M. Gertrud Stickler

LONTANO DAL PADRE

Implicanze psicologiche della conversione e della misericordia

 

Per evidenziare la problematica che sottostà alla conversione e quindi alla capacità di percepire e di accogliere Dio come Padre misericordioso mi sembra utile rileggere la "parabola del figliol prodigo" dal punto di vista della psicologia religiosa. L'attenzione si focalizza pertanto sugli atteggiamenti dei personaggi che la parabola presenta.

L'analisi di essi e della dinamica dei loro rapporti reciproci potrà gettare luce sui presupposti psicologici del rapporto religioso in genere e sulle condizioni psicologiche che lo possono ostacolare. E' compito infatti della psicologia obiettivare e descrivere il "modo d'essere" della persona in una determinata situazione, evidenziare cioè le disposizioni e le motivazioni psicologiche che sottostanno a un determinato comportamento. Se il rapporto religioso è dipendente dalla complessa dinamica psicologica di ogni relazione interpersonale, tanto più lo è il rapporto con Dio visto sotto il profilo di Padre che ha spesso delle implicanze particolari a livello psicologico connesse con le vicissitudini della storia personale dell'uomo religioso. Come rapporto di persona a persona, quello religioso è un rapporto di amore che svela, spesso all'insaputa del soggetto, al di là della "ragione" della "volontà" e delle azioni concrete, le disposizioni profonde, spesso inconscie, dell'uomo verso l'Altro e insieme le sensibilità, i timori, i desideri e le difese di cui è segnata la sua personalità.

L'analisi degli atteggiamenti dei personaggi della parabola in questione, soprattutto nei loro rapporti reciproci, ci darà molti elementi per cogliere le problematiche diverse della dinamica psicologica che sta alla base delle relazioni dell'uomo con un altro (o Altro), della sua capacità (o incapacità) di aprirsi, di amare e di lasciarsi amare, di accogliere e accettare la sua alterità, di lasciarsi arricchire e trasformare da lui o di essere per l'altro uno stimolo positivo ed efficace per la edificazione della sua umanità.

Si potrà così penetrare meglio l'atteggiamento religioso come tale. L'atteggiamento di colui che realizza la conversione (l'uomo religioso) e di colui che è "misericordia" (Dio-Padre) o di colui che, prendendo Dio Padre come modello del suo progetto religioso, vuole realizzare "opera di misericordia" verso il proprio simile.

Si tratta quindi dell'analisi di due culmini dell'atteggiamento religioso che indicano i due poli del rapporto: l'uomo convertito - Dio misericordia. Vi si potrebbe tuttavia anche vedere il punto di partenza e il punto di arrivo della progressiva elaborazione della personalità religiosa che va dall'orientamento stabile dell'essere verso Dio alla realizzazione dell'essere fecondi in Dio. Tutta la predicazione evangelica illustra l'atteggiamento religioso e mostra come esso si elabori; in particolare, con l'eloquente linguaggio simbolico delle parabole ne evidenzia, in tutte le sfumature, luci e ombre; anzi, è spesso attraverso le ombre, ossia gli atteggiamenti psicologici e spirituali che contrastano o ostacolano nell'uomo l'essere e il divenire religioso che questo si illumina di una luce più viva.

I nostri riferimenti andranno quindi oltre la parabola del figlio prodigo ad altri testi evangelici, significativi per il nostro argomento.

Iniziamo con l'analisi dell'atteggiamento del Padre nella parabola come di colui verso il quale ambedue i figli convergono e che rappresenta il secondo polo religioso. Egli è altresì il modello religioso per eccellenza.

Considerando il suo atteggiamento in se stesso e verso i due figli, tanto differenti nel loro comportamento verso di lui, lo si coglie come un essere di una apertura totale e stabile nell'amore e nel dono all'altro. Egli personifica la benevolenza, la bontà della parola e del tratto verso gli altri. Egli rispetta tuttavia l'autonomia e la volontà dei figli, egli non capta né soffoca: sa anche accettare il limite, la negatività e persino il rifiuto e l'aggressività dell'altro, senza per questo ritirare la propria fiducia e benevolenza, sa attendere lo sviluppo e l'emergere della personalità positiva dell'altro. Non è determinato quindi nel suo modo d'essere e di agire dalla reazione dall'atteggiamento positivo o negativo dell'altro.

Nella nostra parabola (1) questa superiorità totale del Padre si rivela nella bontà del suo atteggiamento verso ambedue i figli. Egli accetta l'insubordinazione e la rivolta del figliol prodigo e l'opposizione e le rivendicazioni ingiuste del figlio maggiore.

Dimostra la sua bontà preveniente ed accogliente verso il figlio più giovane mantenendo la sua fiducia in lui anche quando questi si svincola da lui ed è lontano. L'espressione "lo vide il Padre mentre era ancora lontano" (2) si può infatti interpretare dal punto di vista psicologico come la certezza anticipativa del Padre su ciò che il figlio attualmente non è ancora ma che può diventare, certezza che è tanto importante per la creazione della fiducia in sé di una personalità in elaborazione o in ricostruzione. "Correndogli incontro" offre il suo pieno appoggio ai desideri positivi del figlio per allearsi con essi. Lo prende sul serio rivalutandolo e confermandolo così nella sua personalità.

"Gli si gettò al collo e lo baciò" dice la pienezza dell'accoglienza (abbraccio) e del desiderio della comunicazione più profonda del proprio essere e del proprio spirito all'altro (bacio). I gesti che seguono sono tutti finalizzati all'espressione della stima, dell'amicizia, dell'amore valorizzanti. Il "vestito più bello" e l'"anello" (3) sono infatti simbolo del massimo valore che si attribuisce a una persona per cui si ricorre al dono delle cose più preziose. Capovolgere le occupazioni ordinarie (redditizie) per "far festa" con "musica e canti", l'indire un "banchetto", ammazzando il "vitello grasso" (bestiame più pregiato) (4) indica il massimo dell'onore prestato ad una persona amata della cui presenza si gode.

