Kazimierz Romaniuk

LA SALVEZZA DELL'UOMO COME OPERA DELL'AMORE DEL PADRE E DEL FIGLIO

Care sorelle

Cari fratelli

Prima di tutto vorrei esprimervi il mio sincero ringraziamento per l'invito a Collevalenza. Sono molto lieto di poter vedere questo luogo santo e famoso, visitato anche dal Santo Padre.

Poi come sapete, non sono italiano, La vostra bella lingua non è la mia lingua materna. Ripeto dunque le parole del Santo Padre: "Quando mi sbaglio, me corregerete".

Per cominciare la relazione stessa, devo dire che tratterà 1^ storia dell'umanità;

2^ questa storia è niente altro che la storia del dialogo:

dell'amore misericordioso da parte di Dio;

dei peccati da parte dell'uomo.

3^ La storia di questo dialogo si può dividere in tre tappe

I. La creazione come iniziativa e segno dell'amore di Dio.

II. tappa: Peccato come risposta all'amore di Dio.

III. tappa: l'opera della redenzione come la risposta di Dio

al peccato dell'uomo.

Il testo che avevo preparato per questo convegno contiene tutte e tre le tappe, ma siccome ci vorrebbero tre ore a leggerlo per intero, devo presentarlo ridotto.

* * *

L'idea della bontà salvifica ci viene proposta soprattutto in san Paolo sotto diversi temi; tuttavia si può praticamente dire che tutti gli attributi di Dio evocati nella descrizione dell'opera di salvezza possono, alla fine, ricondursi alla carità salvifica. E' così che vogliamo parlare ora delle virtù divine in quanto esse svolgono un ruolo salvifico, cominciando da quelle che sono vicine alla carità, poi si tratterà di essa stessa. Ma, anzitutto, qualche parola sulla promessa della salvezza.

A - La promessa della salvezza come risposta di Dio al peccato dell'uomo

Ricordiamo, con l'autore ispirato, che Dio non è come l'uomo: "Io sono Dio e non uomo: sono il Santo in mezzo a te e non amo distruggere" (Os 11,9). Lo stesso in Ezechiele: "Il non godo della morte dell'empio, ma che l'empio desista dalla sua condotta e viva (Ez 33,11).

Fedele alla sua natura, invece della pena prevista, Dio annuncia per la prima volta la buona novella della salvezza. Ecco il testo del protovangelico: "Porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua. Egli ti schiaccerà il capo e tu lo insidierai al calcagno" (Gen 3,15).

Per comprendere meglio il senso di questo testo, bisogna ricordare il ruolo svolto dal serpente nella storia dell'uomo. Nel libro della Genesi non si dice da nessuna parte che il serpente è Satana, ma nel libro della Sapienza si legge: "La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo: e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono" (Sap 2, 24). Il serpente era "il più astuto di tutti gli animali della campagna che il Signore Dio aveva formato" (Gen 3,1), e si presentò alla donna come un vero amico, con un consiglio salvifico, informandola come ella avrebbe potuto arrivare alla piena conoscenza del bene e del male (Gen 3,5). Fu così che nell'attività del serpente la donna percepì un segno dell'indubbia amicizia. Certamente l'autore ispirato aveva presente questa simulazione dell'amicizia quando disse che il serpente "era il più astuto di tutti gli animali" (Gen 3,1).

Così, il primo peccato da parte di Satana, si è presentato come atto di amicizia verso l'uomo, falso ma ben simulato. Ora, la scoperta del vero volto di Satana costituisce l'elemento essenziale della sentenza pronunciata da Dio contro il diavolo, La sentenza comincia con le parole: "Porrò inimicizia". Ciò non significa che prima non esistesse ostilità tra il serpente e la donna. Da parte di Satana, almeno, non c'era mai stata amicizia verso l'uomo. Ma l'uomo non era capace di riconoscere la reale ostilità di Satana. Dio ha mostrato la sua bontà per l'uomo smascherando il vero volto di Satana. A partire da questo momento l'uomo ascolterà le parole del serpente in un'altra atmosfera. Egli saprà che ha a che fare con un nemico. Ora, negli affari con i nemici, un principio s'impone; tenersi lontani d essi. Il protovangelo ha così rivelato non solo al primo uomo ma anche a tutti i suoi posteri, la necessità di tenersi lontani da Satana. L'allontanamento da Satana, l'ampliamento della distanza da lui, è, nello stesso tempo, l'avvicinamento a Dio; ciò dev'essere considerato come un ritorno allo stato di vicinanza primordiale nelle relazioni tra Dio e l'uomo.

A volte si dice che il primo peccato ha confuso i piani di Dio tendenti ad elevare e ad avvicinare tutta l'umanità. Bisogna riconoscere subito che la condanna di Satana era un annientamento molto più effettivo dei piani del diavolo: egli non è riuscito ad avere l'uomo come complice nella comune lotta contro Dio. L'uomo diventa un deciso nemico del diavolo. Il termine ébach, che nel protovangelico descrive l'ostilità tra la donna e il serpente, in altri testi biblici designa conflitti e ostilità che durano all'infinito. E' così che il profeta Ezechiele, a proposito delle mutue relazioni tra Israeliti ed Edomiti, dice: "Perché hai mantenuto un odio secolare contro gli Israeliti e li hai consegnati alla spada nel giorno della loro sventura, nel giorno della colpa finale" (35,5).

Nello stesso modo viene espressa l'ostilità del Filistei verso gli Israeliti: "Poiché i Filistei hanno agito per spirito di vendetta e si sono vendicati con l'odio nell'anima, sterminando sotto l'impulso di una inimicizia di secoli...." (Ez. 25,15). Tale è l'ostilità che, per volontà di Dio, deve esistere tra Satana e la donna. Grazie alla rivelazione di questa ostilità, l'uomo potrà fare attenzione a Satana ed evitare così dei peccati, considerando tutto questo come segno della misericordiosa bontà di Dio. Pertanto, invece della distanza desiderata da Satana, Dio prese di nuovo l'iniziativa e introdusse la distanza tra l'uomo e Satana.

Concludendo le nostre riflessioni sul protovangelo, ci si potrebbe chiedere, con molti esegeti, se la divina bontà rivelata nella sentenza che condanna Satana e non l'uomo, non si opponga alle parole: "...dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, poiché se tu ne mangerai, di certo morrai" (Gen 2,17). Ci si chiede dunque se Dio, promettendo la vittoria finale della potestà della donna su Satana, non agisca contro se stesso: l'uomo ha rotto il precetto di Dio e secondo la volontà divina, così chiaramente espressa, egli deve morire. Forse Dio ha cominciato ad esitare nei suoi decreti?

Vi sono degli autori che osservano che la punizione prevista per il primo uomo non è stato soppressa ma dilazionata. L'uomo infatti non è morto subito dopo la consumazione del frutto proibito, ma non è stato liberato dalla legge della morte. Altri aggiungono che l'uomo non è morto di morte fisica ma spirituale. Continuando a godere della vita fisica, l'uomo, grazie all'aiuto di Dio, potrà recuperare la pienezza della vita spirituale.

Altri ancora dicono che l'iniziativa del peccato non è venuta dall'uomo. Egli è caduto sotto la pressione della tentazione, ciò che diminuisce la sua responsabilità agli occhi di Dio. L'uomo inoltre, dopo aver conosciuto la sua malizia, fa atto di contrizione. A differenza di Caino, il primo uomo ha riconosciuto la sua colpa.

Ma, in effetti, sembra che il protovangelo esprima un'altra idea. Nelle parole che promettono la vittoria finale alla potestà della donna - come nell'insieme della presentazione della creazione dell'uomo e dell'universo - si tratta della rivelazione della natura stessa di Dio, che è tutto bontà e misericordia. Per la prima volta l'uomo attendeva una pena giusta e ben severa: doveva morire. E fu allora che Dio si mostrò, pure per la prima volta, più misericordioso che giusto. Questo primo atto della misericordia divina costituisce anche una prospettiva del modo di procedere di Dio in futuro. Dio non si limiterà mai alla sola giustizia. Invece d'essere giusto vindice, egli apparirà come padre pieno d'amore e di misericordia, più che giusto.

Questa reazione di Dio rivelante la sua bontà e misericordia, era per l'uomo la prima lezione della vera speranza, Tutti i disperati non credono più nella bontà e nella misericordia di Dio. Non è così che Dio procede. Il protovangelo aprirà tutta una serie di testi che presentano Dio alla ricerca dell'uomo, Dio, nonostante i peccati dell'uomo, "non cessa mai di sperare - se si può dire così a proposito di Dio - nella conversione dell'uomo. L'uomo si è allontanato da Dio e dai suoi piani, si è persino nascosto fisicamente davanti a Dio; ha abbandonato i suoi padri e il prossimo; egli meritava soprattutto la pena ma anche la compassione. Dio, che non è come l'uomo, va alla ricerca dell'uomo. Queste peregrinazioni divine saranno accompagnate da numerose promesse di salvezza finale dell'uomo. Dio sa utilizzare anche le forse cattive per il bene dell'uomo. Queste forze eseguono le sentenze proclamate da Dio contro l'Egitto (Es 7,26-8,28; 10, 1-20; Sap 16, 1-12); esse realizzano la maledizione scagliata contro il suo popolo infedele (Dt 28, 26; Lev 26, 22; Ger 15,3). La storia dell'umanità è orientata verso il trionfo finale. Le vittorie della Bestia apocalittica contro solo apparenti e transitorie. Nell'Antico Testamento già si trovano delle garanzie concernenti la vittoria dei credenti. Gli Israeliti nel deserto possono guardare il serpente alto (Nm 21,9); essi sanno anche difendere la fede nel Dio unico (Dn 14,23-42); hanno la certezza che non incorreranno in alcun male, e nessun flagello giungerà alla loro tenda" (Sal 91,10).

