza con l'uomo, concesse il diritto di invocare Dio con lo stesso appellativo che Lui gli dava, ovvero Abba. (52) Per meglio dire, gli concesse qualcosa più di un diritto.

Dal Suo cuore trafitto dalla lancia, definitivamente aperto all'amore insondabile del Padre e alle necessità dei Suoi fratelli, Dio fece sgorgare l'acqua viva dello Spirito che sparsa sui loro cuori gli fa esclamare dal profondo, come ultima verità della Sua nuova condizione filiale: Abba, Padre. (53) Questo Spirito, lo stesso del Padre e di Gesù, che sgorga dall'intimo di Questi, è il nuovo dono del Padre al mondo, attraverso la dolorosa fraternità di Suo Figlio con noi uomini.

Notano gli esperti che Spirito, in ebraico ruah, è femminile. E realmente i suoi simboli più frequenti: acqua, fuoco, aria..., evocano la forza e l'immediatezza del mistero della natura e della vita. E questo Suo atto versi di noi, per il quale ci fa figli di Dio, fa fecondare in noi le parole di Gesù, lo mantiene vivo in noi stessi e ne fa il nostro consolatore, è espressione di una natura elevamente femminile.

Questa esperienza pasquale dello Spirito s'accompagna alla sensazione che, per essere gli uomini figli di Dio, hanno raggiunto la più elevata verità del loro essere, rimasta fino ad allora coperta da tutte le differenze naturali e culturali. Di fronte a questo dato della filiazione comune dallo stesso Padre si abbattono le grandi barriere che avevano diviso gli uomini in schivi e liberi, le differenze religiose per cui risultavano divisi i greci dagli ebrei, e così anche quella che sembrava un'insanabile diversità tra l'uomo e donna. (54) Tutto questo in ultimo è ormai insignificante.

Un'altra questione, molto dibattuta, è se Paolo sostenne fino all'estremo questa verità oppure si lasciò influenzare ad un certo momento, dalle costumanze sociali e religiose della sua epoca. (55)

Però se, riferita a Dio, paternità non significa virilità, ma pienezza originaria di vita che viene comunicata con illimitata generosità, il figlio di Dio è ricezione (femminile e maschile) di questo amore autocomunicativo, e risposta (maschile e femminile) ad esso. L'"uomo nuovo" non è un maschio, ma fede, speranza e carità.

Cap. 4: Il Padre materno nella storia della Chiesa

Benché può sembrare che non ci sia null'altro da aggiungere, la Chiesa ricorda un aspetto ancora più profondo nella paternità di Dio. Approfondendo il rapporto di Gesù con il Padre e l'esperienza dello Spirito che di esso ci rende partecipe, la Chiesa ha percepito la condizione trinitaria di Dio.

Risulta che il Padre è essenzialmente Padre, che non c'è niente in Lui che non sia paterno. E ciò non perché in un secondo momento di totale benevolenza si sia comunicato al Figlio, no! La paternità è la Sua modalità essenziale, prima, totale, di essere. E' Dio essendo Padre, è pura relazione vivente; uscita assoluta da se stesso; e il Figlio è il risultato di essa. Questo è il significato ultimo della paternità di Dio. E' Padre per essere autodonazione essenziale e originaria. Orbene, questa paternità di Dio produce il Suo frutto essenziale, il Figlio, senza intervento di altro essere.

Questo significa, come ha ricordato recentemente Moltmann (56) che Dio è al contempo Padre e Madre di Suo Figlio: Lo procrea (genera) e lo dà alla luce. E' padre paterno del Figlio generato (l'unigenito) e padre materno del Figlio nato l'"uninato": ex Patre natum.

Dalla Spagna vi porto una sorprendente formulazione di questa specialissima paternità di Dio. Nell'anno 675, l'XI Concilio di Toledo la espresse in questi termini: "il Figlio fu generato o nato (genitus vel natus) non dal nulla o da un'altra sostanza diversa, ma dal seno materno del Padre (de Patris utero)". (57)

C'è un'espressione più audace e al contempo più legittima e densa della maternità di Dio Padre? Con essa, e in generale con la concezione trinitaria di Dio, noi cristiani non abbiano bisogno né di "aggrapparci" ad un monoteismo di casta patriarcale che sotto la figura di Dio Padre adombri quella di un modo maschile, in modo da legittimare il patriarcato sociale, né d'altra parte, di intronare una Dea madre (madre terra, madre vita) di tipo panteista, né di inventare una "fratria" divina incompatibile con ogni tipo di autorità. (58) Abbiamo un Dio che essendo origine e signore della vita, è vita partecipata: e se traduciamo in economia di salvezza questa teologia trinitaria possiamo dire che abbiamo un Dio che identifica la Sua gloria nel fatto che i Suoi figli posseggano la vita e la posseggano in tutta la sua pienezza. (59)