E' l'esplosione genuina dell'intima gioia per "il figlio che era morto ed è ritornato in vita, era perduto e si è ritrovato", (5) si era distaccato dal padre e si è riconciliato con lui. (6) E' dalla gioia del rapporto di amore ricostruito ad un livello diverso che scaturisce spontanea l'aria di festa in cui il sacrificio (che è appunto "offerta gratuita") del tempo e della sovrabbondanza dei beni crea gli spazi e le condizioni per l'espressione e l'incontro religioso. In questo senso il vero culto e il clima di festa si richiamano necessariamente, in questo senso festa e culto sono espressioni della pienezza dell'umano e lo sviluppo. (7)

In banchetto poi è l'espressione simbolica per eccellenza del desiderio di amicizia, della comunione con l'altro, del dono reciproco e del rapporto profondo. Le scoperte della psicologia moderna sul collegamento delle difficoltà e patologie alimentari con i disturbi della sfera relazionale non fanno che precisare una conoscenza antica quanto l'umanità. Quando Gesù dice alla Samaritana: "dammi da bere" (8) essa esprime la propria sorpresa perché sa che il dare e l'accettare da bere e da mangiare sono intimamente connessi con i rapporti di amicizia già stabiliti o offerti ed essa sa che "i Giudei non vanno d'accordo con i Samaritani". (9)

Anche nei riguardi del figlio maggiore il Padre dimostra benevolenza accoglienza e valorizzazione. Saputo del suo rifiuto di entrare in casa gli va incontro per "pregarlo di entrare", ascolta la sua lamentela e le accuse ingiuste e cerca di farlo ragionare, evidenziando la superiorità della sua posizione rispetto a quella del fratello minore data dalla fruizione mai interrotta della presenza del Padre ("tu sei sempre con me") e dalla condivisione e comunione di tutti i beni con lui ("tutto ciò che è mio è tuo").

Forse non a caso Luca fa seguire alla parabola del "figliol prodigo" quella del "fattore infedele" a cui il padrone "perdona" la frode per indicare che Dio è un padre il quale gode della realizzazione personale delle sue creature più che dei conti scrupolosamente esatti. La formazione di un atteggiamento di apertura di fondo che permette l'esercizio dell'iniziativa attraverso il senso della propria "efficienza" e "competenza" e lo sviluppo delle capacità di rapporto interpersonale e perciò di fedeltà e di solidarietà, è infatti una condizione indispensabile e preliminare all'atteggiamento di giustizia secondo Dio. Gli atti concreti "piccoli" e "grandi" non sono altro che l'espressione di questo "modo d'essere giusto" della persona che è in possesso di sé e perciò capace di un'autentica apertura nel rispetto della gerarchia dei valori e dei diritti di Dio e del prossimo. (10)

Proseguiamo la nostra analisi (11) con l'esame dell'atteggiamento del figlio maggiore che, a prima vista, non sembra aver bisogno di conversione e quindi della misericordia del Padre. Egli è infatti colui che osserva perfettamente la legge, spende la sua vita e le sue energie al sevizio del padre senza mai concedersi né gioie né svaghi. Un conflitto fra bisogno di autonomia e di libertà e la sottomissione alla volontà del Padre, tra l'espressione di sé nel godimento e l'osservanza della legge, sembra in lui inesistente, o almeno sembra risolto in senso positivo. Egli dice infatti in tutta verità: "Sono tanti anni che ti servo senza aver mai trasgredito uno dei tuoi ordini". (12) Il tono dell'asserzione, però, che si deduce dall'aggiunta: "e tu non mi hai dato nemmeno un capretto per far festa con i miei amici", (13) fa pesare che non si tratti di una contestazione serena della realtà. Essa sa invece di accusa e pertanto tradisce un profondo risentimento verso il Padre e, insieme al suo atteggiamento verso il fratello minore, rivela il conflitto sottostante a una vita in apparenza adattata.

Colpisce il fatto che il giovane non usa né la parola "padre" né "fratello" e si dice "servo". Egli ha "amici" ma confessa che non ha mai goduto con loro un clima di "festa". E' perciò evidente che la sua vita manca delle due dimensioni fondamentali: quella dell'apertura filiale e fraterna e quella della gratuità; ed è questa carenza che inficia in radice la stessa realtà di perfezione e di religione.

Nella religione, infatti, il rapporto con Dio decentra il soggetto da se stesso e lo fa più aperto; e la perfezione progressiva lo assimila sempre più al modello divino creando quella capacità di dono e perdono benevoli, di generosità senza condizioni preliminari che supera la reciprocità dei doni cambiati. Dio infatti, buono in se stesso, è buono anche con "gli ingrati e con i cattivi" (14) e generoso anche con coloro che lo odiano: "fate del bene, date in prestito senza sperare niente", (15) "egli fa sorgere il suo sole sopra i cattivi e sopra i buoni e fa piovere sui giusti e gli ingiusti". (16)