Nel corso di lunghe guerre non prive di vittoria da parte degli Israeliti, questi erano esortati a non credere che il trionfo era merito loro, ma che tutto dipendeva dalla bontà di Dio.

B - I temi vicini a quello della carità

Come temi vicini a quello della carità salvifica, si possono citare quelli della misericordia, della benignità della filantropia, della grazia e, a volte della giustizia di Dio. Ciascuna di queste nozioni non si identifica con quella di agàpe, ma presenta un aspetto di questa. Tuttavia, ciò che si riferisce al concetto di misericordia, si trova anche più vicino al concetto di carità; i testi di Paolo permettono di mostrarlo.

1. La misericordia

Al tema della carità salvifica divina appartengono soprattutto i testi che descrivono la misericordia di Dio, idea così famigliare già nell'Antico Testamento, malgrado quest'altra tutta all'opposto in cui Dio s'infiamma di collera (cf. p.e. Es 4,14; Nm 16,22; Gs 7,1; 2 cor 25,15). Quanto al suo valore, il termine hesed dell'Antico Testamento è molto più vasto del termine éleos del Nuovo Testamento; spesso è molto vicino al termine ebraico ahabab, come la parola eleos in numerosi testi del Nuovo Testamento, si identifica quasi, come vedremo, con agàpe. Nel Nuovo Testamento, se non si tiene conto del suo uso nei saluti all'inizio o alla fine delle lettere, eleos è una parola relativamente rara. Quanto al suo significato, al di fuori del senso di fedeltà e di grazia (Lc 1,58), la nozione soteriologica di misericordia si trova nella parola éleos. In Paolo questo uso è tanto normale che tutta l'opera della salvezza riceve il nome di misericordia (cf. Rm 11,31; 15,9), e gli uomini sono chiamati oggetti della misericordia divina e "vasi di misericordia" (Rm 9,23; At 9,15; 2 Tm 2,20).

Per concepire la natura della misericordia divina, è bene notare anzitutto che il ruolo della misericordia è di placare - se si può usare questa metafora - la collera di Dio, come risulta da Rm 9,22ss: "Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla "gloria". La misericordia di Dio fa così apparire un'altra virtù divina: la longanimità. L'allusione alla redenzione è così chiara, che si può ben dire che essa è opera della misericordia che, peraltro, nel contesto è quasi identificata con la carità.

In alcuni testi, come per esempio Rm 11,30 o 1 Cor 7,25, la misericordia designa la conversione e la grazia della fede. Tutta l'economia della salvezza è fondata sulla misericordia, secondo questa parola: "Perché Dio ha racchiusi tutti quanti nella disobbedienza, per usare misericordia a tutti", ed è così che tutta l'opera salvifica di Dio si presenta a noi come segno della sua sapienza che, in un certo senso, si serve anche del peccato per rivelare la misericordia divina. Se questa sophìa designa, come osserva il P. Lyonnet, una sapienza divina che si dispiega nel consiglio salvifico in una maniera così sconcertante per la ragione umana, è chiaro però che essa manifesta allo stesso tempo la misericordia e la carità di Dio Salvatore. Anche quando in 1 Cor 2,8 Paolo dichiara che "se essi avessero conosciuto questa sapienza, hoi hàrchontes tou aionos toùtou non avrebbero crocefisso il Signore della gloria" egli pensa a questo stesso aspetto della carità nella descrizione dell'economia della salvezza e tiene a sottolineare soltanto che se "i principi di questo mondo" avessero conosciuto non solo la potenza del Signore, ma anche la carità con la quale il Cristo ha cercato il bene supremo del Signore, ma anche la carità con la quale il Cristo ha cercato il bene supremo di tutta l'umanità, essi non l'avrebbero certamente ucciso. Anche Paolo sarà preso dalla bontà divina quando in Ef 3,10 s, parlerà della "multiforme sapienza di Dio, secondo il disegno esterno che ha attuato in Cristo Gesù...".

Il dono del Messia è un segno della particolare misericordia nei riguardi dei pagani, i quali non possedevano le promesse messianiche (Rm 15,8): "Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio, per compiere le promesse dei padri; le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia". Paolo chiama misericordia anche la propria conversione dal giudaismo: "Io, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore, un violento. Ma mi è stata usata misericordia". Infine, secondo alcuni testi la misericordia appartiene alla natura stessa di Dio. In 2 Cor 1,3 leggiamo: "Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie". In questo caso hoiktirmòi rappresenta tutto quello che l'uomo riceve da Dio. Questo ci fa pensare che tutto ci viene dato come frutto della misericordia divina da Cristo o nel Cristo, perché' l'Apostolo parla esattamente nello stesso modo della paternità verso Cristo e della paternità verso le "misericordie".

Il motivo della misericordia nell'iniziativa salvifica è espressa con precisione in Ef 2,4. Il contesto immediato di questo versetto contiene la descrizione dello stato della natura umana decaduta. L'autore riunisce tutti i tratti possibili per descrivere la miseria dell'uomo. Ecco le sue definizioni del peccatore:

- morti a causa delle colpe e dei peccati

- un tempo viveste secondo la maniera di questo mondo, seguendo il principi delle potenze dell'aria

- quelli che resistono allo Spirito

- vivendo secondo le concupiscenze della carne

- seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi

- per natura meritevoli della collera di Dio come tutti gli altri.

Perciò, se Dio avesse trattato gli uomini secondo i soli principi della giustizia vendicativa, la sua collera avrebbe potuto facilmente abbattersi sul genere umano. Ma, al contrario, a partire dal v. 4, l'Apostolo comincia una descrizione dei beni ricevuti da Dio;

- ci ha fatti rivivere con Cristo

- e ci ha fatti sedere nei cieli.

Tutto questo quadro del nuovo stato dell'uomo inizia con queste parole: ho de theòs hon en eléci. Paolo qui utilizza volentieri il contrasto come mezzo letterario per esprimere la grandezza della misericordia di Dio.

Infatti, benché a partire dal v. 4 egli abbia cominciato ad enumerare i beni accordati agli uomini, tuttavia ritorna, una volta di più, alla loro cattiveria, e al v. 5 scrive kài òntas hemàs nekroùs. Successivamente riprende tutto il tema, ma cambia il suo modo di fare: non divide affatto l'argomento in due parti in modo da poter parlare prima della cattiveria dell'uomo e dopo della grazia di Dio, ma quasi ad ogni frase contrappone lo stato dell'uomo nel peccato e il suo stato dopo la redenzione:

- voi pagani, che eravate tali nella carne

- eravate senza Cristo

- esclusi dalla cittadinanza d'Israele

- estranei ai patti della promessa

- senza speranza

- e senza Dio in questo mondo.

- Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani, siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo.

- Voi non siete più stranieri né ospiti

- voi siete concittadini dei santi e famigliari di Dio.

Con Ef 1,3-14 il nostro testo ha in comune un'analoga insistenza: là vi è sottolineata la volontà, mentre qui si tratta della bontà e della misericordia salvifiche del Padre. I due testi ci fanno ricordare la parabole di Luca (15, 19-32) sul figliol prodigo, al quale tutta l'umanità può essere comparata.

Dunque, tutto quello che l'uomo possiede, quantunque fosse così completamente perduto, la deve alla misericordia divina. L'espressione ploùsios hon en eléci come quella di Fil 2,6 hòs en morphei theoù hupàrchon descrive la misericordia come una parte della natura immutabile di Dio.

La teologia di ciò che è legato all'idea della bontà divina rappresenta qualche cosa di molto caratteristico per le lettere pastorali. E' così che, non meno chiaramente che in Ef 2,4 Tt 3,4-5, parla della misericordia di Dio come causa della nostra salvezza: "Ma quando si è mostrata la bontà di Dio nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo". Anche qui la descrizione comincia (v. 3) con l'esposizione della miseria dell'uomo decaduto e quella nei termini che ricordano Ef 2,4. Molto spesso s'incontrano delle forme particolari, per meglio esprimere la durata dello stato d'iniquità. Il secondo periodo comincia al momento in cui appaiono la bontà e l'umanità di Nostro Signore. L'uomo viene liberato da tutti mali che sono stati citati, ma non "in virtù di opere di giustizia da noi compiute", bensì a causa della misericordia di Dio. Si vede quindi chiaramente che éleos in questo testo è quasi sinonimo di grazia. La salvezza, di cui ha misericordia di Dio è il principio efficiente, non appartiene alla sfera escatologica, ma rappresenta qualche cosa di già realizzato.