Forse perché costa ancora molto a noi uomini riassumere in un solo soggetto le qualità del dominio e della tenerezza, i cristiani sono stati tentati di scindere queste due qualità fra Padre e Figlio e di vedere in Quegli il Signore e il Giudice e in questi il misericordioso e il comprensivo. Ma se questa ripartizione annidasse nel fondo della nostra coscienza o nella subcoscienza, saremo allora assolutamente incapaci di pensare la maternità dal Padre. Basta aprire la Scrittura per verificare come in essa venga saldamente sostenuta la inscindibilità di questi due attributi della condizione paterna del Padre che sono dominio e tenerezza; e come Gesù, lungi dal rimanere al nostro lato di fronte al Padre, è la dimostrazione suprema di questo amore paterno verso il mondo, l'incarnazione stessa di questo. La vita e la morte di Gesù si riassumono nella frase; "Il Padre infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito". (60)

Dal di fuori della Chiesa ci viene mossa un'altra accusa. Il cattolicesimo con la sua pietà mariana, avrebbe trasferito a Maria i tratti di Dio e Gli avrebbe lasciato solo quello di una solenne paternità.

Sarà vero'? Si sarà inconsapevolmente riservata su Maria la necessità di una dea Madre?. (61) Abbiamo appena ora indicato l'ingiustificabilità della ripartizione del dominio e della misericordia tra le figure del Padre e del Figlio. E' necessario riaffermare che se la pietà poco illuminata di certi cristiani e altre cause, che non stiamo qui a spiegare, hanno concentrato e divinizzato in Maria la maternità di Dio, Ella, da parte Sua, non è sempre vista come l'umile e gioiosa schiava del Suo Dio salvatore e come la messaggera della Sua misericordia che si estende su tutte le generazioni. (62) Maria sta al servizio della misericordia del Padre, non gliela contende. Maria fa parte del grande evento che è la rivelazione della benevolenza, della dolcezza di Dio Padre che culmina in Gesù e che è Gesù stesso. Per questo non offusca, ma manifesta questa "maternità" del Padre e Gli conferisce virtù femminili. (63) Dio ha voluto servirsi della "Sua schiava" non solo perché Gesù scoprisse per la prima volta con Lei quelli che sono il vincolo e il palpito dell'amore, ma pensando a noi, ha voluto che il volto di Maria inquadrasse in modo materno la salvezza. Finché Gesù e Maria saranno uniti, dalla culla alla croce, il grande evento dell'amore di Dio verso il mondo si svolgerà sempre in un clima materno.

Dio richiede il sì a Maria, presa in nome di tutta l'umanità, perché' nel suo seno si facesse carne il seno del Padre; e volle che, ai piedi della croce, Maria mantenesse questo sì. La misericordia del Padre verso il mondo si unì alla compassione di Maria e l'offerta del Figlio fu, insieme, l'offerta del Padre e della Madre. Si connotò, così, maternamente, il grande gesto paterno d'amore verso il mondo.

Cap. 5: Il Padre materno nei tempi attuali

Dopo questo brevissimo compendio di teologia ecclesiale, veniamo a considerare un poco questi tempi in cui ci è toccato vivere, alle soglie del terzo millennio. Se la misericordia consiste nell'avere a cuore la misericordia altrui, bisogna riconoscere che la nostra epoca suscita ammirazione e compassione. Una ristretta minoranza di privilegiati in senso materiale e culturale, epperò' poveri di umanità e di misericordia, decide il destino di una grande moltitudine di bisognosi di fronte a un'iniquità così spropositata, il nostro mondo ha cercato di rigenerarsi promuovendo la giustizia. Opera nobile e irrinunciabile che è appena cominciata. Però il Papa ha ammonito che con la sola giustizia l'uomo non conquista né il meglio per gli altri né il meglio di se stesso, che è quella disposizione spontanea alla misericordia la quale vuole la giustizia, ma va anche oltre essa. Per questo è necessaria creare una nuova civiltà, basata sull'amore, e un umanesimo nuovo, fondato sulla generosità dei cuori, la quale non significa debolezza, ma vigore e tenerezza uniti assieme.

Per questo la nostra epoca ha bisogno di trovare un Dio pieno di misericordia, un Padre materno. Lo ha trovato la Chiesa di oggi? Oso dire che la figura paterna del Creatore e, ugualmente, quella del Salvatore, risentono di un eccessivo rigore nelle nostre teologie, cui fa bisogno un completamento materno. Mi spiego meglio. L'ordine di Dio all'uomo di essere signore della terra, non ha dato luogo, in questa epoca dinamica, teologica volta verso il futuro, all'idea di un Dio dell'efficienza, che aiuta il mondo a progredire, ma senza amore, sacrificandolo al futuro, insomma di un Dio troppo a immagine e somiglianza dell'uomo moderno? Questo Dio, ha qualcosa di materno, o questa ultima qualità è stata sacrificata in ossequio a una dinamica e virile paternità? Non sarebbe necessario addolcire questa immagine del Padre Creatore ricordando, come dice la Bibbia, che la Creazione fu provocata dal desiderio divino di comunicare e di comunicarsi (64) e che nello stesso atto della creazione è implicito un fatto così tipicamente materno come è il sì al mondo, la compiacenza in esso, l'impossibilità di odiare qualcosa del creato? (65)

