Tadeusz Styczen

L'AMORE COME COMUNIONE CON GLI ALTRI E IL SENSO DELLA VITA

 

"L'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente"

Giovanni Paolo II, Redemptor hominis.

Le domande che l'uomo si pone sul senso della vita hanno sensi diversi. Già per questa ragione le risposte che ad esse si danno hanno di solito sensi diversi. E questo è vero anche quando queste risposte suonano ugualmente. Dietro la forma di una stessa parola possono esserci infatti significati diversi di essa. Ciò si verifica in particolare quando, come risposta alla domanda sul senso della vita, viene pronunciata la parola "more".

L'amore, è stato detto, ha "più di un nome". Nulla di strano in questo. Non solo l'amore ha molti nomi. La realtà stessa può essere espressa in modi diversi. Sembra, però, che gli autori di quella opinione sull'amore avessero in mente un'altra cosa. Forse volevano dire che la parola "amore" ha più significati. Intendevano forse con questo dire che amore è un termine ambiguo? Invero molti elementi fanno pensare che tra i tanti significati di questa parola alcuni vanno veramente assai poco o praticamente nulla in comune tra loro.

Ora, San Giovanni evangelista dice che "Dio è amore" (1 Gv 4,8): contemporaneamente abbiamo l'industria pornografica che offre i suoi servigi sotto la medesima sigla: "amore"(1).

C'è qualcosa che lega l'uno all'altro questi due significati? Ci sono però elementi che ci fanno pensare qualcosa di ancora diverso: che cioè l'amore sia una realtà multidimensionale. Per questo la parola "amore, che simultaneamente denota queste diverse dimensioni, non può essere invero un termine univoco: ma per questo stesso motivo, non deve necessariamente essere un termine completamente ambiguo. Tertium datur. Questa terza possibilità si chiama: il significato analogico della parola. La parola analogica manifesta contemporaneamente i suoi vari contenuta semantici, ma al tempo stesso rimanda al loro rapporto interiore, che ne stabilisce l'affinità. E' questa affinità che appunto giustifica il fatto che ci si serva dello stesso termine per designare quei contenuti e che anzi a volte richiede che ci si serva della stessa parola. Ciò si riferisce non soltanto a una parola o un termine singoli, ma ad intere espressioni linguistiche o addirittura a intere frasi.

Quando dunque diciamo che l'amore dà senso alla nostra vita, noi possiamo esprimere non solo un giudizio unico, ma più giudizi in merito al senso della vita. E può avvenire che tutti questi giudizi siano contemporaneamente - negli aspetti che sono ad essi propri - veri. I loro contenuti infatti non necessariamente si escludono. Anzi possono integrarsi reciprocamente e solo così integrati esprimere in certo qual modo la verità piena sul senso della vita umana. Quando diciamo che soltanto l'amore dà senso alla nostra vita, dobbiamo tenere ben presente almeno il duplice senso della parola "amare" o il carattere bidimensionale della realtà che questa parola designa. Sembra altresì che una chiara consapevolezza della bidimensionalità del suo significato possa anche rivelarsi particolarmente utile ad una più profonda comprensione di ambedue le encicliche - gemelle - di Giovanni Paolo II: Redemptor hominis e Dives in misericordia, che sono la "magna charta" del senso della vita umana: grandi per il messaggio che esse contengono su "un amore più potente del peccato e più potente della morte".

Questo discorso si divide in due parti:

I - L'amore come comunione con il prossimo più lontano - A
    e il dramma di questo amore - B;
II - l'amore come comunione con il prossimo più vicino - A
    e il dramma di questo amore - B.

I

A - L'amore come atto di affermazione dovuto ad ogni persona o l'amore del prossimo più lontano

E' vero che "l'uomo rimane per se stesso un essere incomprensibile se non gli viene rivelato l'amore" (RH 10)? L'uomo in quanto uomo non può dunque comprendere se stesso in altro modo che attraverso l'amore? E' vero che senza far riferimento all'amore l'autoidentificazione dell'uomo sarebbe impossibile? Per rispondere a questi interrogativi dobbiamo puntare lo sguardo su noi stessi. Chi sono io propriamente? Chi sono io in quanto uomo?