Benché la parola non ci sia, l'idea della misericordia del Padre appare in Rm 8,3 in cui, a proposito dell'opera di redenzione Paolo scrive: "infatti ciò che era possibile alla legge, perché la carne la rendeva importante, Dio lo ha reso possibile: mondando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché' la giustizia della legge si adempisse in noi". L'espressione en homoiomati sarkòs hamartìas forma un certo parallelismo con la formula morphen doùlou labou di Fil 2,7. Si tratta probabilmente dello stesso tema, ma presentato sotto un altro aspetto. In Fil c'è il Figlio stesso che riceve la forma di schiavo, ma qui è il Padre che agisce. Le due espressioni ricordano l'idea paolina, che in seguito sarà trattata più ampiamente, della comunità del Padre con Figlio nella salvezza degli uomini, ma la missione del Cristo "con una carne simile a quella del peccato", allude al tema della solidarietà del Cristo con gli uomini. D'altronde, non spetta a noi ora dare un'esegesi completa di questo testo. Notiamo solo il ruolo della misericordia di Dio che, di fronte all'importanza della legge, ha pietà dell'umanità e invia suo Figlio. Si tratta anzitutto, senza alcun dubbio, di un'allusione al mistero dell'Incarnazione, di una discesa del Cristo nella sfera dell'umanità peccatrice. Per questo il nostro testo richiama 2 Cor 5,21 e Gal 3,13. Ma la menzione della condanna del peccato e del compimento della giustizia suggerisce l'idea della morte e della risurrezione del Cristo; perché questo sarà in noi l'opera dello Spirito... di questo Spirito che ci è stato comunicato da Cristo diventato, con la sua morte e la sua risurrezione "Spirito vivificante".

Concludendo, possiamo affermare che èleos in Paolo ha spesso un carattere "spirituale", ossia che il suo oggetto è costituito più dalla miseria morale dell'uomo che dalla sua miseria materiale. Paolo accentua particolarmente il ruolo salvifico della misericordia di Dio e suggerisce l'idea che essa appartiene alla natura di Dio. In altre parole, l'opera salvifica del Cristo non è che la rivelazione della misericordia del Padre. Per questo si associa spontaneamente l'immagine del Cristo "che ha pietà della folla" (Mt 15,32) a un tale concetto della redenzione. Non è poi senza importanza rilevare i procedimenti letterati, in particolare le numerose antitesi con le quali l'Apostolo cerca d'illustrare la grandezza della misericordia di Dio.

2. La benignità- filantropica

In Tt 3,4 sono celebrate chrestòtès kài philanthropìa toù soteros hemon. Interpretando la cosa in un altro modo, si più dire che già nella nascita di Cristo si sono rivelate "la benignità e l'umanità" di Dio, il cui vertice si manifesta nella passione e morte del Cristo.

La rivelazione della benignità e dell'umanità di Dio viene espressa dal verbo epiphaìno, da cui è formato il sostantivo epiphàneia. Nella letteratura greca profana questo sostantivo veniva impiegato nella descrizione della nascita di un nuovo Cesare, o dell'investitura di un nuovo re nella città. Per Paolo, tuttavia, il verbo epiphaìno caratterizza l'evento di un bene che è rivelato nella persona del Cristo. Gli oggetti di questa manifestazione epifania, ossia la chrestòtes, la philanthropìa, la chàris, erano conosciuti anche dal mondo pagano e non è dunque impossibile che Paolo abbia ripreso la terminologia della letteratura profana introducendo tuttavia Dio come autore della rivelazione e dando ai termini dei nuovi contenuti. L'aoristo epephàne nota l'istantaneità del fatto della rivelazione e rinvia all'apparizione del Cristo al momento della sua nascita, ma il contesto susseguente suggerisce l'idea della salvezza mediante il battesimo, "spinto dalla sua sola misericordia ci ha salvati mediante il lavacro della rigenerazione", e pertanto siamo rinviati così alla passione e alla morte del Cristo.

La bontà e l'amore di Dio verso gli uomini rivelati sotto una duplice forma, quella della chrestòtes e quella della philanthropìa. I due termini hanno un senso molto vasto e negli scritti paolini appartengono specialmente alla teologia delle Lettere pastorali.

Chrestòtes designa in sé una cosa buona, atta all'uso (Lc 5,39); in senso morale esso indica qualche cosa di onesto, di onorevole, dotato di virtù; in Paolo questa può essere semplicemente la virtù dei cristiani, la nota distintiva della carità o il frutto dello Spirito Santo, ma prima di tutto è l'attributo di Dio ed a volte è utilizzato come sinonimo della misericordia con la quale costituisce la fonte della nostra salvezza.

Da parte dell'uomo, la chrestòtes divina è qualche cosa di così poco meritato che può condurre solo alla penitenza, e insegna ad aver fiducia solo nella bontà divina e non in se stesso. Si capisce dunque perché Paolo esclama: "Oppure disprezzi le sue ricchezze di bontà di pazienza e di longanimità, senza riconoscere che questa bontà di Dio ti spinge al pentimento?".

Il ruolo della chrestòtes divina nell'economia della salvezza non appare mai megli che in Ef 2,6-7: "Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia, mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù".

Il contesto precedente mostra che si tratta della bontà di Dio rivelata nella passione e nella morte del Cristo; inoltre tutto quello che è stato fatto da Dio nel Cristo, ha la sua finalità nella manifestazione della bontà divina. Tutti i beni della salvezza si ritrovano en chrestòteti. In seguito, si vedrà come questa chrestòtes costituisca il legame tra Cristo e gli uomini.

Chrestòtes è già, nella lingua filosofica, molto spesso unita a philanthropia. Quanto al suo significato, philanthropia conserva il suo senso antico, applicato tuttavia ad una nuova realtà. Il termine, abbastanza frequente in filosofia, significava il modo di comportarsi con eleganza, dignità e generosità nei riguardi degli altri, evocando un sentimento di soddisfazione in coloro che si vedevano oggetto di questa philanthropia. Contrariamente al termine chrestòtes, che generalmente era utilizzato in un senso profano, la parola philanthropìa ha molto spesso un carattere religioso e designa non solo l'amicizia o il modo di comportarsi degli uomini, gli uni nei riguardi degli altri, ma anche una certa inclinazione degli dèi nei riguardi degli uomini.

Nel Nuovo Testamento, la parola philanthropìa solo due volte, cioè in At 28,2 e Tt 3,4. Negli Atti si tratta della bontà che gli abitanti di Malta hanno avuto per Paolo; in Tito philanthropìa ha un carattere soteriologico poiché Dio, in questo passaggio, è chiamato Salvatore degli uomini. L'espressione Chrestòtes kài philanthropìa, esprime meglio tutta la bontà e l'amore di Dio verso gli uomini, L'idea di universalismo che si trova nel concetto di philanthropìa, dal suo avvicinamento con chrestòtes, riceve una nota di tenerezza famigliare.

Le nozioni di èleos, di chrestòtes e di philanthropìa, per quanto molto vicine al contenuto del concetto di agàpe, non sono tuttavia identificate nei testi soteriologici, con la carità.

Léleos, per esempio, sempre precedere, in un certo modo, la carità ed essere il motivo della carità salvifica. Il movimento spontaneo di misericordia produce il compimento delle opere di carità. Ma d'altra parte, l'agape è quello che mantiene e alimenta in qualche modo lo stato di commiserazione. In altre parole l'agape come tale è l'esteriorizzazione della misericordia.

La chrestòes non dev'essere considerata come identica e agàpe, ma piuttosto ne è il frutto. Essa colma l'idea d'agàpe di un aspetto e di pazienza nel fare il bene e di benignità e di compassione nelle avversità da superare.

Da una parte philanthropìa evoca esplicitamente, col suo stesso nome, la carità di Dio verso gli uomini, ma d'altra parte presenta il Cristo, nel contesto di Tt 3,4 per esempio, come il segno di una philanthropìas toù patròs.

L'espressione philanthropìa toù patròs offre l'immagine di una specifica tenerezza da parte di Dio che cerca il contatto con l'uomo, e come chino con amore materno sull'umanità ammalata. La composizione di chrestòtes kài philanthropìa rappresenta un poco di compassione umana del buon samaritano: "..gli fasciò le ferite...la caricò sopra il suo giumento, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui: estrasse due denari..." (Lc 10,34ss). Anche Paolo dichiara: "Dio ricco di misericordia... da morti che eravamo per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo... Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli... per mostrare.. la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi" (Ef 2,4ss).