Quando, a proposito della logica della creazione, oggi si evidenzia che il Creatore, lungi dall'opprimere e umiliare, incoraggia e dà spazio all'uomo perché sia creatore e autonomo, a Sua immagine e somiglianza, non si stanno valutando questa relazione dallo stesso punto di vista del padre che emancipa il figlio e si eclissa perché questi possa diventare adulto? Non si giunge per questa via ad un'eccessiva separazione tra il Creatore e l'uomo, a un modello di padre che trascura il perenne vincolo ontologico e affettivo, e la radicazione del figlio in Lui?

Anche dalla prospettiva della salvezza oggi si tende a insistere molto sul fatto che Dio padre non è il Dio immutabile e impassibile della tradizione teologica, cosa per cui risulterebbe un Dio apatico, ma un Dio sensibile al dolore del mondo, un Dio patetico. E non è necessaria seguire J. Moltmann fino all'ultimo per ammettere, d'accordo con quanto abbiamo segnalato precedentemente, che Dio possiede il Suo "lato debole", i Suoi rakamin, che fanno sussultare il "Deus semper maior" per i più "piccoli".

Ciò nonostante, alcune teologie del dolore di Dio abbisognano di un discorso aggiuntivo perché altrimenti risultano sproporzionatamente virili. In effetti: quando descrivono il dolore del Padre al momento di offrire Suo Figlio per il bene dell'umanità, in una tale maniera sottolineano la solitudine e la disperazione del Figlio, che, nell'abbandono del Padre che soffre, non sembra che si possa verificare un Suo abbandono al Padre.

In che consisterebbe allora, il tremito struggente del Padre per Lui se Egli non lo percepisse in nessun modo? Non bisognerà forse riconoscere che, in mezzo all'abbandono, sussiste un'ultima coscienza della propria filiazione e una volontà, benché dolorosissima, di solidarietà con gli uomini? Come potrebbe essere la passione un avvenimento salvifico, (66) senza questa duplice presenza dell'amore?

E la risurrezione, non avrebbe impregnato tutta la realtà del mondo di questo amore che è il segreto della Passione e non avrebbe anticipato il futuro?. (67)

Anche noi credenti oggi sembriamo condannati, a causa di certe correnti teologiche, ad una situazione di totale oscurità, di silenzio di Dio e obbligati ad un cristianesimo nudo ed eroico o soltanto confidente nella speranza di un futuro migliore.

Citiamo la teologia secolarizzata, per esempio, che esige di vivere come se Dio non esistesse; una cristologia che menziona quasi soltanto la critica di Gesù alle immagini tradizionali di Dio e dell'uomo, un'escatologia che in un tale modo privilegia la dimensione del futuro che sospetta del "sì, subito" della salvezza e della creazione. Però, più che altro, è la situazione nella quale ci troviamo di un mondo o agnostico o ateo o materialista, quella che sembra far spegnere totalmente la voce di Dio. Abbiamo l'impressione che dobbiamo realizzare da soli, abbandonati da Dio, il grande compito cristiano dell'amore e della misericordia; l'impressione che il volto paterno di Dio si è oscurato o ci manifesta solo il Suo lato occulto misterioso, la Sua esigente paternità.

Non sentiamo, impellente, la necessità che Qualcuno ci ricordi, come fa il Papa, che abbiamo il diritto di ricorrere alla misericordia, implorandola al cospetto di tutti i mali fisici e morali? (68) Non sentiamo il bisogno di bilanciare la verità che contengono queste teologie, con quell'altro aspetto della paternità di Dio, il lato materno, e sentire e sperimentare vigorosamente il Suo amore e la Sua tenerezza, con la quale persuade noi, come Gesù, che rende più felici il dare che ricevere, (69) che la vita vale la pena di essere vissuta, che con l'amore si vince, che la misericordia è la forza più compiuta di umanità? Scorgere già ora nella natura e nel volto degli uomini i contorni di quel futuro in cui tutto sarà compreso nel grembo di Dio, e Dio stesso sarà il tutto in tutto?...

