Fausto Gianfranceschi

INTERVENTO ALLA TAVOLA ROTONDA:
"IL FIGLIOL PRODIGO, PARABOLA DELL'UOMO"

 

Credo essere stato chiamato qui soprattutto per rendere una testimonianza personale, come autore di un libro intitolato "L'amore paterno", che nasce appunto di un'esperienza privata, vista tuttavia nel suo senso universale. Quindi il mio intervento non si collocherà a livello filosofico, teologico, come gli interventi precedenti e quelli che seguiranno in questo convegno; avrà, diciamo così, una dimensione "domestica".

Il mio libro è scaturito da un fatto non frequente: l'essere diventato padre, sebbene non per la prima volta, in età avanzata, a cinquant'anni, quando più spesso si diventa nonni. A questa età ci si pone di fronte alla vita in un atteggiamento differente rispetto a quando si è giovani e si ha un maggiore slancio vitale, si è portati più ad agire che non a osservare e meditare. A cinquant'anni ho osservato l'evento della nascita e della prima crescita con particolare attenzione, e ho vissuto più intensamente, più consapevolmente il rapporto padre-figlio. Mi sono pertanto avvicinato al tema di questo convegno: il mistero del padre, che ha un valore anche nella dimensione terrena, perché la paternità terrena partecipa in fondo al perenne atto creativo di Dio, e per analogia ne assume una parte di mistero.

Ma oltre al mistero del padre ha profondamente intuito la ricchezza del figlio. Ho visto il figlio bambino come testo originario dell'uomo, in contrasto con il discorso antropologico corrente. Il bambino, nei primissimi anni di vita è un essere umano aideologico, astorico, aculturale, non avendo ancora subito i condizionamenti della società e della cultura. E' dunque il testo dell'uomo allo stato puro, intonso. Cercando di leggere questo testo originario, attraverso l'amore paterno, mi sono accorto che esso dice il contrario delle attuali interpretazioni psicologiche, ideologiche, biologiche. La cultura laicistica dominante definisce l'uomo come un prodotto della sua storia, come un prodotto dei suoi prodotti materiali, come l'apice di un'evoluzione puramente biologica, come un essere condizionato della propria libido. Ebbene io ho potuto vedere che nel testo originario questo mostro non esiste. Ho potuto vedere nelle prime espressioni del bambino la presenza di valori e di verità permanenti che trascendono le visioni orizzontali e materialistiche.

Naturalmente non sono venuto qui per raccontare il mio libro. Mi limiterò pertanto a un accenno, riguardo all'amore, che dunque si ricollega alla meditazione di fondo di questo convegno sull'enciclica Dives in misericordia. Tutta la psicologia contemporanea ci dice che il bambino ha bisogno di affetto, questo è noto; ma ho potuto osservare qualcosa di più importante: non soltanto il bambino ha bisogno di ricevere affetto, ha anche l'esigenza pregnante di esprimere e di dare amore. Il bambino vive d'amore non solo come soggetto passivo ma soprattutto come soggetto attivo: in lui i primi gesti, le prime parole, la personalità, nascono da questa necessità impellente, da questo carattere originario. Per mia figlia, dire "questo fiore è bello" oppure dire "amo questo fiore" è la stessa cosa, e tale identità - che non è marginale ma struttura il primo incontro del bambino con il mondo - non rientra nei modelli psicologici correnti. La psicologia moderna dice che il bambino ama la persona che gli è vicina perché essa gli garantisce il cibo e l'assistenza. Ma quale cibo e assistenza può garantire un fiore, se non si colloca l'affettività umana in una dimensione più vasta dell'assunzione e della protezione materiale? la psicologia, ovvero la psicoanalisi freudiana, dice anche che il bambino si rivolge all'esterno sull'onda delle pulsioni, della libido; ma rispetto a un fiore sembra improprio parlare di una pulsione libidinosa, a meno che non si consideri questa come una aspetto parziale (innegabile ma menzognero se assunto totalitariamente) di un più vasto e alto impulso amoroso che non muove soltanto le creature umane, muove anche il sole e le altre stelle.