Il tipo di perfezione che il figlio maggiore realizza sembra invece un ideale il quale più che liberarlo e aprirlo lo rende prigioniero. L'ideale che lo assilla, come un'idea ossessiva che non gli lascia tregua, si erge con una statua smagliante di una impeccabilità assoluta con la quale vorrebbe coincidere. Egli sacrifica ad essa ogni desiderio e ogni gioia umana, sostenendo una lotta spietata contro se stesso e contro le proprie impurità. i grandi maestri di spirito hanno sempre denunciato l'insidia del perfezionismo a cui vanno soggetti gli uomini spirituali. La psicologia clinica, dal canto suo, dimostra come il ripiegamento narcisistico, con cui l'uomo osserva se stesso per forgiare in sé identità gratuita ai propri occhi e agli occhi di Dio, andando fin in fondo alle proprie possibilità, è praticamente una sorta di presunzione religiosa. Essa è anti-religiosa perché svisa la stessa intenzione di Dio strumentalizzandolo al proprio assurdo. Per un sottile gioco della sua psicologia il perfezionista, infatti, nel suo desiderio di sopprimere in sé ogni falla, si immagina che l'altro lo desideri senza difetto e, volendosi riconoscere così, attribuisce questo desiderio all'altro. Proseguendo il suo ideale il perfezionista vorrebbe essere interamente quello che immagina che deve divenire: colui che può raggiungere in sé il dominio assoluto, la vittoria sulle passioni, suoi movimenti della natura, in una abnegazione senza debolezze e in una completa dedizione al dovere. E' in fondo il desiderio di una pienezza dove sia abolita ogni divisione e ogni falla, dove si sarebbe interamente d'accordo con se stessi, soddisfatti della propria identità. Questo tipo di autosufficienza è però quanto mai fragile. E' proprio nella tensione ossessiva alla perfezione che appare il senso di angoscia e di colpa prodotto dalla preoccupazione costante di perdere la stima e l'amore dell'altro parallelamente alla sofferenza narcisistica di perdere l'amore e la stima che si porta a se stessi. La preoccupazione di dispiacere all'altro e l'ansia di essere riconosciuti nella propria perfezione distruggono l'amore e generano la diffidenza mai pacificata che facilmente si converte in rivendicazione: "tanti anni ti ho servito fedelmente, senza concedermi nulla e tu...?".

Lo spirito antireligioso del legalismo opera una inversione paradossale: l'accento è messo sulla attenzione a sé e al proprio operare per essere approvati da Dio. La paura del giudizio negativo di Dio deriva ancora dal desiderio di essere a lui accetti, da lui amati. Per questo si cerca di apportare il più possibile correttivi alle imperfezioni, si moltiplicano le prescrizioni, si rimandano le gioie e tutto ciò che è permesso viene ancora trasformato in dovere. Si cede, insomma, sui propri desideri per essere oggetto pura della benevolenza di Dio, ma facendo questo si cerca di assicurarsela, di comperarla mediante i propri meriti. Ci si comporta, in fin dei conti, come se, mediante le proprie azioni si producesse da se stesso il dono dell'altro. In fondo non si crede in lui, non gli si dona fiducia. La fede si altera nella ricerca della garanzia della benevolenza. Il legalismo nasconde l'incredulità e per questo è "la perversione più insidiosa della religione... Volendo prevenire la colpa, cercando di essere intatto, il legalista si istalla in una ricchezza religiosa, in quella rocca che non ha più limite né apertura per il desiderio". (17) Il movimento specificamente religioso: scoprire la presenza beatificante dell'Altro e aprirsi riconoscenti al suo dono rimane così soffocato in radice. Per questo il figlio maggiore della nostra parabola non riesce a comprendere né a gustare il "tu sei sempre con me ed ogni cosa mia è tua" (18) come, del resto, gli operai della prima ora nella parabola della vigna, reclamando una distinzione rispetto agli ultimi, rivelando di non riconoscere il dono molto più grande concesso a loro di avere potuto vivere e operare alla presenza di Dio fin dal principio. (19)

Il messaggio di Cristo, trasmesso attraverso le parabole, mentre denuncia l'antireligiosità del perfezionismo legalista evidenzia che l'essenza del regno di Dio consiste nella scoperta e nella accoglienza della presenza dell'Altro che è Padre benevolo.

La fede nella paternità divina libera dall'angoscia perché il credente sa che la benevolenza di Dio è più forte delle debolezze e imperfezioni umane, come del resto i genitori, normalmente superiori ai capricci e alle aggressività dei bambini, non vi rispondono con rappresaglie. La fede, spostando l'attenzione del credente da se stesso a Dio in una apertura di fiducia e ammirazione, porta alla accettazione di sé e dei propri limiti e rende quindi possibile la confessione ossia il riconoscimento delle proprie fragilità e imperfezioni davanti a Dio al fine di ottenerne il perdono e di essere confermato nell'esperienza dell'amore di Dio. Tale esperienza è possibile soltanto se l'uomo ha dissipato in sé l'immagine di un Dio tirannico e onnipotente che rifiuterebbe all'uomo di sbagliare, mentre d'altra parte non fa nulla per prevenire i suoi errori. Accettando i propri limiti e aprendosi alla fiducia in Dio, l'uomo non ha bisogno di dissimulare a se stesso le proprie passioni né le proprie defezioni, ma impara a conoscere "ciò che è nell'uomo" divenendo, di conseguenza, più indulgente e più comprensivo anche verso gli altri che riconosce implicati nelle stesse difficoltà e limiti, difficili da assumersi interamente.

Mentre il perfezionismo chiude l'uomo in se stesso, in una tensione ansiosa che lo rende apprensivo e severo verso gli altri, oltrecché verso se stesso, il riconoscimento della verità su se stesso e su Dio riconcilia l'uomo con se stesso e con la condizione umana come tale, conferendogli serenità e bontà ottimistica. Per questo il senso della fratellanza è una conseguenza naturale dell'esperienza del Padre, della cui bontà si riconoscono con gioia le tracce nella vita propria come in quella altrui. Che questo non si sia verificato nella vita del figlio maggiore della nostra parabola si deduce dal fatto che le attestazioni di bontà e di indulgenza del Padre verso il figlio minore la irritano perché esse costituiscono una minaccia all'immagine idealizzata della propria perfezione e sconvolgono l'idea stessa che egli ha di Dio. Esse suonano come una disapprovazione tacita del suo legalismo e un rimprovero silenzioso alla sua chiusura narcisistica. Esse significano, inoltre, il venir meno di quella approvazione personale che gli sembrava dovuta e aumentano pertanto il suo tormento ansioso. La propria perfezione non è compresa e cercata a livello dell'essere come capacità di apertura e di adesione al Padre e a tutto ciò che lo riguarda (i fratelli), ma a livello dell'azione e della produzione, quasi dimostrazione del propria valore.