3. Charis

L'amore misericordioso rimane anche in connessione con il concetto di grazia, perché Paolo allude spesso al suo ruolo soteriologico, e in questi passaggi chàris riceve una nuova e speciale colorazione. E' così per esempio che in Ef 1,6.7 con l'aiuto della nozione di chàris, l'Apostolo esprime la grandezza e l'assoluta gratuità della bontà del Dio Salvatore. Nel v. 6, questa ampiezza viene espressa con un semitismo che include quasi sempre l'idea di abbondanza quando ha la forma del "dativo interno", ma al versetto 7 si ha l'espressione katà tò ploùtos tes chàritas e, al di sopra di tutto, il verbo eperìsseusen chàris è chiaramente sinonimo della bontà e dell'amore salvifico di Dio in Rm 3,24: "sono giustifica gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù". La gratuità della redenzione è sottolineata due volte con le parole doreàm e chàriti. Secondo questo testo e ancor più secondo le parole di Ef 2,8: "Per questa grazia siete salvi", tutta l'opera della redenzione può essere chiamata chàris. La sua grandezza si trova accresciuta anche dall'espressione en tèi anochei toù theoù. Per mostrare quanto la nozione tes anoches sia vicina all'idea di carità, basta citare Rm 2,4: "Disprezzi le sue ricchezze di bontà, di pazienza, di longanimità?" In questo testo, l'espressione en tei anochei toù theoù fa in modo che chàris riveli questa nota della carità, descritta altrove da Paolo come "paziente, benigna... non si adira, sopporta tutto" (a Cor 13,4ss).

In certi contesti soteriologici, chàris ha spesso il carattere di una potenza divina. Se dunque essa viene identificata con la bontà, allora si tratta di un bene che realmente e con grande forza è "diffusivum sui".

Chàris sembra avere un tal senso in Rm 5,15: "Se per la caduta di uno solo, morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini". Anche in Rm 5,20: "là dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia". Specialmente in questo ultimo testo, l'efficacia della grazia è per così dire illuminata. Il contesto permette di concludere: la chàris toù theoù si è rivelata sotto la forma dell'obbedienza del Cristo.

Abbiamo già visto con quale forza Paolo insiste su questa idea che noi siamo salvati non in virtù delle nostre opere, ma bensì per la misericordia di Dio. Parlando della chàris, egli ritorna sull'argomento. Ecco cosa dice in Rm 11,6: "E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia", o in 2 Tm 1,9: "Egli ci ha chiamati... non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia". Tanto l'elezione di Rm 11,6 che la vocazione di 2 Tm 1,9, dipendono unicamente da Dio. Per questo la grazia è vicina non solo alla misericordia, ma anche alla benevolenza. Infine, tutto può essere designato con una sola parola, quella di agàpe, supponendo tuttavia, beninteso, i diversi aspetti del suo significato.

Il verbo charìzomai a volte esprime l'idea della bontà divina e anche di una bontà veramente salvifica. Così, per esempio, in Ef 4,32: "Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonatevi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo". Il verbo echarìsato, è evidente, allude alla carità di Dio manifestata nell'opera del Cristo, come apparirà in seguito, alla carità attiva del Cristo stesso. A causa del parallelismo con l'idea di mutuo perdono, si vede che chàris in questo contesto è quasi identificato con la carità; motivo del senso causativo di kathos echarìsato, l'azione divina fornisce non soltanto un esempio, ma anche la forza d'imitare Dio nel perdono del male. La chàris è dunque ciò che dona il suo dinamismo alla carità che la rende attiva e che per il suo universalismo salvifico, raggiunge tutti gli uomini. Con il termine chàris Paolo esprime soprattutto questa intensità dell'agàpe che cambia l'uomo dall'interno, che lo rende capace di mostrare agli altri una carità effettiva. La chàris infine rende manifesta la gratuità della carità, così contraria al principio giuridico del "do ut des".

4. Dikaiosùne toù theoù

Non mancano i testi nei quali la giustizia di Dio si trova legata alla misericordia e, con la mediazione, all'agàpe. E' in questo senso che si deve comprendere un testo come Rm 3,21-25. Con la morte del Cristo la giustizia può essere considerata spesso come effetto della carità e non vi è alcuna opposizione tra l'amore e la giustizia che salva; inoltre, si può dire che, in un certo senso, questi due attributi ne formano uno solo. La giustizia di Dio, come si ritrova nei contesti soteriologici, non consiste nel fatto che Dio giudica e condanna le ingiustizie, i suoi nemici, ma nel fatto che li considera suoi amici e suoi figli, e che suscita nel loro cuore l'odio per il peccato. Per questo motivo, la dikaiosùne ha molto spesso per contesto le idee di misericordia o di bontà divina. A volte la dikaiosùne non è che la fedeltà di Dio all'Alleanza stabilità con il patriarchi, come l'attestano Rm 1,17; 3,5 e 3,21ss. Del resto, il legame con le analoghe forme dell'Antico Testamento indica la giustizia di Dio in Rm 1,17 e 3,21ss, dev'essere considerata come l'attributo attivo con quale Dio salva, e non come la giustizia comunicata all'uomo con la remissione dei peccati.

Infine, in Rm 10,3, la dikaiosùne theoù sembra avere il senso di volontà salvifica: "Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, hanno rifiutato di sottomettersi alla giustizia di Dio" (cf Rm 9,31). In secondo luogo, può darsi che qui si tratti della personalizzazione della giustizia nel Cristo che ha annunciato la volontà salvifica del Padre e che è stato rifiutato dai Giudei.

Per Paolo, la dikaiosùne theoù non è un attributo statico come la virtù morale dei pagani, ma una forza attiva della misericordia di Dio che salva il mondo. L'Apostolo non ha questo concetto della giustizia divina; egli l'ha dedotto soprattutto dall'Antico Testamento. La nozione paolina di giustizia è dunque puramente biblica e non filosofico-giuridica, benché sia possibile comparare - seguendo san Tommaso - la giustizia salvifica divina alla giustizia distributiva di un re che conserva l'ordine politico del suo paese. In ogni caso, la giustizia salvifica è un attributo attivo di Dio o un'attività divina che opera il ritorna d'Israele verso Jahvé, che fa ritornare il figlio prodigo verso suo Padre, che strappa gli uomini al peccato e li rende a Dio. Infatti Dio è giusto "in quanto agisce conformemente all'impegno preso liberamente di accordare al suo popolo l'eredità di Abramo".

Concludendo, si deve dire che in Paolo la nozione di giustizia di Dio è molto complessa. Tuttavia, quando si tratta di contesti soteriologici, si può affermare che allora essa non è che la volontà salvifica realizzata da Dio avente per fondamento la misericordia, la bontà e l'amor di Dio. Dio infatti usa mostrare la sua giustizia nella misericordia. Per questo, l'opposto della giustizia non è affatto l'amore e la bontà di Dio, ma dev'essere cercato nella collera di Dio. Se in Paolo si ritrovano i testi che ci parlano della giustizia con la quale Dio punisce i peccatori - e non si può negare l'esistenza di tali testi - l'Apostolo pensa alla giustizia puramente vendicativa. "L'equivalenza tra 'giustizia' e 'collera', spiega il P. Lyonnet, è intera solo per la giustizia divina che si esercita nei riguardi dei dannati". Perché l'Apostolo evita di annettere alla collera le pene "medicinali" con le quali l'uomo, lungi dall'allontanarsi maggiormente da Dio per la moltiplicazione dei suoi peccati... o di fissarsi definitivamente in questo allontanamento (collera "escatologica"), al contrario si purifica del suo peccato e inaugura o completa il suo "ritorno a Dio". Insomma, seguendo l'Antico Testamento, san Paolo distingue da una parte la collera, in sé per nulla medicinale, e d'altra parte, una serie di attributi divini: bontà, misericordia, fedeltà, giustizia, che sono altrettante specie dell'amore efficace di Dio per gli uomini.

Si ritrova, senza termini caratteristici, l'idea della bontà salvifica dal Padre, in Gal 4,4-5: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli".

Il testo è molto simile alle descrizioni della misericordia di Dio in Rm 8,4-4. "Essere soggetti alla legge", come risulta tanto da questo testo come da tutta la lettera ai Galati (cf. Rm 7), designa lo stato di schiavitù e di miseria nel quale l'uomo si ritrova. Verso gli uomini Dio ha fatto due cose: ha inviato suo Figlio e, tramite suo, ha riscattato il mondo preparando per gli uomini la loro adozione a figli di Dio. Qui dunque vi è il richiamo di due misteri del Cristo: la sua incarnazione ("Dio inviò") e poi la sua morte salvifica ("per riscattare"). Per contrasto tra lo stato dell'uomo come si ritrova sotto la schiavitù della legge e la sua elevazione fino alla dignità di figlio di Dio, risalta maggiormente la grandezza della carità salvifica del Padre verso gli uomini.

Certo, negli sviluppi precedenti, è anche troppo evidente che non abbiamo fatto una descrizione esaustiva e completa degli attributi di Dio, nemmeno di quelli che abbiamo citati, ma la sua intenzione era semplicemente quella che ordinariamente si trascura, di sottolineare il loro posto nel proseguimento dell'opera salvifica e di mostrare poi come essi sono tutti contenuti in questo movimento fondamentale che è l'agàpe toù theoù. In seguito si vedrà meglio come tutti questi attributi divini abbiano uno stesso scopo, quello di salvare l'uomo e ciò senza alcun merito da parte sua. Per giungervi, si devono considerare ora i testi che parlano espressamente della carità salvifica del Padre.