Un fatto appare chiaro al di là di ogni dubbio. Nel campo della nostra esperienza soltanto, l'uomo ci appare come soggetto autonomo, cioè come centro di azioni consapevoli e libere, ma al tempo stesso legate dalla verità. Questa è probabilmente la definizione più sintetica dell'uomo, la quintessenza dell'autocomprensione, l'atto dell'autoidentificazione. Non siamo forse riusciti, in questo modo, a compiere un atto di autocomprensione senza far riferimento all'amore? Ecco un buon motivo per esaminare un po' più da vicino la realtà dell'uomo.

Osserviamo innanzitutto che quella verità che lega la libertà dell'uomo gli è data sempre e soltanto attraverso il suo proprio giudizio, chiamato coscienza morale. Lo lega dunque esclusivamente attraverso la forza del proprio atto, perché un giudizio è sempre un atto del soggetto. Anzi, solo questa affermazione rende manifesta l'autonomia propria dell'uomo, o quanto meno dice quale sia la condizione necessaria di questa autonomia, senza la quale l'uomo non sarebbe uomo.

Al tempo stesso però l'uomo in quanto essere razionale non può, anzi non vuole affatto rinunciare alla sua razionalità. Sa, che facendolo, tradirebbe se stesso. Perciò egli non è in grado di riconoscere un dato giudizio come proprio atto se non quando, con tale atto, affermi ed esprima il proprio riconoscimento, la propria asserzione di una verità oggettiva da lui indipendente, quando nel proprio atto di giudizio veda - e sappia identificare - un atto di conoscenza. In caso contrario questo atto non sarebbe un suo atto, egli quindi non potrebbe identificarsi come suo soggetto, cioè come lui stesso, come uomo. Una autonomia autentica, ossia l'esercizio di una reale autonomia è quindi possibile per l'uomo soltanto attraverso un sottomettersi alla verità del proprio giudizio, mai attraverso un sottomettere a sé la verità del proprio giudizio. "La verità vi farà liberi..."(Gv. 8,32).

Il tentativo di sottomettere a sé la verità del giudizio dovrebbe essere definito come un atto di sottomissione alla schiavitù dell'errore, una forma particolare di asservimento attraverso l'autoasservimento. Sarebbe una contraddizione flagrante al principio dell'autonomia. Non governa se stesso chi non si fa guidare dalla verità. Chi si butta a suo capriccio di qua e di là non governa se stesso, non è un soggetto autonomo.

Governa se stesso chi si fa governare dalla verità. Autonomia significa un aprirsi costantemente alla verità, una disponibilità a rispondere al suo appello (2). Ecco perché il venir meno alla fedeltà alla verità conosciuta e riconosciuta dall'uomo nel suo proprio atto, significa per lui non soltanto la fine dell'autonomia, ma contemporaneamente anche un venir meno alla fedeltà a se stesso. Ecco perché la responsabilità verso se stessi è così strettamente legata all'affermazione della verità, al dichiararsi dalla parte della verità.

Questa affermazione finisce forse nell'ambito del solo giudizio del soggetto come atto col quale la verità conosciuta nell'atto viene anche riconosciuta da quello stesso soggetto? No!

L'uomo, già costituito come soggetto nella sfera della conoscenza, ha inoltre la facoltà di confermare con un atto di libertà, con un atto di scelta, cioè con una decisione o un'azione, ciò che ha conosciuto e, con ciò stesso, anche ciò che ha già riconosciuto con l'atto della sua conoscenza. Il potere - qui manifestantesi - di decidere i propri atti e, attraverso essi e in essi, il potere di decidere di sé, cioè il potere di auto-decisione, è il tocco che completa il profilo della soggettività autonoma propria dell'uomo. E' solo grazie a questa facoltà che l'uomo governa appieno se stesso facendosi guidare dalla verità dei propri giudizi. E' grazie ad esso che l'autonomia che gli è propria assume la forma di un autonomo procedere nella luce della verità relativa al bene, cioè verso i veri valori.