Da questo atteggiamento scaturisce il confronto farisaico con il fratello "Sono tanti anni che ti servo, senza aver mai trasgredito uno dei tuoi ordini...e questo tuo figlio...ha consumato tutti i suoi beni con le meretrici". Il confronto farisaico racchiude la negazione della bontà del Padre: "tu non mi hai dato nemmeno un capretto..." "per lui hai ucciso il vitello grasso...". (20)

Mentre la fede e il perdono, essendo dell'ordine della gratuità mobilitano le energie dell'uomo che nell'orientamento religioso diventa capace di produrre frutti molteplici, l'atteggiamento di autovalutazione egocentrica e di calcolo gretto precludono l'apertura e lo mettono in antagonismo con l'intenzione vivificante e benevola del Padre. Il bisogno di essere confermato dall'amore del Padre e la capacità di aprirsi a lui generano una situazione conflittuale e quindi sentimenti di ansia e di colpa. Da essi il soggetto cerca di liberarsi trasformandoli, mediante la proiezione, in un'ombra negativa del Padre, ombra che diventa una autogiustificazione per il proprio atteggiamento. E' lo stesso dinamismo che troviamo denunciato nella parabola dei talenti: rifiuto o incapacità di apertura, proiezione e accusa dell'altro, per giustificare la propria passività e persistenza del rifiuto: "so che tu sei un uomo duro...ho avuto paura e ho nascosto il talento... prendi quello che ti appartiene" (che significa "non voglio avere nulla a che fare con te"). (21)

Comprendiamo che la struttura psicologica del perfezionista ostacola notevolmente il raggiungimento dell'apertura a Dio nella conversione. La misericordia dovrà pertanto cercare vie particolari per rompere tale rigidità ed aiutare la personalità a impostarsi in modo più duttile e perciò più sereno ed autentico.

Veniamo infine all'atteggiamento del figlio minore, chiamato il "figliol prodigo" e che è presentato all'inizio della parabola mentre dice: "Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta" poi "messa insieme ogni cosa, se ne partì per un paese lontano e là scialacquò tutto il suo patrimonio vivendo dissolutamente". (22)

Da queste espressioni, lette in chiave psicologica, appare chiara la situazione conflittuale del figlio nei suoi rapporti con il padre che è in fondo simile a quella del fratello maggiore, anche se è diverso il modo con cui viene vissuta e risolta.

Anche lui vede Dio sotto l'angolatura unilaterale del padre onnipotente, l'incarnazione della "legge" che esige rispetto e sudditanza e che contrasta troppo con il bisogno di affermazione e di libertà nell'iniziativa e nel godimento che gli urge dentro. Ma, mentre il figlio maggiore soffoca questi bisogni, rimuovendoli nell'inconscio, al fine di ottenere una immagine idealizzata di sé e quindi l'apparente assenza del conflitto, egli non rimuove, ma asseconda la ribellione contro il Padre. Egli pensa che solo uno stacco dall'ordine prestabilito della casa paterna e dalla vicinanza materiale del padre che tutto dispone e governa, potrà dargli lo spazio vitale in cui trovare se stesso e sperimentarsi nella libera espressione di sé e nella autodeterminazione delle proprie potenzialità vitali. Una visione incompleta dal punto di vista teologale della paternità di Dio e la conseguente difficoltà di vedere la realizzazione di tutto l'uomo in prospetta religiosa, richiude la religione in un dilemma: o accettare la sottomissione passiva a un Padre assoluto, autore della più alta esigenza etica, sacrificando a lui l'esercizio delle potenzialità specifiche umane: le pulsioni, la ragione, l'autonomia, o rinunciare al "mito" della religione per vivere ed espandersi pienamente a livello "naturale". Ma, in un caso come nell'altro, l'uomo non si libera dall'ambivalenza che è propria del conflitto non risolto: il senso di risvolta e di colpevolezza possono istaurarsi tanto nell'uomo legato alla religione come in colui che vi si svincola. Occorre chiarire l'ambiguità del nome di "padre" applicato a Dio e l'ambivalenza dell'uomo di fronte alle proprie potenzialità vitali per comprendere con un concetto strutturante della paternità di Dio e l'assunzione positiva delle potenzialità umane confluiscono nell'atteggiamento religioso autentico, superando il conflitto.

Lo studio generico come l'uomo diventa soggetto realmente umano elaborandosi attraverso i conflitti, le rinunzie, le identificazioni, mediante rapporti affettivi strutturanti. Questo divenire dinamico si attua in modo particolarmente intenso nell'infanzia, a partire dai legami parentali che incidono profondamente sulla personalità dell'uomo, attraverso l'adolescenza e protraendosi poi lungo tutto l'arco della vita in cui possono sempre verificarsi modifiche più o meno profonde della personalità.

Si conosce oggi molto bene l'incisività, dal punto di vista psicologico dei rapporti del bambino con la madre e che interessa anche la religione in quanto i rapporti positivi primari sono la prefigurazione di un legame beatificante con Dio e simboleggiano la felicità.

Nel nostro contesto ci interessa però analizzare la funzione del padre, che, nella strutturazione dell'uomo, occupa un posto specifico e ci dà la possibilità di una comprensione più approfondita della paternità di Dio.

Vergote, nel suo libro sulla psicologia religiosa, analizza e completa l'apporto di Freud alla comprensione del simbolo paterno per la religione. (23) Egli parla di "simbolo" nel senso che la "storia umana e quella religiosa si attuano secondo le medesime leggi", (24) riprenderò dal Vergote gli elementi essenziali alla comprensione della problematica che ci riguarda. L'opera più delicata della vita umana è la strutturazione effettiva e l'assunzione della consapevolezza di sé e pertanto della condotta etica di fronte al reale e alla legge.