C - La carità salvifica del Padre

Nelle sue lettere, Paolo affronta spesso il tema della carità divina, ma poiché si tratta della carità salvifica del Padre, si devono dunque più specialmente considerare i testi seguenti: Rm 5,8-11; 8,31-39; 2 Cor 5,21; Ef 1,4-5; 2,4. Questi testi, secondo certe idee comuni, si possono dividere in tre gruppi, di modo che si tratterà successivamente;

1. della carità divina all'inizio dell'economia della salvezza

    (Ef 1,4 ss);

2. dell'amore del Padre "mentre eravamo ancora peccatori"

    (Rm 5,8 ss; Ef 2,4);

3. del Padre che, amandoci, "non ha risparmiato suo Figlio

    (Rm 8,3-33; 2Cor 5,21).

 

1. La carità del Padre all'inizio dell'economia della salvezza (Ef 1,4-5)

 

Da quanto precede, sappiamo già che Ef 1,4-11 sviluppa delle idee che, pur essendo vicine alla nozione di carità, costituiscono nello stesso tempo la fonte e il motivo delle benedizioni ricevute da Dio. Il testo di Ef 1,4-5 che attualmente c'interessa e che contiene il sostantivo agàpe, descrive anzitutto la nostra elezioni in Cristo e successivamente la nostra predestinazione e la nostra filiazione adottiva. La predestinazione ad essere figli adottivi (v. 5) viene dalla carità; del resto ciò concorda con la benevolenza della volontà del padre e tende ad esaltare la grazia di Dio che ci è stata data nel Figlio e che per Paolo non è che l'opera della nostra redenzione come risulta dal v. 7. E' evidente che l'idea di carità si trova al centro del tema della filiazione adottiva. Prendere qualcuno per figlio, significa essere per lui un padre, ma la carità verso dei figli costituisce l'essenza stessa della paternità. Inoltre, la carità del Padre crea nei suoi figli la propria somiglianza e permette a delle creature di partecipare in un certo modo alla carità di Dio stesso.

Al versetto 5 la carità corrisponde all'amore divino per gli uomini che il Padre ha verso suo Figlio, e ciò conferma l'ipotesi secondo la quale en agàpei dev'essere unito a proorisas, se non si vuole trascurare questa unione dell'amore proveniente dal Padre e abbracciare in suo Figlio tutta l'umanità.

La predestinazione, come l'elezione, la prescienza e la vocazione divina, appartengono a quella che si può chiamare "la preistoria" della salvezza. E ora conviene notare come la carità di Dio sia già dominante in questa determinazione della nostra sorte assunta prima dei secoli. Giustamente dunque si può dire che la nostra elezione, la nostra vocazione e la nostra predestinazione non sono che un modo d'esprimere la carità di Dio.

Eudokia, è molto vicina all'idea di carità, quanto al contenuto. Così si possono rilevare tre aspetti della carità salvifica del Padre:

- nell'amore egli ci ha predestinati ad essere figli adottivi;

- secondo il beneplacito della sua volontà;

- ci ha gratificati nel Prediletto.

Concludendo, possiamo notare che Paolo descrive raramente in modo così preciso il ruolo soteriologico della carità. L'inno, preso nel suo insieme, enumera i diversi benefici di Dio: l'elezione, la predestinazione ad essere dei figli adottivi, l'opera storica della redenzione, l'esaltazione del Cristo, l'elezione d'Israele, la vocazione dei pagani. Questi tutti suppongono l'idea della carità del Padre e alcuni l'affermano esplicitamente.

2. "Mentre eravamo ancora peccatori" (Rm 5,8 ss; Ef 2,4)

Il testo di Rm 5, 1-11 costituisce una transizione alla parte della lettera che tratta della salvezza. L'ambiente e il linguaggio di questa sezione, per l'entusiasmo che in essa vibra, si differenziano un poco dalla prima parte della lettera. All'inizio del capitolo Paolo esorta i suoi lettori a sperare nella salvezza. La carità con la quale Dio ci ama costituisce il fondamento della salvezza pienamente compiuta. Ma è evidente che noi siamo amati ora da Dio perché "mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi". Con ciò la grandezza di questo amore esplode, dato che non si può trovare nessun motivo all'amore che Dio porta all'uomo. In tutto questo passaggio si sente lo sforzo fatto per trovare i termini appropriati, da cui lo stile molto complicato e difficile. L'uomo deluso è più degno di collera che d'amore. Tuttavia, è precisamente in questo contesto che viene espressa l'estrema carità del Padre.

Per parlare di esegesi, facciamo notare che nel nostro passaggio si tratta della manifestazione della carità salvifica di Dio; successivamente viene descritto il fatto di questa suprema carità e infine vengono considerate le conseguenze.

L'idea della manifestazione della carità del Padre è espressa dal verbo sunìstesin, che è già stato utilizzato per la descrizione della rivelazione della giustizia di Dio prodotta dalla nostra ingiustizia e che è uno dei verbi del Nuovo Testamento tra i più ricchi quanto ai significati possibili. Nel suo contesto si può tradurre, come fa la Volgata, con "commendat", ma poiché è soggiacente l'idea di manifestazione esteriore, sarebbe meglio tradurlo, con Cornely, con "demostrat".

Ciò che Dio vuole manifestare, è agàpe autoù. L'enfasi sul pronome autoù sottolinea l'iniziativa del Padre nell'opera della redenzione, spiegandoci la condotta così paradossale di Dio nei riguardi degli uomini.

La particella hòti introduce la spiegazione di questo amore, o meglio la descrizione della sua manifestazione esteriore. Poi viene l'espressione hamartolon Hònton la quale descrive non soltanto le circostanze di tempo, ma soprattutto il nostro stato d'ostilità nei riguardi di Dio (cf. vv. 6 e 7). Comunque l'aggettivo in-los rende meglio la moltitudine dei peccati. Si deve anche notare che nel linguaggio biblico gli empi ed i peccatori non sono semplicemente dei trasgressori o quelli che non si sottomettono ai precetti della Legge; si tratta piuttosto di creature che si ribellano attivamente contro il loto Dio e Benefattore. Se ve ne fosse bisogno, la particella hèti viene a rafforzare anche l'idea dello stato peccatore dell'uomo.

L'espressione Chritòs apèthanen dopo la menzione della carità del Padre mostra che l'amore del Padre e del Figlio - che sarà sviluppata più a lungo in seguito - è comune ad ambedue. Del resto, se l'amore di Cristo non fosse stato lo stesso di quello del Padre, tutta la trattazione di Paolo crollerebbe.

L'idea della morte di Cristo per dei peccatori e dei nemici, costituisce inoltre la base della morale cristiana quando vuole, generalmente nella carità, fondare anche la carità verso i nemici. Da questa teologia della carità Paolo trae delle conclusioni pratiche quando dice, in questa stessa lettera ai Romani: "Benedite coloro che vi perseguitano" (Rm 12,14).

I versetti 9-11, ripetendo lo stesso tema, sviluppano l'idea della certezza d'ottenere la salvezza finale. Perciò la formula polio màllon ritorna due volte (vv. 9.10) e anche lo stato della nostra indegnità, nonostante il quale Dio ci ama, è ripreso con altri termini.

Tuttavia, i vv. 9-11 descrivono soprattutto la grandezza della carità di Dio che giustifica. Perché se prima della morte di Cristo qualcuno poteva dubitare della realtà e della grandezza della carità di Dio verso gli uomini, dopo questa, non vi può essere dubbio né esitazione. Il primo peccato è stato un gran male, una vera inimicizia nei riguardi di Dio e tuttavia Dio ci ha perdonati. La speranza, anzi, la certezza, del possesso della vita eterna sono dunque una delle conseguenze della carità divina.

Concludendo, è permesso far notare che l'amore salvifico di Dio è presente in questo testo come così grande che non gli si trova nessuna spiegazione se ci si rivolge verso l'oggetto amato, e nessun esempio se si guarda agli esseri creati. Era dunque veramente importante per Paolo mostrare che noi abbiamo ricevuto la più grande carità in un tale stato, e al momento esatto in cui noi avremmo dovuto subire dei giusti castighi. Si capisce anche perché si possono trarre dal nostro testo molti elementi sulla nozione stesso di peccato. Infatti, queste due idee: "essere peccatori" da parte dell'uomo e "manifestare la sua carità", da parte di Dio, si oppongono l'una all'altra. Da questa opposizione risulta tutto il paradosso della morte di Cristo. Il peccato dell'uomo suppone dunque una completa mancanza nei riguardi di Dio. Non vi è quindi nulla di sorprendente che in un tale stato l'uomo non abbia potuto meritare una qualsiasi carità né che, umanamente parlando, abbia potuto aspettarsela. I versetti precedenti sviluppano questa idea con maggior precisione.