E' in virtù di esso che l'uomo, essendo se stesso, è contemporaneamente in grado di realizzare i fini da lui conosciuti e riconosciuti degni di sé, e in questo modo di realizzare se stesso, cioè di diventare pienamente sé, di compiersi, di raggiungere la propria pienezza. L'autocompimento appare sotto questo aspetto come il fine proprio dell'autonomia: l'uomo come essere autotelico in riferimento alla propria autorealizzazione.

Non si può negare che tutte queste facoltà fanno dell'uomo un essere assolutamente eccezionale in questo mondo e, a dispetto di ogni somiglianza esteriore col mondo delle cose, un essere radicalmente diverso da esse: un essere non paragonabile ad esse, totalmente altro da esse... "solo", un essere propriamente singolare (3).

Un essere "diverso" da - e "al di sopra" di - ogni altra cosa di questo mondo, "aliquid perfectissimum in entibus" (S. Tommaso).

Tutta l'analisi che abbiamo condotto fino a questo momento ha avuto lo scopo di mostrare ciò che si nasconde dietro questa "diversità" e questo "al di sopra" della persona nel mondo. L'analisi ci ha rivelato la persona come agente autonomo, per il quale esercitare l'autonomia significa sottomettere la propria libertà al dominio esclusivo della verità dei suoi giudizi, cioè come "Autodipendenza attraverso il farsi autodipendenti dalla verità". "Autodipendenza nel farsi autodipendenti dalla verità, che trova la propria espressione e pienezza nella disponibilità della volontà ad agire, in un atteggiamento - ma soprattutto in un atto - di affermazione di quella verità come condizione sine qua non dell'autodipendenza"...Non è questa forse la "carta d'identità" dell'uomo da noi cercata?

Può meravigliare solo il fatto che su questa "carta d'identità" noi continuiamo a non vedere il riferimento all'amore come condizione dell'autocomprensione dell'uomo. Anzi, alcuni elementi di questa "carta" possono addirittura suggerire la conclusione che l'uomo pervenga alla pienezza della propria identità quando mette tutta la sua capacità di operatività autonoma al servizio di una sola causa: la causa dell'autocompimento. L'uomo è preoccupazione per il raggiungimento della propria pienezza...E' auto-preoccupazione. Non significa questo che la preoccupazione di sé diventa un chiudersi in sé e un isolarsi da tutti attraverso la preoccupazione di se stesso? Il cammino dell'uomo verso l'autocomprensione porta forse agli antipodi dell'amore?!

E' chiaro che oggetto particolarmente privilegiato dell'affermazione della verità è per la persona la verità sulla persona stessa. Né v'è anche dubbio alcuno che ciascuno conosce molto bene, a partire dalla propria esperienza, la verità sulla persona. "A partire dalla propria esperienza" significa qui "a partire dall'esperienza di sé", "dalla frequentazione conoscitiva immediata del proprio "io". E' appunto grazie a questa esperienza che l'uomo si manifesta e si attualizza soprattutto come soggetto e insieme oggetto della propria esperienza: come colui che ha egli stesso esperienza e come colui del quale fa esperienza. Solo grazie a questa esperienza, l'uomo "vede" che egli è al tempo stesso colui che guida e insieme colui che è guidato da se stesso... Contemporaneamente però questa stessa esperienza gli impone di vedere anche in ogni altro uomo qualcuno che fa esperienza di sé e insieme qualcuno che fa esperienza di sé; qualcuno che guida e insieme qualcuno che è guidato da sé. Insomma: un agente autonomo, cioè una persona. Alla luce di questa esperienza gli altri non sono semplicemente dei non-io, ma degli altri "io". Il "tu" è l'altro, diverso da me, "io"(4), il che del resto si riferisce - e non può non essere riferito - ad ogni uomo. La verità sul "diversamente" e sull'"al di sopra" della persona, verità scoperta - da un punto di vista straordinariamente favorevole a coglierla - in se stessi, è la verità su ogni persona in quanto persona.