Il bambino piccolo è un essere pulsionale che crede all'onnipotenza dei propri desideri di cui non ha ancora sperimentato i limiti. E' appunto il padre che tra i 3 e 6 anni della vita del bambino, mediante la sua presenza efficace accanto alla madre "conduce il figlio a rinunziare al paradiso affettivo dell'unione diffusa che è miscuglio di piacere, di felicità, eroismo, sicurezza". (25) Tale separazione è dolorosa e appare come una visione, una carenza, una impostazione negativa alla soddisfazione pacifica dell'esperienza primaria. Ma a questo momento negativo segue quello della "interiorizzazione" della legge, mediante l'identificazione con il padre nel quale riconosce il modello di una esistenza libera che gli permette di orientarsi nella propria autonomia, assumendo la coscienza e il dominio dei propri desideri per un futuro costruttivo. L'introduzione del principio della realtà con le sue esigenze di separazione, di limite, di rispetto dell'altro, conduce il bambino alla differenziazione dei rapporti affettivi e a una strutturazione più autonoma che permette il passaggio dal legame naturale e diffuso con la madre a dei rapporti differenziati di un altro ordine che quello "naturale". Il vincolo con il padre è infatti di ordine spirituale in quanto il padre è colui che riconosce il figlio mediante la parola e quindi gli conferisce la propria personalità. Quando dice: "tu sei mio figlio" esprime non un vincolo di pura reciprocità affettiva, né di assoluta differenza nella volontà di dominio e di interdetto, ma quel legame propriamente umano che è tenerezza di appartenenza e riconoscimento di una alterità, proposizione di un modello che è garanzia per un avvenire promesso e permesso, continuità e superamento di un passato.

La storia religiosa ripete, riassume e compie la storia originaria della umanizzazione dell'uomo. Dio si fa padre per l'uomo con la parola che introduce una separazione tra il visibile e l'invisibile e tuttavia istaura la filiazione al di là della separazione e della rivolta. Con l'assentire alla parola che lo costituisce figlio nella promessa dell'eredità paterna, l'uomo accede alla filiazione autentica. Sul piano umano la parola lo umanizza, sul piano religioso lo divinizza. Dio non è più il semplice correlato dei desideri umani. (26)

Il passaggio dalla situazione infantile alla identificazione positiva con il modello per la conquista del senso della propria autonomia non è tuttavia pacifico. Spesso il conflitto della fase negativa si protrae, e si riflette, ripetendolo, sulle tappe ulteriori della evoluzione. Un sistema educativo poco illuminato contribuisce spesso ad acuire le difficoltà anziché dissiparle, colpabilizzando la tendenza all'autonomia del soggetto in evoluzione. L'educazione in genere e l'educazione religiosa in particolare, di solito si preoccupano di portare il giovane a un adattamento il più possibile rapido ed efficiente alle convenzioni socio-culturali dove spesso prevale il criterio del perfetto dominio di sé nell'affermazione della razionalità e della prestazione efficace. Prevale pertanto l'incoraggiamento a reprimere tendenze e pulsioni vitali: l'iniziativa, l'aggressività, la sessualità per quello che hanno, soprattutto nella loro insorgenza, di selvaggio, di oscuro, di diffuso e incerto e perciò di "pericoloso" o di poco comodo. Il giovane mortificato o non opportunamente guidato, negli incerti tentativi dell'espressione di sé, si fa la convinzione che occorre reprimere le pulsioni e rifiutare, anzi negare una parte di se stesso per corrispondere all'ideale immaginario o reale proposto dall'ambiente. Ma il rimosso, inutile dirlo, rivendica i propri diritti intrattenendo il soggetto nell'ambivalenza conflittuale che lo fa oscillare tra sentimenti di ribellione, desideri di godimento e sensi di colpevolezza.

Tra le pulsioni quella che esprime meglio la tendenza all'autonomia è l'aggressività, volta all'espressione libera del pensiero, dell'azione e dell'iniziativa. Tuttavia spesso rimane più colpita la sessualità perché è l'espressione più sensibile di sé nel mondo. La sessualità implica il progetto: di affermare la propria esistenza per se stessa nel desiderio di godimento; nella sua esaltazione passionale e attiva della fecondità essa è legato al senso della potenza creatrice della vita e perciò diventa espressione di un profondo bisogno dell'affermazione di sé e della propria potenza. Non stupirà il fatto che questo secondo significato può, in qualche modo, sovvertire e annullare il primo, come per esempio in certi casi di patologia sessuale che, lungi dall'esprimere la ricerca del "godimento" ne rivelano la negazione e un bisogno esasperato di riconoscimento nonché l'espressione di protesta, di avvilimento e di disprezzo di sé. (27)

Dopo l'esame della situazione conflittuale del figliol prodigo seguiamolo ora come ci viene presentato nel secondo atto della parabola, lontano dalla casa paterna dove "scialacquò tutto il suo patrimonio, vivendo dissolutamente" e "quando ebbe dato fondo ad ogni cosa in quella regione venne una tremenda carestia ed egli cominciò a sentire la miseria...". (28)