Ma d'altra parte l'uomo, a causa del peccato, sembra essere privato del potere di provare la carità. Così l'Apostolo utilizza spesso la parola asthenes (cf. v. 6) per designare i peccatori, e per una tale malattia il rimedio più efficace si trova nella carità divina. Questo testo ci mostra dunque la redenzione come l'unica opera della carità di Dio. Di conseguenza non vi è alcun rimedio da parte dell'uomo, alcuna giustizia da parte di Dio, se non questa giustizia attiva, giustamente, misericordiosa e amante, ma non puramente vendicativa. Nessuno "ha dato qualcosa a Dio per primo per essere contraccambiato" (Rm 11, 35). Dio ama senza ragione, o piuttosto ama perché egli è Amore. Da cui la nozione di riconciliazione salvifica che si incontra unicamente in un contesto di carità (Rm 5,10; 2 Cor 5,18 ss; Col 1,20); è un'opera anzitutto divina. Il cambiamento operato nella riconciliazione non si fa in Dio, ma è realizzato da Dio nell'uomo. La morte del Cristo in se stessa non avrebbe la forza di vivificare, ma la carità che si trova tanto nel Padre che nel Figlio, crea una nuova vita. Amare significa vivificare, specialmente quando Colui che ama è la Vita stessa.

Non è una parola unica, bensì un'accumulazione di termini che troviamo in Ef 2,4ss; per esprimere la carità salvifica dal Padre. Quasi tutti i sostantivi incontrati finora, come per esempio èleos, chàris, chrestòtes, doron, agàpe, sono giustapposti in questo breve passaggio e alcuni sono pure ripetuti, ciò che mostra bene l'intenzione di Paolo di descrivere la carità salvifica del Padre. L'Apostolo che si era mostrato prolisso per descrivere lo stato dell'uomo deluso (2, 1-3) lo diventa ancor più qui quando si tratta della "sovrabbondanza della grazia".

Nel nostro passaggio, l'Apostolo vuole soprattutto tre punti per quanto concerne la carità di Dio: 1) la sua grandezza; 2) la sua opera salvifica; 3) la sua assoluta gratuità.

La grandezza della carità di Dio è doppiamente affermata: espressamente con l'aggettivo polle e in seguito con la formula agàpen....egàpesen che rivela, forse, un certo colore semitico. D'altronde è il solo passaggio in cui Paolo utilizza la parola polle per determinare la carità; ciascuno dei significati di questo aggettivo può essergli qui applicato, poiché la carità di Dio è immensa, tanto che abbraccia tutto, oltre ad essere anche fonte e molto potente.

Il raddoppiamento del verbo con un sostantivo della stessa radice nell'espressione dià ten pollen agapen autoù hen egapesen hemàs quanto al significato è comparabile, come nota C. Spicq, al superlativo ebraico. Si tratta dunque di una carità inconsueta sotto tutti i suoi aspetti.

La sua potenza si può dedurre anche dalla formula kài hòntas hemàs nekroùs, nella quale la particella kài non svolge semplicemente il ruolo di copula, ma corrisponde al latino "quamvis", "etsi", e introduce la descrizione dello stato dell'uomo deluso. Così la versione più adeguata sembra essere la seguente: "e quantunque fossimo già morti".

Per ben comprendere la grandezza della carità, non è meno importante notare la relazione tra l'indegnità assoluta dell'uomo e l'effetto dell'opera di Cristo.

Mosso dalla sua carità e dalla sua misericordia, Dio Padre ha operato in noi in un triplice modo:

- mentre eravamo morti, ci ha fatti rivivere con il Cristo;

- ci ha risuscitati con lui;

- e fatto sedere nei cieli;

Il legame tra queste azioni e la carità, che è quasi una relazione di causa ad effetto, viene espresso con la particella dià la quale, quando si tratta di verbi che indicano un sentimento, significa spesso "ex". E' così che in Fil 1,15 ss per esempio si legge: "Alcuni, è vero predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. Questi lo fanno per amore". La carità che fa tante cose non è una propensione sentimentale, ma una forza di grande efficacia.

Benché il verbo sunezoopòiesen sempre evocare il battesimo, tuttavia in ultima analisi, si collega all'efficacia salvifica della morte di Cristo. L'aorista indica l'atto storico di questa vivificazione.

Far rivivere dai morti è anzitutto il proprio della potenza, ma anche della carità, specialmente quando non vi è alcuna necessità di far rivivere da parte di colui che lo fa. Una volta di più appare l'idea secondo la quale non è la morte di Cristo come tale che fa rivivere, ma la carità a causa della quale Cristo è morto.

Con il verbo sunegeiren vi è molto probabilmente un'allusione al ruolo salvifico della resurrezione di Cristo. Qui si tratta della nostra futura risurrezione in un certo senso già cominciata, ma nessuno mette in dubbio che il testo non sia in relazione con Rm 4,24 ss, dove si tratta di "colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione". Quanto al senso, sunegeiren non aggiunge gran cosa in generale al significato di sunezoopòisen; sunegeiren pone forse maggiormente in rilievo l'elemento negativo, ossia la liberazione dalla morte, mentre sunezoopòiesen fa piuttosto pensare a un influsso positivo di vita. Tuttavia nel nostro testo, a causa della molteplicità dei momenti nel tempo: morte di Cristo, battesimo degli uomini e loro salvezza escatologica, sunezoopòiesen, esprime piuttosto la funzione della risurrezione nel battesimo, mentre sunegeiren determina il suo ruolo escatologico.

Anche la seduta dell'uomo nei cieli manifesta un anticipo della nostra salvezza pienamente realizzata, ma a causa della formula en Christoi si è rinviati anche qui alla gioiosa saltazione del Cristo risorto. Infatti, come l'esaltazione del Cristo è stata il segno dell'amore del Padre, anche ora tutti gli uomini, se lo vogliono, partecipano a questo amore. Ciò che Cristo ha meritato con la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione, l'uomo può ora farlo suo.

La dimostrazione "della straordinaria ricchezza della sua grazia nei secoli futuri" esprime la durata dell'amore di Dio. Forse qui vi è anche un'allusione all'opera d'intercessione del Cristo per l'umanità presso il Padre; in proposito conviene notare l'espressione: "con la sua bontà per noi Cristo Gesù". Infatti, la relazione speciale del testo di Ef 2,5 s con 8,34 conferma questa supposizione.

Il confronto di questi testi mostra soprattutto che Paolo ha ripreso in Ef 2,4 ss il tema di Rm 8,34 e che ha considerato l'opera del Cristo su un altro piano, ossia che è compiuta dal Padre.

L'analisi di Ef 2,4 ss permette di concludere che si tratta di uno di quei testi che ci offrono il pensiero più completo della dottrina di Paolo sulla redenzione. Pertanto con una riflessione sempre più profonda fino alla causa primaria della nostra salvezza, egli scopre la carità di Dio come spiegazione del suo disegno e della sua attività salvifica. Tutti gli atti divini necessari al compimento della nostra salvezza, hanno il loro fondamento definitivo nella carità. Grandezza e onnipotenza costituiscono le note caratteristiche di questa carità. Il contrasto, sviluppato nel contesto susseguente, tra lo stato dell'uomo deluso e la sua elevazione finale al cielo, è segnata ogni volta dalla ripetizione di poté...nunì ed illustra bene questa inaudita grandezza della carità di Dio.

Paolo desidera che i lettori della sua lettera meditino profondamente la carità gratuita di Dio. Per questo ritorna con insistenza allo stesso tema.

3. "Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio" (Rm 8,31-33; 2Cor 5,21)

La fine del capitolo VIII della lettera ai Romani può essere chiamata "un inno alla carità di Dio verso gli uomini". Piena d'entusiasmo, composta quasi unicamente da piccole frasi interrogative, essa esalta la grandezza dell'amore di Dio, le cui opere sono il fondamento, per i cristiani, per ottenere la salvezza finale. Il tema del capitolo VIII, secondo un tipico procedimento della lettera ai Romani, era già stato annunciato in 5, 1-11.

Quanto al contesto, bisogna notare che il passaggio di Rm 8,31-33 si trova situato al centro di una lunga argomentazione di Paolo sulla salvezza operata dalla fede (1,16-11,36). I versetti che precedono immediatamente (8-30) contengono una descrizione della vita secondo lo spirito per coloro che sono "figli adottivi" e che hanno la piena speranza d'ottenere la salvezza finale. Questa salvezza d'altra parte è confermata da tre testimonianze: la testimonianza della creazione materiale (8,18-22), la testimonianza dell'attesa universale dei cristiani (8,23-25) e la testimonianza dello Spirito Santo (8,26-27). Poi sono riprese le differenti tappe del disegno salvifico e l'insieme si conclude con un inno che esalta la carità di Dio manifestata nel Cristo (8,31-39). I capitoli che seguono (9-11) sono l'illustrazione scritturale della tesi già esposta sulla salvezza ottenuta dalla fede. A partire da esempi tratti dalla storia d'Israele, l'Apostolo mostra che la nuova economia della salvezza non è contraria alle promesse fatte al popolo eletto. Israele è stato infedele verso Dio (cap. 9) e anche infedele in modo colpevole (cap. 10), ma questa infedeltà sarà seguita da una totale conversione del popolo (cap 11). Poi, tutta la sezione termina con un inno alla misericordia di Dia piena di sapienza (11, 33-36)

Per tornare al nostro passaggio, situato ora nel suo contesto, si deve anzitutto rilevare che l'idea della carità salvifica, tema di questa sezione, possiede un carattere concreto e storico a seguito di alcune ripetute allusioni alla morte di Cristo. In questo brano si possono distinguere tra parti:

I - vv. 31-33; la carità di Dio Padre verso gli uomini;

II - vv. 34-37; la carità salvifica di Cristo;

III - vv. 38-39; si ritorna alla carità del Padre, di cui si parla ora, con riferimento alla carità di Cristo.