La scoperta di questa verità diventa scoperta di quella che chiamiamo appunto dignità della persona ed è identica - allo stesso tempo - alla scoperta del dovere di affermare la persona prescindendo da ogni altra cosa che non sia questa sua dignità, cioè del dovere di affermare la persona per sé stessa. Questa scoperta coincide tout court con la scoperta del principio etico - universalmente valido - dell'essere e dell'agire della persona in relazione sia ad ogni persona in particolare sia a tutte le persone insieme.

Infatti è proprio a motivo di questa dignità della persona in quanto soggetto autonomo, soggetto libero e insieme legato "dal di dentro" alla verità, che ad ogni persona spetta da parte di ogni persona l'affermazione di lei per lei stessa(5).

Questo "per lei stessa" dice l'indipendenza del dovere di affermare la persona attraverso la persona da una condizione quale potrebbe essere qualsiasi forma di renumeratività dell'azione in questione per il soggetto agente, non escluso l'auto compimento. La dignità della persona, destinataria dell'azione, costituisce qui tutto ciò che occorre e insieme basta per l'esistenza del dovere obiettivo della sua affermazione. Ecco perché il dovere di affermare la persona per la sua dignità appare come un dovere incondizionato o assoluto, cioè categorico, e a sua volta l'atto di affermazione della persona attraverso la persona compiuto in nome della sua dignità getta luce su quel disinteresse che lo splendore particolare di un valore eminentemente morale conferisce all'atto.

Questo d'altronde è anche il motivo per il quale una tradizione di secoli designa questo tipo di atti col nome di amore, e insieme il motivo per il quale la parola "amore" è stata considerata sempre una delle parole più belle del linguaggio umano. Non fu Sofocle con la sua Antigone a iniziare questa tradizione. Sembra certo che egli non fece che confermarla e fissarla. Sappiamo anche che la novità del "comandamento nuovo" di Gesù Cristo è una nuova interpretazione del comandamento dell'amore, un'interpretazione sconvolgente, per quel "come io ho amato voi" (Gv 13,34). E' inoltre l'interpretazione di un comandamento che non è "un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto fin da principio" (1 Gv 2,7).

Giungiamo così al cuore del problema dell'uomo. L'amore sta di fronte all'uomo non soltanto come qualcosa che è dovuto ad ogni persona in ragione della sua dignità. L'amore in questa forma sta di fronte all'uomo anche come fatto di affermazione dei suoi propri giudizi di dovere, esprimenti la verità sulla persona, cioè dei suoi propri autoimperativi morali, e quindi come fatto di fedeltà alla propria coscienza, e per ciò stesso come fatto di fedeltà a se stesso(6). L'autoidentificazione dell'uomo in quanto uomo appare come scoperta che il soggetto fa di se stesso come di qualcuno che è stato chiamato ad affermare ogni altra persona, cioè ad amare, in forza di un proprio autocomandamento. Senza questa chiamata non è assolutamente possibile identificare l'uomo come uomo, come agente autonomo. A meno che l'autonomia che definisce l'uomo come uomo non debba cessare di essere quello che è: un'autodipendenza del soggetto nel rendersi autodipendente dalla verità.

Di più: se, senza questo auto-appello all'amore, non è possibile identificare l'uomo come uomo, di conseguenza senza realizzare questo appello, l'uomo non giungerebbe alla pienezza che gli è destinata, non si compirebbe come uomo (7).