La ricerca della soddisfazione di una libertà senza limiti e di un godimento assoluto porta necessariamente alla delusione perché è irreale e sproporzionato alle possibilità della natura umane. La fede nell'onnipotenza del desiderio viene a crollare nell'urto contro la realtà cruda della vita di ogni giorno. Privato del sostegno delle cure della casa paterna e delle ricchezze da cui finora era dipeso passivamente e da cui era portato, il giovane sperimenta, nel vuoto di stimoli esterni, la solitudine e incomincia a comprendere che la valorizzazione di sé si realizza nell'impegno della propria iniziativa, nell'attività e nel rapporto interpersonale. Si profila in lui pertanto la consapevolezza della reciprocità e progredisce alla accettazione della alterità, del limite e della gerarchia. La "carestia" e la "miseria" raffigurano appunto quel vuoto prodotto dalla frustrazione effettiva di una vita ancora indeterminata in cui l'assenza di progetti e ideali realistici e precisi non hanno favorito l'assunzione positiva di se stesso e delle proprie potenzialità per cui non si è elaborato il senso gioioso dell'efficienza e della capacità di rapporto efficace con la realtà. "Custodire" i porci nei campi di un padrone è infatti un'attività certamente non creativa, strettamente "servile"; da notare che i "porci" rappresentano simbolicamente le passioni e pulsioni, "basse" che vengono "custodite", possono cioè vagare liberamente, purché non escano da determinati limiti e confini assegnati dal padrone; da notare ancora che l'osservazione: "avrebbe voluto nutrirsi delle carrube dei porci" (29) potrebbe significare l'avvilimento del figliol prodigo che a causa del carente dominio delle proprie pulsioni si sente quasi identificato ai porci, tutt'uno con le passioni, considerate appunto come "basse", si sente cioè a disagio con una parte di se stesso.

La fame, ossia la fruizione di rapporti rispettosi e valorizzanti, di considerazione della propria personalità nell'amicizia e nello scambio interpersonale crea quel clima psicologico favorevole per una spinta verso il ricupero. Lo spingono ad "alzarsi", cioè a mobilitare le proprie energie a un cambiamento. Agisce innanzi tutto il bisogno di realizzare la propria condizione umana mediante l'attività impegnata in un progetto significativo, basata sulla reciprocità del dare e del ricevere, da cui scaturisce come logica conseguenza l'essere e il sentirsi valorizzati e l'essere e il sentirsi in comunione significativa con gli altri.

L'essere "mercenario" nel contesto della parabola voleva infatti dire impegnarsi liberamente nello svolgimento di un compito utile, ben preciso e retribuito. Compito che richiedeva forza fisica, impegno costante e intelligente della propria attività in solidarietà con altri, ma anche in fedeltà verso il padrone che, secondo le usanze del tempo, apparecchiava per tutti gli operai una mensa, simbolo dell'appartenenza alla sua casa e della comunione degli uni e con gli latri. Il figliol prodigo realizza ora che la componente più importante della vita umana è "essere in relazione significativa con la realtà e con gli altri", ricuperando così anche l'esperienza positiva iniziale con il padre che appoggia la speranza in una accoglienza benevola e in una rivalutazione della propria vita.

La speranza di essere da lui accettato come "mercenario" è la speranza della possibilità di una strutturazione positiva della propria esistenza umana nella assunzione della piena responsabilità che essa comporta, anche quella consequenziale allo spezzato rapporto di figliolanza.

In realtà è proprio l'esperienza profondamente umana della frustrazione, sofferta e accettata, la condizione preliminare alla ricostruzione della personalità e allo stabilirsi del rapporto di figliolanza ad una altro livello, ossia a quello specificamente religioso. Occorre che l'uomo abbia acquistato un certo grado di libertà psicologica, mediante l'esperienza dei limiti e dello spiegamento delle proprie potenzialità in un impegno umano, per poter incontrare l'altro in un rapporto di lealtà e di fiducia, ossia di amore specificamente umano.

La fede, che è riconoscimento e accoglienza dell'Altro e della sua parola è un atto cosciente, compiuto dalla persona nella sua totalità, che è possibile soltanto se una certa umanizzazione ha reso capace la persona di riconoscersi nel proprio limite creaturale. La confessione del figliol prodigo "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi mercenari" (30) è appunto un atto autenticamente adulto dal punto di vista umano e religioso. Riconoscersi peccatore è infatti "uccidere in se stesso l'immagine del bambino, sognato onnipotente e puro", (31) è dire la parola di verità su se stesso che presuppone la conoscenza e l'accettazione di sé e la volontà di assumersi la responsabilità della propria realtà e del proprio passato per un impegno positivo nel futuro. Contrariamente al perfezionista che non tollera la realtà dei suoi limiti e delle sue imperfezioni umane perché il suo amore si esaurisce nell'ideale di sé, il convertito accetta non solo i propri limiti ma anche il "fomite del peccato", la "spina nella carne" perché ha spostato il centro d'attenzione da se stesso alla grandezza e alla bontà di Dio.

Mentre prima della partenza il figliol prodigo aveva della paternità un concetto di onnipotenza tirannica, dalla cui dipendenza bisognava svincolarsi per trovare se stesso, ora conosce il vero volto del Padre che non esclude la libertà umana, ma anzi la fonda, la rispetta e la sostiene, che non annulla, né disprezza il limite della sua creatura, ma ne fa un pretesto per accoglierla, per risanarla e dimostrarle la sua benevolenza.

La conversione rende quindi possibile la figliolanza religiosa che, lungi dall'essere una regressione infantile, presuppone una personalità psicologicamente ben elaborata e strutturata. L'assunzione delle proprie potenzialità e limiti, mentre crea l'atteggiamento dell'umiltà creaturale, apre il soggetto all'altro e a Dio e lo pacifica in Lui. Il Salmo 150 esprime perfettamente questa dimensione integrale e adulta dell'abbandono e della fiducia religiosa.

La gioia per la "vita ritrovata", vita in cui parla questa come molte altre parabole, (32) esprime appunto la gioia per la pienezza dell'essere che si sviluppa nella continuità tra natura e soprannatura, nel ritrovamento e dominio di sé e nel completamento dell'uomo in Dio. Finché l'uomo rimane chiuso nella ricerca delle soddisfazioni egocentriche, siano esse di natura sensuale o narcisistico-perfezioniste, egli è "morto", cioè insoddisfatto e sterile perché manca dell'apertura e dello spazio interiore per accogliere Dio e lasciarsi trasformare da lui. E' invece sull'esperienza della rinascita integrale (libertà psicologica e rapporto religioso) che l'uomo potrà fondare la capacità di comprendere l'altro e di essere per lui via al ritrovamento di sé e di Dio.