Ma veniamo al tema di questa rotonda. Come può misurarsi l'esperienza che ho accennato con la parabola del Figliol prodigo? Affronterò il tema secondo un'angolazione particolare, non esauriente e tuttavia utile, secondo me, perché alquanto trascurata. A me sembra che la parabola del Figliol prodigo non sia soltanto la parabola dell'uomo rispetto al padre celeste, a me sembra che possa essere anche un modello per il padre terreno. Noi siamo in parte condizionati da una cultura, derivante dalla rivoluzione industriale, che ci spinge a vedere il bene futuro dei nostri figli specialmente sotto forma di successo materiale. Quando educhiamo i nostri figli, quando li sollecitiamo a studiare, lo facciamo con questa minaccia implicita o esplicita: altrimenti resterai indietro nella vita, altrimenti non ti conquisterai un posto nella società. Direi che è progetto nordico-protestante, non cattolico. Assai meno ci preoccupiamo dell'espansione della verità interiore, anzi lasciamo via libera a coloro che semineranno nel cuore dei nostri figli verità barbare, contrarie alle espressioni e alle aspirazioni originarie.

Nelle accentuate e prevalenti preoccupazioni per il futuro materiale e sociale dei figli si manifesta, secondo me, una strana forma di possessività: si vuole che i figli assomiglino ai genitori nel loro essersi uniformati a un certo tipo di visione del mondo aridamente competitiva. Se i figli accettano questa unilaterale indicazione e vi si plasmano, si moltiplicherà l'aridità sociale, si inasprirà la lotta per i beni materiali. Se invece la sollecitazione non va a segno, e nel frattempo si è trascurata la formazione interiore del figlio, si avranno delle forme di rivolta distruttiva e antidistruttiva di cui il terrorismo e la droga sono gli esiti più tremendi.

Nella parabola del Figliol prodigo noi vediamo che il padre ha un completo rispetto per le scelte del figlio. Dio non è possessivo. Dio non è schiavista. Dio non è paternalista, diceva Pieretti. Il padre terreno ha molto da imparare da esempio di comprensione per l'esigenza di autonomia del figlio. Ma c'è un altro aspetto importante, e collegato, della parabola. Non soltanto il padre consente al figlio di allontanarsi, gli concede anche la sua parte di patrimonio. Che cosa simboleggia il patrimonio? Simboleggia evidentemente ciò che è stato accumulato per il figlio e nel figlio prima del riconoscimento della sua libertà, prima che questi raggiunga la maturità e la capacità rispettata, di autodecisione. Se non ci fosse un patrimonio, da assumere simbolicamente nel senso spirituale, non ci sarebbe nulla da prodigare.

Dio ha data all'uomo il libero arbitrio, però, prima, lo ha formato a sua immagine e somiglianza: ecco il patrimonio, che l'uomo può anche prodigare, ossia dimenticare, smarrire, ma che rappresenta il pegno del suo ritorno nella casa del padre. Analogamente dovrebbero comportarsi i genitori terreni, i quali dovrebbero preoccuparsi, prima di riconoscere la libertà del figlio, di rafforzare la sua interiorità, il che significa aiutarlo a svelare a sé stesso le implicazioni dell'origine creaturale e del dono della vita da parte del padre celeste, invece di lasciare che queste implicazioni naturali siano soffocate dalla cultura laicistica contemporanea, finalizzata a cancellare l'immagine della patria d'origine, cui potremo tornare.

Gli esempi delle dimissioni da questo compito fondamentale sono sotto gli occhi di tutti. I giovani sono abbandonati alle pressanti suggestioni di una cultura riduzionista che si diffonde dalla televisione, dalla scuola, dalla pubblicistica, dall'editoria, dai martellanti discorsi politico-sociali. I genitori, travolti anch'essi, rinunciano a creare per i figli un argine a questa pressione. Si limitano a manifestare il loro affetto con il dono dei beni materiali e cercando di garantire le condizioni affinché i loro figli non siano svantaggiati nella "lotta per la vita". Ma la vera contesa per il destino dell'uomo si svolge in un'altra dimensione. Se per il figlio e nel figlio non si è creato un patrimonio autentico, il figlio non tornerà mai a casa perché, in verità, non si è allontanato da una vera casa.