La realizzazione dell'amore e la formazione di un atteggiamento di comunione, confermate continuamente da atti di affermazione degli altri "io", appaiono come la condizione sine qua non dell'autocompimento dell'uomo come uomo. Questo vuol dire che l'autocompimento è già un frutto dell'amore, come atteggiamento pro-comunionale. Esso appare come effetto necessario, anche se non direttamente perseguito, dell'atto d'amore. Infatti ciò che l'amante persegue direttamente quando agisce nei confronti degli altri in nome della verità dei suoi giudizi di dovere è - e non può che essere - l'affermazione degli altri per loro stessi. Il tentativo di violare questo ordine in nome dell'autocompimento significherebbe innanzitutto precludere a se stessi l'unica via che conduce ad esso. L'amore è autarchico. Non può essere "usato".

Voler affermare la persona dell'altro in relazione a qualcosa di diverso da lei stessa significa non affermarla affatto, anzi trattarla strumentalmente, cioè privarla del rango che oggettivamente le compete di soggetto autonomo, cioè non tener conto della verità sulla sua dignità. L'uomo si compie sempre e soltanto quando ama. Volere però affermare la persona dell'altro solo per compiere se stesso, significherebbe essere infedeli all'amore. E perdere con questo l'unica possibilità di autocompimento. Ecco perché l'uomo non può Né comprendersi Né compiersi come uomo senza l'amore, e neanche trova la sua identità e la sua liberazione se non unicamente attraverso la comunione con gli altri. Ecco perché "la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente" (RH 10).

B - Il cuore del dramma

La legittimità di tutte le suddette scoperte e affermazioni ha il suo fondamento nell'evidenza dell'esperienza. Siamo testimoni di questa esperienza nella sfera dei nostri atti di conoscenza non appena la persona nell'aspetto della propria dignità ne sia oggetto. (Chiamiamo coscienza morale sia questi atti, sia la capacità stessa di produrli). Questi atti, in nome della verità che abbiamo scoperto sulla persona assumono la forma, comprensibile in questa situazione, di auto-imperativi: devo affermare...devo amare.

In virtù della riflessione che accompagna questi atti conosciamo anche - quasi occasionalmente - la loro propria natura conoscitiva. In essi è sempre in gioco un giudizio proprio del soggetto, il cui contenuto essenziale - nelle più diverse forme concrete - è il dovere di affermare la persona. Il carattere di questi atti si potrebbe esprimerlo con la formula: "Il mio giudizio: devo amare...", ricordando però come le parole "mio" e "giudizio" esprimano elementi di radicale importanza ai fini della comprensione non soltanto della stessa coscienza, ma in generale dell'uomo come suo soggetto. Già ne abbiamo parlato nella parte introduttiva di questo discorso (8).

Ricordiamo quindi solo che nella formula: "Il mio giudizio: devo amare...", tale giudizio designa soprattutto il mio atto, cioè l'atto proprio del soggetto, e proprio in questo aspetto non cessa di esprimere l'autodipendenza del soggetto, anche se quanto al contenuto di tale atto ("devo amare") questo atto significa autovincolamento, autoappello, autoimperativo.

Contemporaneamente questo mio atto, cioè il giudizio proprio del soggetto, è insieme anche giudizio, cioè atto, di conoscenza, e in quanto tale diventa "strumento" del quale si serve il soggetto per concepire ed esprimere il proprio riconoscimento della verità indipendente dal soggetto, che è in questo caso la verità sulla dignità della persona umana.

Questa verità sta come di fronte al soggetto come appello a riconoscere quello che la persona è nella sua dignità. Si manifesta nella forma di un imperativo categorico ad amare la persona. Di un imperativo che è indirizzato al soggetto in nome della verità transoggettiva della persona e che richiede un impegno della libertà e una affermazione secondo verità. Tale imperativo non può dunque non vincolare la libertà del soggetto. Poiché però questo imperativo è insieme anche un autoimperativo del soggetto, il vincolo di cui stiamo parlando è propriamente un autovincolo, un atto di autonomia del soggetto . Tale vincolo pertanto non pregiudica affatto la libertà (9). Il che non significa che non la vincoli.

In che dunque consiste l'essenza di questo vincolo?