E' vero che la percezione di questo nuovo senso della vita impone che dobbiamo cercare e concretare questo senso, che lo riveliamo e lo propaliamo; che stiamo attenti a ciò che accade intorno a noi e ci disponiamo interiormente ad essere sensibili al male che aspetta la nostra compassione e il nostro aiuto. E' necessario che noi pratichiamo la misericordia per sentire noi medesimi e far sentire agli altri che Dio è misericordia. Quegli che nel Suo Figlio Gesù si è rivelato al mondo come tale (ossia come misericordia), s'aspetta dalla Madre Speranza e dalla Famiglia dell'Amore Misericordioso, i Figli e le Ancelle dell'Amore Misericordioso, e di tutti i Suoi figli "dispersi" per il mondo che dispongano le loro vite a questa verità di Dio e alla verità dolorosa del mondo, per manifestarsi a quest'ultimo come quell'indubitabile amore, quell'indescrivibile tenerezza, quella profonda sensibilità che anche oggi, pur nel Suo silenzio e abbandono, si possono percepire.

A questo "sì, subito" dell'amore paterno che ci spinge a chiamarlo Abba, come fece Gesù, anche nella solitudine dell'orto, nel dolore del mondo, nel "non ancora" del Suo Regno, vorrei dare il nome di volto materno del Padre.

Prima vi ha riferito, portata dalla Spagna, una originale e stimolante formulazione di questa maternità di Dio. Ora voglio darle forma con due immagini, che, tra le altre, del pari richiamano l'attenzione, del romanico spagnolo, Nel timpano di San Domenico di Soria e nella colonna che sostiene il timpano del Portico della Gloria di San Giacomo di Compostela appare Gesù, in veste di bambinello, epperò questa volta non nel grembo di Maria, ma nel grembo materno del Padre.

* * *

A seguito della lezione, due giorni dopo il Prof. Armendariz è stato invitato a riprendere la parola per dare risposta ad interventi dei convegnisti.

Sono stato più volte citato da Padre Gino a proposito del terribile problema della sofferenza ed in particolare della sofferenza dei santi. Avrei voluto intervenire subito, ma non me lo permetteva il mio pessimo italiano.

Vorrei comunque portare il mio piccolo contributo a questa interminabile domanda, alla quale neanche lo stesso Gesù ha dato altra risposta se non la Sua accettazione del dolore sulla croce a favore di altri, nel tempo stesso in cui domandava "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".

Il mio breve, improvvisato e affatto pretenzioso contributo, vorrebbe consistere in questo:

1 - credo che non basti dire; i santi soffrono volentieri perché così si rendono simili a Lui, al Figlio in croce.

La grossa domanda è: perché soffre il Figlio?

2 - Se unicamente ricordiamo che Dio è Amore Misericordioso, credo che il problema non resta sufficientemente chiarito.

3 - Dio è, anche nel mezzo della Sua misericordia, un Dio misterioso incomprensibile, mistero che Gesù stesso venera, invoca, ma non risolve.

4 - Ebbene, non basta neanche questa affermazione generale; Dio è, in concreto, misterioso perché ha voluto che l'uomo non sia una realtà che nasce bella e perfetta, ma una via verso la perfezione, verso l'essere filiale; ha voluto che l'uomo sia come suo figlio: filii in Filio.

5 - Questa strada verso il Figlio è una via dolorosa, strada di dolore, perché è una via di crescita che lascia dietro di sé le comodità, le forme istintive e l'infantilismo a cui l'uomo si attacca.

E' una via di spogliamento in vista dell'arricchimento.

6 - Inoltre è una via di solidarietà. L'uomo deve rompere il suo isolamento e ammettere nella sua la vita degli altri.

Questa espansione della propria vita la rende grande, però dolorosamente grande.

7 - Dio ha voluto rispettare la nostra creatività, cioè i nostri limiti, e i limiti ci fanno male: la morte, il dolore, la dipendenza della natura, della corporeità, dell'influsso degli altri, cioè i nostri limiti, e i limiti ci fanno male: la morte, il dolore, l'insoddisfazione, l'ansia infinita. Tutto questo ci fa essenzialmente vulnerabili, sofferenti.

8 - L'uomo fa difficoltà ad accettare tutto questo: questi limiti, questa crescita dolorosa, questa espansione della sua anima che lascia posto in sé agli altri; questa resistenza alla creaturalità è il peccato. Orbene il peccato non è solamente un atto istantaneo o momentaneo che possa essere perdonato con un altro atto istantaneo di misericordia; e questo rifiuto ad essere un uomo in senso filiale, produce intrinsecamente dolore perché sfigura, altera la realtà: il tossicodipendente, il violento, l'egoista fanno male a se stessi e agli latri perché disumanizzano, fanno violenza alla realtà e così va sorgendo quella grande e terribile realtà che è il peccato del mondo e il dolore del mondo.

9 - A questa realtà Dio non risponde solo con un atto di amore misericordioso che perdona e dimentica, considera non fatto il peccato, no! Dio, appunto perché è Creatore, vuole che la realtà raggiunga il suo compimento, e perché è Padre vuole che gli uomini siano "figli", vuole che siano trasformati da bambini in adulti, da egoisti in altruisti, da inumani in pienamente umani; sorge così una nuova forma di dolore, il dolore della trasformazione verso l'alto: il dolore della rinuncia alla droga, alla violenza, all'egoismo che già formano parte, con il peccato, della realtà del mondo. La strada verso l'uomo non comincia da zero, bensì dal negativo all'umano.