La lettura dell'enciclica "Dives in Misericordia" evidenzia chiaramente la interdipendenza tra misericordia e conversione, atteggiamenti caratteristici del rapporto religioso. La misericordia è incarnata nella parabola del "figlio prodigo" del Padre (in altre parabole evangeliche del "buon Pastore", dal "Signore nobile", ecc.) che illustra l'atteggiamento di Dio verso l'uomo nel dono di sé e che si propone contemporaneamente a lui come modello e guida perché sviluppi e realizzi in sé la stessa capacità di amore.

La rilevazione della misericordia di Dio come bontà benevola e costante, come amore fedele e forte, a dispetto delle debolezze dell'uomo, manifesta a questi il vero volto del Padre, capace di pazientare e pronto a perdonare, (33) desideroso della piena realizzazione della sua creatura, la quale dovrebbe sentirsi portata spontaneamente a una risposta filiale.

Questa risposta non si realizza però facilmente nell'uomo. La parabola del figliol prodigo ed altre parabole evidenziano che la conversione, ossia l'orientamento stabile di vita a Dio, come anche l'atteggiamento di misericordia verso il proprio simile (bontà comprensiva e benevola), sono spesso ostacolati nell'uomo spesso e si verificano solo sotto determinate condizioni.

Abbiamo ipotizzato l'esistenza di una relazione tra struttura psichica e gli atteggiamenti religiosi dell'uomo, tra lo sviluppo e l'integrazione armonica dei vari fattori di personalità e la capacità del medesimo di trascendersi in un autentico e positivo rapporto interpersonale. Studiando i personaggi della parabola del figliol prodigo si sono potuti analizzare alcuni aspetti della personalità in rapporto con il Padre e della dinamica complementare tra i due atteggiamenti in questione, che sono interessanti dal punto di vista psicologico.

In base a questa analisi mi sembra poter dire che la misericordia previene la condizione e la presuppone. E' infatti l'esperienza di grazia e di amore, di tenerezza e di bontà di cui la creatura si stente oggetto da parte di Dio che la orienta verso di lui e la apre nella fiducia, nell'amore e nel dono di sé. L'atteggiamento di prevenienza e di tenerezza "il padre ne ebbe pietà" e "correndogli incontro, gli si gettò al collo e lo baciò" (34) rende possibile la confessione che ristabilisce l'armonia del rapporto tra padre e figlio: "Padre, ho peccato contro i cielo e contro di te, non sono più degno di essere tuo figlio". (35)

Ma spesso l'esperienza di grazia previene la confessione anche nel caso in cui non c'è la coscienza di una colpa attuale e specifica per il fatto che la percezione della bontà divina, rivelazione della sua essenza, opera un confronto spontaneo della creatura con l'Alterità di Dio e pone pertanto l'esigenza della purificazione e della conversione. Così avviene, per esempio, a Pietro dopo l'esperienza di grazia della pesca miracolosa. L'esclamazione "allontanati da me, Signore, perché sono un uomo peccatore" (36) sta appunto ad indicare la presa di coscienza della propria creaturalità, sentimento specificamente religioso, di fronte alla Santità di Dio. E' l'aspetto del "tremendum", caratteristico dell'esperienza religiosa. (37)

La misericordia presuppone d'altra parte la conversione in quanto l'uomo che non sia orientato totalmente a Dio non è capace di accogliere la sua misericordia, né di realizzare lo stesso atteggiamento verso i propri simili. Questo orientamento verso Dio si realizza appunto nella conversione in cui l'uomo scopre Dio Padre come presenza benevola e rispettosa e impara ad accettare il suo dono gratuito, a godere e a ricambiarlo con un atteggiamento autenticamente filiale. La conversione non è però un atto istantaneo, ma un processo graduale e dinamico che coinvolge la persona nella sua totalità in cui determinate condizioni psicologiche, favorevoli o sfavorevoli, hanno la loro importanza come predisposizioni agli atteggiamenti specificamente spirituali-religiosi.

L'ostacolo di fondo a tali atteggiamenti sembra risiedere in un insufficiente grado di libertà psicologica, frutto di una evoluzione incompleta o difettosa della personalità. Occorre che la normale esperienza di frustrazione, legata necessariamente ai conflitti intrapsichici della crescita, porti il soggetto a ridimensionare la tendenza infantile all'onnipotenza dei propri desideri e quindi a riconoscere ed accettare i propri limiti.

L'elaborazione di una personalità consistente e di un io-ideale realistico che ha come conseguenza una giusta accettazione e valorizzazione di sé ed una equilibrata aspirazione ai valori più alti, sono condizione indispensabile alla capacità di rapporti interpersonali autentici, al senso di umiltà creaturale e a un impegno coraggioso e fiducioso per la costruzione del regno di Dio nella propria vita e in quella altrui. Infatti, la personalità che ha elaborato le proprie potenzialità in modo armonico si possiede ed è libera da difese egocentriche ed è pertanto disponibile per entrare in sintonia con la propria ed altrui realtà ed operare in modo efficace.