L'uomo, una volta provocato dalla verità del suo giudizio: "devo amare...", non può non rapportarsi ad essa con un atto di libertà, che è un atto di scelta. Pertanto viene a trovarsi inevitabilmente preso nella "trappola del bene e del male".

L'atto che compie deve essere infatti o "per" o "contro" il giudizio col quale il soggetto dichiara se stesso, e che esperimenta in se stesso: "devo amare", non potendo con esso non rendere testimonianza alla verità che egli ha scoperto e che non dipende da lui. Per lui dunque non c'è - e non può esserci - via d'uscita "al di là del bene e del male" verso una sfera che sia neutrale rispetto all'appello all'amore. Questo tentativo infatti dovrebbe essere necessariamente anch'esso... una decisione! E - attraverso la decisione - l'assunzione di una posizione. Un esempio classico di smascheramento di un'apparente e a volte disperatamente cercata neutralità in questo genere di situazioni è il lavarsi le mani di Pilato: un gesto di neutralità col quale egli condanna a morte un uomo del quale egli stesso aveva detto: "non trovo in lui colpa alcuna" (Gv 19,6).

La libertà dell'uomo di fronte all'appello all'amore consiste nel non essere costretto a scegliere ciò che deve scegliere, cioè nel poter non scegliere ciò che deve scegliere.

Non consiste nel poter scegliere o nel poter astenersi dalla scelta, dal momento che l'astenersi dalla scelta è già un "per" o un "contro", una scelta; una scelta tra l'amore o la sua negazione. L'uomo dunque deve necessariamente scegliere una delle due cose. Invece dipende esclusivamente da lui quale delle due sceglierà: l'amore o l'anti-amore. Con l'atto della libertà riconoscerà e confermerà egli ciò che già ha riconosciuto con l'atto della conoscenza, cioè il dovere di affermare la persona per la sua dignità? Oppure con l'atto della libertà negherà ciò che ha riconosciuto con l'atto della conoscenza, cioè il dovere di affermare la persona per la sua dignità? Riconoscerà anche con l'atto della scelta il dovere di amare che ha già riconosciuto con l'atto della conoscenza, tanto da esprimere questo sotto forma di auto-imperativo categorico? Compiendo l'atto dell'amore realizzerà con ciò stesso la possibilità di autocompaginazione che gli è data, oppure sceglierà di trasformarla in un'occasione di autodivisione? Ecco l'essenza della libertà e insieme il cuore del dramma dell'uomo, del dramma che appare come dramma dell'amore (10).

L'amore si manifesta di fronte all'uomo sempre e solo come appello costituente il contenuto del suo proprio giudizio.

Non accogliere questo appello non può dunque non significare un atto di capitolazione dalla possibilità data all'uomo di autogovernarsi, ed è il segno che si è sottoposti a una pressione, ossia a un'auto-schiavitù. Qui non ci interessa tanto la questione del meccanismo di questa autoschiavitù. Infatti non ha importanza sapere se i centri della pressione esercitata sulla volontà si trovino fuori del soggetto, oppure siano nella sfera della sua interiore reattività somatico-emotiva, Poiché la scena del dramma dell'uomo è alla fine la sua libertà chiamata in causa dalla verità: ultimamente egli stesso è il soggetto del dramma.

Per questo il rifiuto dell'amore dovrà necessariamente significare l'introduzione di una frattura che spacca fino alle radici l'unità interiore della soggettività personale dell'uomo (11). Ecco che lo stesso "io " nega col suo atto di libertà ciò che riconosce vero col suo atto di riconoscenza. Nonostante tutte le differenze, l'atto della libertà e l'atto della conoscenza sono alla fine entrambi atti profondamente personali e sono atti dello stesso soggetto. L'"io" sceglie dunque la negazione dell'io. Si fa egli stesso autore dell'opera di spaccatura della sua interiore integrità. Se dunque è nel "si" detto all'appello dell'amore che per l'"io" si trova l'unica possibilità di autocompimento, allora col suo "no" all'amore il soggetto offende non solo la dignità della persona del destinatario dell'azione, ma soprattutto - e con innegabile efficacia - anche la propria dignità. Infatti mi servo della libertà per rendermi schiavo: per non farmi guidare dalla verità del mio giudizio e per umiliare la mia razionalità, mettendo la mia libertà al servizio di qualcosa che il mio giudizio non può approvare. Fare violenza all'amore è in fin dei conti un far violenza a se stessi.