Per il momento ci occuperemo solo dei versetti 31-33. Questa sezione (vv. 31-33) è basata su un duplice ritorno all'idea della carità di Dio:

1. "Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?"...ecc.

2. "Chi accuserà gli eletti di Dio?"....ecc.

Attualmente conviene esaminare brevemente ciascuna di queste parti.

L'Apostolo comincia con la formula: ti oùn eroùmen che utilizza solo nella lettera ai Romani in particolare, quando vuol fare un'obiezione esattamente contraria. Nel nostro caso questa conclusione si trova già nella domanda tis kath' hemon che conduce ad una risposta negativa: ouden kath hemon perché Dio infatti è per noi.

La formula hupèr hemon è ricca di senso. Generalmente l'espressione éinai hupér timos significa "essere per qualcuno", "essere in suo favore", "essere dalla sua parte", sentire e volere nello stesso modo; in breve "prendere la difesa di qualcuno". Nel nostro testo sempre che si faccia ai vv. 28-30 dove i benefici divino sono enumerati nel disegno salvifico; con ciò, anche la bontà di Dio nei nostri riguardi si ritrova confermata.

Il versetto 32 spiega con maggiore precisione il senso di questo ha theòs hemou: "Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi". Tutta la frase si presenta come una quasi definizione di Dio, introdotta dalla formula hòs ge; del resto, è il solo caso nel Nuovo Testamento in cui la particella ge sia unita a un pronome relativo. Alcuni traducono "è Dio stesso che..", ma il senso puramente causativo si accorda maggiormente con il contesto e, grammaticalmente, è altrettanto ben fondato.

D'altra parte, il versetto 32 rivela quanto la bontà di Dio sia concreta e quanto sia veramente attiva.

La stessa enfasi, che già rivelava la formula hòs ge, si ritrova nelle espressioni toù idioù huiou e ouk ephéisato. Il verbo phéidomai è molto spesso utilizzato con una negazione ed esprime l'idea sia di un'azione perniciosa nei riguardi di qualcuno, sia di una negligenza nel salvare qualcuno. Nel nostro testo il verbo esprime l'idea che il Padre, a causa del sua grande amore per noi, non si è preoccupato del prezzo elevato quando si è trattato della redenzione degli uomini, e così ha permesso che suo Figlio soffrisse.

Il pronome idìon è forse messo qui per indicare la differenza esistente tra il proprio Figlio ed i figli adottivi di Dio, di cui appunto si tratta. Il suo senso sembra essere lo stesso di quello di agapemenos egapeménos in Ef 1,6, o quello di hinòs tes agàpes autou di Co 1,13.

L'antitesi tra hòs ge toù huioù e ouk ephéisato è ancora accresciuta dal verbo parédoken. Questo è prima di tutto utilizzato nelle sentenze giudiziarie, particolarmente quando si tratta della pena di morte, ed i Sinottici l'impiegano sempre quando dicono che Giuda ha consegnato il Cristo; d'altronde Giuda stesso è chiamato paradidoùs. Nella seconda parte di questo lavoro si tratterà dell'uso della formula paradidònai heautòu nei testi che descrivono la morte di Cristo.

Tutta l'espressione "Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma l'ha dato per noi tutti", rende bene, soprattutto a causa del contesto (vv. 35 e 39), la grandezza della carità di Dio e rivela la fonte e il motivo dell'opera redentrice, ossia della carità. Per questo, l'opinione secondo cui le parole "Dio non ha risparmiato il proprio Figlio", sarebbero semplicemente la testimonianza della severità di Dio verso i peccatori, non potrebbe essere ammessa se non si separassero totalmente le parole di Paolo. Bisogna riconoscere tuttavia che san Tommaso, per esempio, parla più di una volta della "severità di Dio". Ma non dice però che il Cristo sia stato oggetto di un pena strettamente definita. Infatti "de ratione poenae est quod sit contraria voluntati", e Cristo si è dato lui stesso alla morte.

Non sapremmo riassumere meglio il pensiero di san Tommaso che citando il seguente passaggio: "...Deus Pater Christum non tradidit, sed inspirando ei voluntatem patiendi pro nobis. In quo ostenditur ed Dei severitas, qui peccatum sine poena dimittere noluit, quod significat Apostolus dicens: Proprio filio suo non percepit: et bonitas ejus, in eo quod, cum homo sufficienter satisfacere non posset per aliquam poenam quam pateretur, ei satisfactorem debit quod significavit Apostolus dicens: Pro nobis omnibus tradidit illum".

Dall'oblazione del Figlio da parte del Padre scaturisce la conclusione che Paolo esprime in questi termini: pos ouchì kài sun autoi tà pànta hemun charìsetai.

Due punti esigono qui alcune spiegazioni: il verbo charìsetai e la formula sùn autoi.

Seguito dal dativo, il verbo charìzomai, quando si tratta di Dio, significa già nel greco classico: "dare qualche cosa per bontà", "accordarla con carità misericordiosa". Questo uso è assai frequente anche in Paolo e i beni accordati da Dio sono semplicemente chiamati tà hupò toù theoù charistenta. Anche il verbo charìzonai viene utilizzato tanto dagli autori antichi che da Paolo per descrivere il pagamento di un debito, in particolare morale, com'è il caso negli scritti paolini. E' evidente che in questa accezione del verbo charìzomai si possono includere anche la bontà e la misericordia di Dio che accorda i suoi benefici agli uomini. Ma per determinare con esattezza il senso di charìsetai nel nostro testo, bisogna studiare prima la formula sùn autoi.

L'espressione sùn Christoi - è chiaro che nel nostro testo autoi si riferisce a Cristo - non è così frequente come la formula vicina ed Christoi; essa appartiene molto spesso alla sfera della mistica paolina di Cristo. La discussione tra esegeti si concentra soprattutto su dei testi in cui la formula sùn Christoi esprime la nostra vita, la nostra morte e la nostra risurrezione con il Cristo. Il testo di Rm 8,32, perché non tratta di questo, è messo puramente e semplicemente da parte dagli autori, oppure munito di una nota indicante che si tratta di un uso speciale della formula Sùn Christoi.

Cercando di spiegare questo testo, si deve anzitutto far notare che in Rm 8,32, come in altri casi, la formula sùn Christoi si trova in un contesto che descrive l'attività salvifica di Dio. A prima vista la preposizione sùn sembra avere un significato del tutto normale: con il Cristo tutto si è donato ma sembra che vi sia qualche cosa di più vasto in questo versetto a causa dell'uso di questa formula e nella formula stessa. Infatti, il parallelismo antitetico tra parédoken-charìsetai e ' molta significativo. I due verbi hanno in comune l'idea di dare; ma quale differenza: da una parte dare alla morte il proprio Figlio, dall'altra, darci tutto. E ora, alla luce della formula sùn Christoi charìsetai, il verbo paradìdomi riceve un nuovo significato. La paràdosis di Cristo significa prima di tutto che si e ' abbandonato alla morte, ma anche che egli fa, in un certo modo, il dono totale della sua persona per la redenzione dell'umanità. Infatti il Cristo si è incarnato al fine di morire per gli uomini; in altri termini, il dono del Cristo è stato consumato sulla croce.

Ora possiamo tornare al verbo charìzomai per determinare con più precisione il significato. Questo verbo - come abbiamo già fatto notare in quanto precede - può avere il senso sia di dare qualche cosa per bontà, misericordia e carità, sia di rimettere dei debiti, specialmente morali. E' evidente che in Rm 8,32 charìzomai con il sùn Christoi possiede l'uno e l'altro significato: Cristo, bene supremo, è dato, ciò che suppone anche il verbo "consegnare", ma con lui è fatta donazione e rimessa di questo debito principale che è il nostro peccato. Non si può negare che sùn ha qui il senso di ed e, in una tale interpretazione, Cristo è sinonimo di tutti i beni che potranno essere accordati agli uomini da Dio in qualsiasi momento.

L'idea della carità salvifica del Padre nella seconda parte del nostro testo (v. 33), è sottintesa nelle espressioni: eklekton theoù - hothèos ho dikaion.

L'eklektòs come il kletòs non hanno alcun diritto ad essere sia eletti, sia chiamato. Così l'una e l'altra nozione suppongono la carità come motivo dell'azione da parte di colui che elegge e che chiama. Ciò appare molto bene da un testo come Col. 3,12: "Rivestitevi dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia". Del resto si ritrova altrove in parallelismo formale agapetoi e kletoì oppure eklektoì e agapeménoi.