10 - Il Figlio è colui che, per il fatto di essere il primogenito, l'essere per gli altri, fa sua la vita dei fratelli, tutto il dolore del mondo, tutta la lontananza del creatore che porta in sé il peccato e tutto questo lo trasforma in atto di amore e di solidarietà; ed è per questo che soffre il Figlio; per il fatto di essere l'Uomo, il primogenito di un mondo limitato e peccatore, finito e colpevole come direbbe Ricoeur. Inoltre il Figlio soffre la resistenza di tutti quelli che non vogliono accettare il suo programma filiale perché è troppo esigente e ci fa uscire da noi stessi; è condannato a morte dagli altri, tolto di mezzo, messo in croce.

11 - I santi sono coloro che soffrono di più perché, seguendo Gesù, fanno propria tutta la pena e il futuro del mondo, perché sono più uomini e più fratelli, e perché portano la croce, come dice il Vaticano II, che il mondo mette sopra le spalle di coloro che cercano la giustizia.

Nonostante che la loro sofferenza sia consolante, perché sanno di essere uniti al Figlio, resi forti dal Suo spirito, dato che conoscono il senso del dolore.

12 - L'aspetto più terribile del problema del dolore è la sofferenza di coloro che non sanno perché soffrono, e quale valore può avere il loro dolore.

Il Vaticano II ha detto nella Gaudium et Spes una cosa straordinaria, la più audace, secondo il Cardinale Ratzunger di tutto il Concilio Vaticano II. Ha detto che ogni uomo, in un modo che solo Dio conosce, è invitato ad entrare nel mistero pasquale di Cristo; ciò vuol dire, penso io, che ogni dolore umano, si sappia o non si sappia, è parte del dolore di Cristo. Per questo nel dolore di Cristo crocifisso c'è tanto non solo di generosità e grandezza, ma anche tanto di piccolezza, di non-senso; è lì presente tutta la piccolezza e l'assurdo del mondo, non soltanto tutto il suo eroismo.


1 - IUAN PABLO II, Dives in misericordia, 14, riprendendo una formula di PAOLO VI, Ibid., nota 125, non bisogna dimenticare che fu precisamente in occasione di un invito a pregare per i conflitti del Medio Oriente quando GIOVANNI PAOLO I pronunciò la sua famosa frase: "Dio è Padre, anzi, è madre. Non vuole il nostro male; vuole solo farci del bene, a tutti. E i figli, se sono infermi, hanno più motivo per essere amati dalla madre". IUAN PABLO II, Enesnanzas al Pueblo de Dios, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 5.

2 - In questo, fra l'altro, diverge questo studio da quello più ampio e documentato di L. BOFF, El nostro materno de Dios, 3^ ed., Ediciones Paulinas, Madrid, 1981. L'autore analizza la categoria dell'aspetto femminile dalla prospettiva delle scienze umane, prima di impostare su di esso una meditazione teologica, anche se so propone di "leggere l'aspetto femminile a partire dai principi teologici" e riconosce che la teologia suppone "un taglio epistemologico nell'impiantare un discorso proprio", p. 78.

3 - J MOLTMANN, El padre maternal, in Concilium 17 (1981) 381-389; C. GEFFRE, "Padre", nombre proprio de Dios, Ibid., 368-380. L'importanza di questi e altri articoli dello stesso numero dedicato al tema "Un Dios Padre?", viene sottolineata dall'attenzione che da essi la "Summa Theologica" postconciliare Mysterium Salutis, M. LOHRER, CH. SCHUTZ, D. WIDERKEHR (Ed), Benzinger, Zurich, nella sua Erganzungsband, 1981, 314-317.

4 - Questa attività dello Spirito Santo non può intendersi ridotta ai cristiani. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto: "Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel mondo che Dio conosce, col mistero pasquale. Tale e così grande è il mistero dell'uomo che.. esclamiamo nello Spirito: Abba, Padre!", Gaudium et Spes, 22.

5 - Cf. G. MENSCHING, Vatername Gottes, I Religionsgeschichtlich, in Religion in Geschichte und Gegenwart, 3^ ed., I.C.B. Mohr, Tubinger 1962, VI, 1232-3.

6 - J. JEREMIAS, Abba. El mensaje central del N. Testamento, Sìgueme, Salamanca, 1981, 19. In un altro passo equipara l'aspetto materno alla magnanimità e alla misericordia, 225. Si noti che non si tratta tanto di chiamarlo "Madre", quanto di applicargli caratteristiche che siano soliti considerare materne.