La scoperta del bene proveniente da Dio nella propria vita, in quella degli altri e nel mondo, rende la persona gioiosa ed ottimista, e le conferisce lo sguardo di Dio sul peccato e sul male nell'uomo e nel mondo. Il punto di riferimento per la comprensione e la valutazione del peccato come della perfezione nell'uomo non è infatti un comportamento esterno più o meno perfetto, ma è atteggiamento di apertura o di chiusura a Dio e al prossimo. Per questo è importante l'esperienza e l'accettazione dei propri limiti per una presa di coscienza realistica del fatto che la perfezione umana non è un dato acquisito una volta per sempre, ma una conquista progressiva che viene realizzata nel dinamismo lento e continuo della "conversione", o trasformazione della personalità. In noi come negli altri, in cui esercita un ufficio di cura d'anime o di formazione, come in chi ne è l'oggetto, "il loglio cresce frammisto al grano" (38) e occorre pazientare ed attendere per veder lievitare la pasta e sviluppare un albero da un piccolissimo grano di senapa. (39) Nessun uomo è solo "buon terreno" ma in tutti si trovano, secondo le disposizioni innate (i talenti) e secondo le condizioni di sviluppo, insieme alla "terra fertile" (potenzialità vitali, solidità e recettività della personalità, qualità positive creative) la "strada" (labilità e superficialità), il "terreno roccioso" (difese e resistenze inconscie), le "spine" (preoccupazioni egocentriche, pulsioni non assunte) che ostacolano l'espansione della personalità nel bene. (40) La perfezione non è perciò un dato di fatto, né è solo questione di un atto di volontà. Occorre pazientare, attendere, sperare, "zappare" il terreno (41) perché dalla elaborazione progressiva e dalla convergenza delle potenzialità della personalità risultino quelle condizioni psicologiche favorevoli di ricchezza, di armonia, di libertà e autonomia per un impegno efficace e soddisfacente del soggetto nell'azione e nell'interazione con gli altri e con Dio.

La perfezione, secondo la concezione cristiana, mira alla crescita dell'uomo nella sua realtà totale: spirito incarnato, essere di pulsione e di ragione. Dio non è una potenza superiore che si impossessa dell'uomo con violenza, quasi fosse una materia inerte, né si impossessa dell'uomo con violenza, quasi fosse una materia inerte, né si sostituisce miracolisticamente ai suoi limiti, annientando le sue possibilità positive di elaborazione e di crescita. Per raggiungere il suo destino divino l'uomo non deve rinnegare la propria natura, né mutilare il proprio corpo, né rimuovere le proprie pulsioni per identificarsi con un ideale quasi mistico. Nel rapporto religioso Dio si dona alla sua creatura così come è poiché la valuta in modo positivo (42) e la ricrea secondo la propria immagine. Alleando il proprio spirito con lo spirito dell'uomo agisce nel suo interno, in modo invisibile, non misurabile rendendolo tuttavia gradualmente capace di cogliere la sua presenza nei segni del messaggio religioso e di esprimere il significato prestandovi la propria voce. Finché l'uomo, chiuso nella morsa dell'egocentrismo, cerca l'approvazione di sé nei segni tangibili della benevolenza di Dio o l'affermazione di sé in una libertà assoluta, egli vive lontano dal Padre e non può conoscerlo, né godere della solidarietà con i fratelli . Quando condizioni favorevoli di evoluzione lo hanno condotto ad accettare il limite della sua natura e di superarlo nel decentramento da se stesso e nella rinuncia al sogno dell'onnipotenza narcisistica, diventa possibile la conversione al Padre e l'orientamento religioso nella fede. Nel riconoscimento della verità su se stesso e su Dio egli è riconciliato con la condizione umana e creaturale. Tale riconciliazione diventa trasparente nella gioiosa assunzione del suo impegno nel mondo e nella sua capacità di solidarietà e di amore umano.

Aperto allo spirito del Padre ne sa cogliere la presenza al di là di ogni garanzia tangibile e vivere nell'orientamento stabile della propria volontà alla sua.


1 - Lc 15,11s.

2 - Lc 15,20.

3 - Lc 15,22.

4 - Lc 15,23.

5 - Lc 15,24.

6 - Cf espressione in lingua tedesca "Versohnung" - "ridiventare figlio".

7 - Cf su questo argomento PIEPER Josef, "Otium e culto, Brescia Morcelliana 1956.

8 - Gv 4,7.

9 - Gv 4,9.

10 - Cf Lc 16,10-13.

11 - Per questo paragrafo mi sono ispirata ad alcuni concetti di fondo dell'opera di VERGOTE Antoine, Dette et désir, deux axes chrétiens et la derive pathologique, Paris, Editions du Seuil 1978. Vedere in particolare II. La coscience du mal et le labyrinthe de la culpabilité 63-162.

12 - Lc 15,29

13 - L. cit.

14 - Lc 6,35.

15 - L. cit.

16 - Mt 5,45.

17 - VERGOTE, Dette et desir 113.

18 - Lc 15,31.

19 - Cf Mt 20,1-16.

20 - Cf Lc 15,29-30.

21 - Cf Lc 19,11-17; Mt 25,14-30.

22 - Lc 15,12-13.

23 - VERGOTE ANTOINE, Psychologie religieuse, Bruxelles, Ch Dessart Editeur 1966.

24 - Ivi 203.

25 - Ivi 194.

26 - Ivi 203. VERGOTE ANTOINE, Psychologie religieuse, Bruxelles, Ch. Dessart Editeur 1966, 203.

27 - Cf DEVEREUX GEORGES, La delinquenza sessuale delle ragazze in una società puritana in Saggi di etnopsichiatria generale, Roma, Armando Editore 1978, 170-197.

28 - Lc 15,13-14.

29 - Lc 15,16.

30 - Lc 15,18-19.

31 - VERGORE, Dette ed desir 125.

32 - Lc 15, 1-7; 15, 8-10.

33 - Cf Dives in misericordia, nota 52.

34 - Lc 15,20.

35 - Lc 15,21.

36 - Lc 5,8.

37 - Cf OTTO RUDOLF, il sacro, l'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione al razionale, Milano, Feltrinelli 1966.

38 - Cf Mt 13,24-30.

39 - Cf Mt 13,31-33.

40 - Cf Mt 13,1-23; Mc 4,1-29; Lc 8,5-15.

41 - Cf Lc 13,6-9.

42 - Cf Gen 1,31.