Il testo aggiunge poi che i eklektoi sono giustificati da Dio. Per quanto concerne il senso, Paolo forse ha voluto che egkalései fosse in qualche modo opposto a ho dikaion. Ma dato che egkaléo è un hapaxlegomen nelle lettere di Paolo e che s'incontra solo sei volte nel resto del Nuovo Testamento, e sempre negli Atti, non si può trarre nulla dall'uso di questa parola per chiarire il significato di ho dikaion; al contrario, a partire dall'uso più frequente del verbo dikaiòn, il significato del suo opposto si può trarre dal nostro testo. Ma poiché si tratta di dikainon, si deve anzitutto rettificare l'opinione di G. Schrenk e di un gran numero di protestanti i quali affermano "che in Paolo il significato forense di questo verbo è evidente e indubbio"; in seguito essi citano, oltre a Rm 4,5 anche Rm 8,34 come testo classico nel quale dikaion non è che l'opposto di katakrinon.

Non abbiamo l'intenzione di esaminare, qui, tutti i testi paolini relativi a questo argomento; osserviamo che in Rm 8,33 ha dikaion non si oppone necessariamente a katakrinon, ma piuttosto a egkalései; con la nostra punteggiatura, pure possibile, ciò che è opposto a katakrinon è Christòs lesoùs ho apothanon...egertheìs....entughànei hupèr hemon.

Quantunque dikaion possa significare una dichiarazione solenne durante il giudizio finale, tuttavia il contesto consiglia maggiormente il senso della giustificazione, e questo suggerisce poi l'idea del multiforme intervento della bontà divina. Così possiamo concludere con le parole del P. Lyonnet: "...cum hanc phrasim valde typicam (scl. Rm 4,5) Paulus adhibuerit, clare intendit significare Deum in justificatione munere iudicii non fungi, sed munere prorsus diverso, quod potius ad monus Creatoris vel Patris accedit, ut elucet sive ex novae creaturae" (v.g. 2 Cor 4,6; 5,17) vel "regenerationis" (Tt 3,5; cf. Gv 3,3) vel "filiationis" (Gal 3,26.4.5; Ef 1,5) vel etiam ex parabola filii prodigii (Lc 15,11 ss)."

Quanto al senso del verbo egkalései si può dunque affermare che si tratta di un'azione contraria alla manifestazione della bontà divina, di un'azione che tende a rendere l'uomo indegno della grazia e dell'amore. Si costituisce così una duplice antitesi tra il passato e il futuro: Paolo dichiara che il Dio che giustifica dikaion, al presente che esprime anche il passato, segnato già dall'aggettivo verbale eklekton, il quale ha pure il senso d'un participio passato), non può essere l'accusatore, ossia colui che sarebbe contro gli eletti al giudizio finale (agkalései al futuro); come il Cristo che è morto e risorto (apothanon...egertheìs al passato) e che intercede per noi (entuchànei, al presente), non sarà certamente colui che condannerà (katakrinon, al futuro). Sembra che con questo verbo Paolo abbia voluto alludere al giudizio finale.

Riunendo ora tutto quello che si dice della carità salvifica del Padre in Rm 8,31-33,, si deve riconoscere che la sua nota principale è la sua tendenza a realizzare il bene dell'uomo. Inoltre, si ha il diritto di affermare che non si può trovare, nemmeno da parte di Dio, una più grande carità di quella manifestazione nella morte del Cristo. Da cui la certezza, che è quella di Paolo, che non esiste nulla che possa superare la carità di Dio verso gli uomini. Infine, il fatto che Dio non abbia risparmiato il proprio Figlio, e ciò non era richiesto dalla giustizia di Dio, e non fu nemmeno un segno della severità di Dio verso l'umanità rappresentata da Cristo; ma, al contrario, l'argomentazione di Paolo trova il suo senso nel fatto che il Padre ama il Figlio e, in lui, tutti gli uomini.

La carità salvifica del Padre non è trattata direttamente, ma la si può dedurre in una certa maniera da 2 Cor 5,21. L'atmosfera di carità è già creata dal contesto precedente in cui Paolo, a proposito del suo apostolato parla d'agàpe del Cristo, o piuttosto della sua onnipotenza (vv. 14-16). La gratitudine verso la sua onnipotenza (vv. 14-16). La gratitudine verso Dio appare poi nell'affermazione: "Tutto viene da Dio, che ci ha riconciliati con lui" (v. 18), e tutta la sezione termina infine col nostro versetto: "colui che non aveva conosciuto il peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio".

Per meglio comprendere il paradosso incluso nel modo d'agire dal Padre nei riguardi di suo Figlio, vi sono due cose da esaminare: 1) che cosa significa l'espressione hamartìa hupér hemon; 2) che cosa rappresenta il heméis...dikaiosùne theoù.

Contro coloro che ritengono - ma sono poco numerosi - che il hamartìa hupèr hemon è un'allusione alla morte del Cristo come sacrificio per i peccati, sembra molto più probabile che si tratti di tutte quelle condizioni nelle quali Cristo, assumendo una carne simile alla carne peccatrice, "nel senso che è capace di soffrire", ha subìto la morte ignominiosa sulla croce. L'uso dell'astratto hamartìa, a proposito della persona di Cristo, giustifica questa interpretazione. Di conseguenza, nel nostro testo si tratta del mistero dell'incarnazione considerata sotto l'aspetto della morte futura, di questa incarnazione che è la discesa del cristo secondo la volontà del Padre, nella sfera dell'umanità peccatrice, per sperimentare gli stati peggiori, per essere flagellato, deriso e abbandonato da tutti. Tuttavia, questa idea non dev'essere interpretata nel senso di una semplice sostituzione, perché i peccati degli uomini non sono trasmessi alla persona del Cristo. Così il hupèr hemon non significa "al nostro posto", ma "in nostro favore" o, meno esattamente, "per causa nostra". Per questo è evidente che l'idea di una solidarietà del Cristo con il genere umano è soggiacente al nostro testo.

La scopo di questa discesa del Cristo è indicata da una finale in hìna assai frequente in Paolo: "affinché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio". Secondo il parallelismo tra hamartìa e dikaiosùne si deve ora aggiungere che la nozione di giustizia designa una nozione opposta a quella di peccato. Come il Cristo "si è fatto peccato" discendendo nella sfera dell'umanità peccatrice, così gli uomini, a seguito della loro solidarietà col Cristo incarnato, morto e risuscitato, sono presi nella sfera della giustizia di Dio che è in Cristo Gesù. Mentre il Cristo, pur trovandosi con dei peccatori, rimane innocente, tuttavia gli uomini, per gli atti del Cristo incarnato, sono veramente e realmente liberati dai loro peccati. Con ciò si coglie chiaramente la grandezza della bontà di Dio che ci ha procurato tanto bene da parte di Cristo. Questo appare maggiormente quando è presente al nostro spirito l'espressione nie gnònta hamartìan. La probabile allusione al senso dell'ebraico iadah esclude una qualsiasi esperienza di peccato di colui che si è degnato di rappresentare l'umanità, questo "sinonimo" di peccato. Così, concludendo, si può affermare che la carità salvifica del Padre rivela in questo testo, in modo speciale, il suo carattere di eroismo sovrumano.

Ecco dunque quello che Paolo ha detto della carità del Padre come motivo della redenzione. In due lettere, quella ai Romani e quella agli Efesini, l'idea dell'amore salvifico del Padre è posta in rilievo più che in ogni altra; in particolare, la soteriologia della lettera agli Efesini è basata sulle idee di misericordia, di bontà e d'amore del Padre. Paolo si compiace a sviluppare questo aspetto dell'opera salvifica, ma soprattutto nei passaggi parenetici delle sue lettere, perché egli crede che niente obblighi tanto ad emendarsi quanto il ricordo dell'immensità dell'amore di Dio che salva i peccatori.

Al termine di questa parte possiamo aggiungere che i tratti della carità salvifica del Padre appaiono ancor più chiaramente in Giovanni. Infatti, tutta la sua teologia della carità si riassume con queste parole: "Si, Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia, la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui" (3,16-17), La natura della carità è dunque espressa in primo luogo dal verbo didomi, ma lo è soprattutto quando questo verbo ha per oggetto lo stesso Figlio di Dio. La carità del Padre consiste non soltanto in quanto il Figlio ci aiuta, ma per il fatto che ci salva. Noi ritroviamo quasi la stessa cosa in 1 Gv 4,9, ma l'accento è posto sull'assoluta priorità dell'amore di Dio per noi: "In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha inviato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio". E non dimentichiamo che è a Giovanni che dobbiamo questa definizione di Dio da cui risulta che l'amore appartiene alla natura stessa di Dio: "Dio è Amore" (1 Gv 4,8).

Più spesso dei Sinottici, Giovanni parla della carità del Figlio. Bisogna osservare anche che il Figlio è descritto da Giovanni come "òrganon" della carità del Padre.

Termino. Succede tante volte, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, che le comunità religiose si sforzano di trovare le radici della loro Spiritualità per determinare la spiritualità stessa. Ora siete beati, voi, Figli ed Ancelle dell'Amore Misericordioso! La vostra spiritualità è puramente biblica, paolina, suteriologica e quello che fate voi può essere caratterizzato con le parole di S. Paolo: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa" (Colossesi 1,24).

Concludiamo dunque come abbiamo cominciato "Per il Suo amore misericordioso salvifico ed infinito sia lodato Gesù Cristo".

Grazie!