7 - Il filosofo L. KOLAKOWSKY attribuisce al mito la virtù di orientare e di dar senso, cf. Herderkorrespondenz 31 (1977) 501-506. Circa la positività del mito e i tentativi moderni di recuperarlo nel modo di pensare, ai può vedere quello che al riguardo scrive L. BOFF, El nostro.... 245-251.

8 - Cf. C. GEFFRE, "Padre"...378; CH QUQUOC, El Dios diferente; Sìgueme, Salamanca 1978, 80 ss; dove sviluppa questa tematica per descrivere la figura trinitaria di Dio.

9 - P. RICOEUR, La paternitè: du fantasme au symbole, in Le conflit des enterprétations. Esais d'hermeneutique, Seuil, Paris 1969,476. La frase citata conclude una serie di considerazioni intitolate "La dialettica della paternità divina", nelle quali, facendo sua la riserva dell'Antico Testamento di chiamare "Padre Dio" (di questa riserva parleremo più avanti), propone di passare sotto silenzio questo appellativo fino a comprovarlo nei racconti della liberazione dell'Egitto, nel ruolo della Legge e nello stesso nome di Jahvé di cui il titolo di Padre è solo un epiteto, p.472-476.

10 - Così sentenzia la nota formula del Concilio Lateranense IV DS, 806, mediante la quale la teologia cattolica (E. Przywara, H. Urs v. Balthasar...) allo stesso tempo evitava il livellamento tra Dio e l'uomo e poteva mantenere, di fronte al protestantesimo, la possibilità di una relazione tra il loto ed anche la legittimità del concetto teologico di natura.

11 - Nel senso di porre un prodotto umano, un prolungamento dell'uomo stesso, non disincantato da quella "maggior diversità" che permette a Dio di essere Dio.

12 - L. BOFF, El rostro.... 74-5.

13 - J JEREMIAS, Abba.... 19, nota 4.

14 - Dt. 32,6; Is 64,7. Cf H. J. KRAUS, Vatername Gottes, II im A.T., in RGG, VI, 1234; G. MENSCHING, Vatername... 1223 osserva che l'invocazione paterna tende a scomparire nella letteratura dei mistici precisamente perché questi mettono in risalto l'immanenza di Dio a costo della sua differenza con la creatura.

15 - Dt 14,2;32,6.10.18; Is 45, 10ss; 2 Sam 7,14; Sal 2,7; 89,27.... G. GNILKA, Vater Vaterschaft Gottes, I Biblisch in Lexikon f. Theologie u. Kirche, X, Herdere, Freiburg 1966, 619; X. LEON-DUFOUR, Vocabulaire de Theologie Biblique, Cerf, Paris 1962, 802-3 segnale che la progressiva spiritualizzazione dell'idea della paternità in Israele permette poi di risalire la linea delle generazioni fino a Dio (Gen 1,27 in confronto con 5, Iss; Lc 3,23-8); F.K. MAYR, Patriarchalisches Gottesverstandnis? in Theol Quart 152 (1972) 224-255 pensa che la nuova comprensione della paternità come elettiva e prodotta dalla parola creatrice, che caratterizza Israele, integra, senza tuttavia eliminarli, i simboli del culto matriarcale proprio delle religioni naturalistiche e politeistiche.

16 - La formula è di H. J. KRAUS, Vatername.... 1234.

17 - G. MENSCHING, Vatername.... 1223 torna a osservare che, insieme a quanto segnalato nella nota 14, l'appellativo divino di padre scompare realmente, ma contrariamente a quello che succede nell'Islam dove la signoria di Dio si converte in arbitrarietà.

18 - Es 33, 19ss; 34,6SS.

19 - Es 34, 7.

20 - Cf. HJ. STOEBE in JENNI/WESTERMANN (ed) Theologisches Handworterbuch zum A. Testament II Ch. Kaiser, Munchen 1976, 762.

21 - Gen 17,8; Dt 4,37; 7,8; Ez 16.

22 - Es 3,7.

23 - Ger 31,20.

24 - Os 11,1.4.8.

25 - Is 66,13.

26 - Is 49,15.

27 - Sal 116,15.

28 - Os 1-3; Ger 2,2.20; Is 54, 4-8; 61,10; 62,4ss; Ez 16,1-43.59- 63.

29 - Questa lettura dei capitoli 2 e 3 della Genesi, che implica infermità e subordinazione della donna rispetto all'uomo, in consonanza con le abitudini sociali, non solo si diffuse in vaste zone ed epoche della cristianità, essa veniva già abbastanza ufficializzata dalla sinagoga, Cf. H.D. WENDLAND, Die Briefe ad die Korinther, Wandenhoeck-Ruprecht, Gottingen 1968,90-95; L. BOFF, El rostro..... 80ss adduce abbondanti testimoni di questa storia antifemminista.

30 - Così intende C. WESTERMANN, Genesis, Neukirchener Verlag 1970, 316, 340. In ambedue i racconti, creazione e caduta percepisce solo l'aspetto positivo del comune e mutuo completamento dell'uomo e della donna o l'aspetto negativo della sua ugualmente comune complicità. Riconosce tuttavia la sottomissione della donna all'uomo, ma solo come frutto del peccato, p. 356-8.

31 - Gen 1,26. Non bisognerebbe dimenticare che questo capitolo primo della Genesi è posteriore nella sua composizione al secondo e al terzo, alle volte è un completamento di questi.

32 - Prov. 8.

33 - Sap. 7,26.

34 - Sap. 8,4; 9,9ecc.

35 - J.JEREMIAS, Abba.... 37 ss. Non bisogna passare sotto il silenzio gli altri autori del Nuovo Testamento, Paolo in particolare, che designano Dio come Padre.

36 - Lc 11,13.

37 - Lc 11,15.

38 - Mt 6,8.32.

39 - Mc 11,25.

40 - Lc 12,30.

41 - Mt 11,27. Giovanni in particolare limita il titolo di padre alla relazione di Gesù verso Dio, facendone così un elemento caratteristico della sua cristologia, poiché lo impiega in un senso assoluto. Cf. G.GNILKA, Vater... 620.

42 - Mt II, 25; 16,17; Mc 4,11; 13,22; Lc 10,23; 22,29 ecc.

43 - Ad eccezione semmai del momento doloroso della croce. Ma in questo caso era il Salmo 22, quello che stava pregando, che gli faceva chiamare "Dio mio" il suo Abba.

44 - J. JEREMIAS, Abba... 66.

45 - Ibid., 70.

46 - Ebid., 50ss. E questa utilizzazione del titolo come formula di cortesia spiegherebbe forse la proibizione di Gesù (Mt 23,9) di chiamare qualcuno Abba. Non si tratterebbe del padre carnale, ma di altre persone distinte e benefattrici. Applicato anche a quelle rimarrebbe svuotato un titolo la cui attribuzione a Dio le aveva conferito qualità uniche.

47 - Mt 11,25-6; Mc 14,36.

48 - Mc 14,36. Così lo interpreta J. JEREMIAS, Abba.... 63.

49 - Ebr 2,10-18; 5,5-10.

50 - Cf. H.KOSTER, Splajnon in Theologisches Worterbuch z.N.Testament, VII, Kohlhammer, Stuttgart 1964,552. Questo articolo giustificherebbe pienamente la nostra frase "è il Nuovo Testamento della misericordia di Dio". L'aurore citato afferma che la parola "Splajnon, fuori dell'uso che ne fa Gesù nelle sue parabole, è utilizzata dal Nuova Testamento solo in riferimento a Gesù stesso, come caratteristica della divinità del sua agire, venendo così a designare un attributo dell'agire divino.

51 - COMMISSIO THEOLOGICA INTERNATIONALIS, Quaestiones selectae de Christologia 11,B,5 in Gregorianum 61 (1980) 609-632, p. 618.

52 - Lc 11,24.

53 - Gal 4,6; Rom 8,15.

54 - Gal 3,28.

55 - Cf Cor 11,3.7-9. La maggior parte dei commentatori pensa che Paolo non arrivò in questo momento a porre in questione con la novità cristiana le abitudini giudaiche e la conseguente ideologizzazione, al contrario di quello che fece in Gal 3,28, sebbene nel verso II puntasse verso questo nuovo modo di essere, indiscriminato, che si dà "nel Signore", Cf. H.D.WENDLAND, Die Briefe... 90-95; J. KURZINGER, Briefe del Apostel Paulus, Echter Verlag Vurzburg 1968, 38-40; CH. SENFT, La prémière épitre de S. Paul aux Corinthiens, Delachaux et Niestlé, Neuchatel, 1979, 140-5; L.BOFF, El rostro... 80-93.

56 - El Padre... 386.

57 - DS. 526. Già TERTULLIANO, Adv. Prax.c.7,1,CCL,2,1165, aveva impiegato la formula "Et unigenitus, ut solus ex Deo genitus, proprie de vulva cordis ipsius"; la traduzione latina della Volgata diceva: "ex utero ante luciferum genui te" Salmo 110. TOMMASO D'AQUINO afferma: "Unde quae in generatione carnali distinctim patri et madri conveniunt, omnia in generatione Verbi Patri attribuntur in Sacris Scripturis; dicitur enim Pater et dare Filio vitam et concipere et partuire". Contra Gentiles I.IV,c.II.

58 - D.SOLLE, Padre, poder y barbarie in Concilium 17 (1981) 404- 411 si chiede, p. 410 se l'indipendenza "è una parola liberatrice, un valore centrale che le donne scoprono da se stesso o se ci sono dipendenze irrinunciabili... E' la dipendenza semplice eredità repressiva oppure fa parte della nostra condizione creaturale?"; termina sostenendo quest'ultima.

59 - Gv. 10,10. F.J.MAYR, Patriarchalisches... pensa che l'aspetto materno in Dio è qualcosa più che un insieme di caratteristiche materne del padre. In forma schematica e interrogativa, p. 255, lancia l'idea che l'aspetto materno è personalizzato in Dio allo stesso modo che l'aspetto paterno e filiale. Lo Spirito Santo sarebbe questa ipotesi divina dell'aspetto femminile-materno, p. 250-255. In questo modo la famiglia umana (padre, madre, figlio) costituirebbe l'imago trinitatis. Così si supererebbe la strettoia psicologica e individualistica che introdusse Agostino nella Teologia con il momento delle potenze dell'anima come analogon della Trinità. Agostino, da parte sua, avrebbe subito l'influsso del modello patriarcale greco che identificava da un alto Dio con il Padre, e lo concepisce come spirito che pensa a se stesso, e dall'altro l'uomo con il maschio, e lo concepisce come spirito contemplativo. L.BOFF, o.c. parla anche della necessaria "depatriarcalizzazione" delle stesse Scritture, p. 80 J. MOLTMANN, Trinitat und Reich Gottes, Ch. Kalser, Munchen 1980, 144-168 analizza la realizzazione tra monoteismo e monarchia.

60 - Gv 3,16

61 - W. PHILLIP, Muttergottheiten in Evangelisches Kirchen Lexikon II, Vandenhoech Ruprecht, Gottingen 1958, 1469-1471 vuole vedere nelle invocazioni e nelle caratteristiche del culto mariano tendenze dei fedeli alla dea madre. Cf. E.FROMM, Tener o ser? Fondo de cultura econòmica, Madrid 1981, 7^ ed., 140-2.

62 - Lc 1,46ss.

63 - L. BOFF, El rostro....108. In questo "Ensayo interdisciplinar sobre lo feminino y sus formas religiosas" (sottotitolo del Libro), che sbocca in una mariologia, sostiene Boff, come ipotesi (Teologumenon) che "la Vergine Maria, madre di Dio e degli uomini, realizza in modo assoluto ed escatologico l'aspetto femminile, perché lo Spirito Santo ha fatto di lei il suo tempio, il suo santuario e il suo tabernacolo, in modo tanto reale e vero che deve essere considerata come unita ipostaticamente alla terza Persona della Santissima Trinità", p. 115. Aggiunge che questa ipotesi, anche evitando le espressioni dirette di "incarnazione" e di "unione ipostatica", appare con frequenza crescente nella teologia attuale, sebbene incontri una certa riserva nella maggior parte dei teologi. Egli stesso preferisce il temine "spiritualizzazione", p. 120, ma intesa nel senso stretto per cui Maria accoglie la terza Persona della Trinità e rimane così "ipostaticamente assunta da Essa", p. 124. Le testimonianze e le ragioni addotte in favore di questa ipotesi non risultano convincenti, né bastano a contraddire le altre formule della fede e della teologia circa l'unico mediatore Gesù; e circa l'assoluta autorivelazione di Dio .
che in Lui si dette.
Perché quello che in qualche modo appare implicare questa teoria è una riduzione della realtà rivelatrice di Cristo. Avrebbe messo in evidenza direttamente ed esplicitamente solo l'aspetto maschile di Dio, p. 97,113. L'equiparazione e la Giustapposizione di Gesù e Maria, che da ciò pare risultare, mistero di Cristo.
In una operetta posteriore, El Ave Maria. Lo feminino y el Espiritu Santo, Sal Terrae, Santander 1982, ripete le stesse idee: "Una autocomunicazione realmente unica dello Spirito a Maria, tanto concreta e reale come l'autocomunicazione del Figlio eterno a Gesù di Nazareth. Lo Spirito si sarebbe pneumatizzato in Maria", p. 106.

64 - La visione salvifico-cristocentrica della creazione, propria dell'Antico e del Nuovo Testamento, e che il Vaticano II è tornato ad inserirla nella dimensione ecclesiologica, assicura che l'autodonazione gratuita di Dio (la sua grazia) non fu una decisione divina posteriore al peccato e determinata da esso, ma il proposito iniziale del Padre, ciò che lo mosse a creare. Cf Lumen Gentium, 2; Gaudium et Spes, II,22,38...

65 - Sap 11,25.

66 - E' la considerazione che fa la COMMISSIO THEOLOGICA INTERNATIONALIS, Quaestiones...IV,B2.

67 - La stessa legge invocata dagli escatologisti, e secondo la quale il presente è aperto al futuro e pregno di lui e inquieto verso di lui, obbliga a concludere che il futuro germina e si fa sentire già nel presente. Questa dialettica tra protologia ed escatologia traduce l'altra, più profonda, tra la fede e la speranza.

68 - GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia,12.

69 - Atti 20,35.