L'anti-amore danneggia la persona del destinatario solo esteriormente . La violenza esercita sull'altro di per sé non è in grado di umiliare la sua vittima. Non la uccide moralmente, e nemmeno la ferisce. Colpisce invece sicuramente la persona di chi la esercita me fa di lui un aguzzino. Per questo Socrate poteva dire: "Felice l'uomo che 'e vittima del suo uccisore".

L'essenza del dramma di cui parlava Socrate consiste tra l'altro nel fatto che l'assassino è irreversibilmente condannato ad una vita che è convivenza con qualcuno che egli stesso ha portato ad una situazione di morte morale. Per questo infatti l'aguzzino dovrà necessariamente per sempre restare nella sua vittima come identico ad essa e insieme coesistere inscindibilmente con essa come agente esclusivo e testimone inseparabile della propria autodistruzione. E' difficile trovare un'illustrazione più efficace del reciproco compenetrarsi di ciò che chiamiamo l'immanenza della persona nell'atto e insieme della sua trascendenza rispetto all'atto. Certamente sarebbe meglio se non disponessimo di strumenti così tragici di conoscenza della nostra esistenza personale.

Perché "per sempre"? Perché l'uomo non è in grado di annullare la decisione una volta che questa è stata presa. Il suo potere non è così grande. Ogni tentativo di correggerla o di attenuarne le conseguenze è al massimo quello che è: un'azione che concerne solo gli effetti della decisione. Non è - non può essere - una cancellazione del fatto che essa è stata presa.

Questa verità è totalmente confermata dall'esperienza della colpa. Questa è una di quelle esperienze che - indipendentemente dallo scorrere del tempo - rivelano inesorabilmente l'identità dell'autore dell'atto un tempo compiuto con il soggetto che, dopo anni, rammenta quell'atto. Però questo ricordo non è mai soltanto di qualcosa che è solo trascorso, ma è al tempo stesso e soprattutto un ricordare e un sentire quell'atto come qualcosa che continua a gravare hic et nunc sul soggetto (12). L'innominato rivide tutti i suoi atti passati e vide che questi atti erano... lui stesso! (A. Manzoni). Una liberazione potrebbe avvenire soltanto in seguito alla morte, ma soltanto a condizione che questa morte sia la morte totale dell'uomo, cioè investa esattamente quelle stesse profondità del soggetto personale umano dalle quali ha avuto inizio la decisione dell'anti-amore e nelle quali è avvenuta l'opera di autodistruzione morale. Già però l'analisi puramente filosofica - almeno dall'epoca di Platone in poi - continua a turbare gli uomini prospettando loro la possibilità che la morte fisica non tocchi quelle profondità dell'esistenza personale dell'uomo...

Le riflessioni fatte fino a questo momento ci portano alle conclusioni seguenti. Se vediamo il senso della vita dell'uomo nell'autocompimento e se l'unica possibilità di questo autocompimento è il realizzare la chiamata all'amore, cioè alla comunicazione con gli altri, allora il problema "amare o non amare" assurge a problema del tipo "essere o non essere dell'uomo come uomo", cioè a problema del senso della vita umana. Inoltre, se l'amore nel senso suddetto non costituisce un "fatto" che nell'uomo come soggetto solamente occorre o no, ma è un atto del soggetto, opera di una libera scelta, actus personae, allora in tal caso nelle questioni concernenti il senso della propria vita ogni uomo è "artefice esclusivo del proprio destino!". Soltanto da lui dipende infatti decidere se risponderà con un atto di libera scelta all'appello dell'amore che si presenta davanti a lui come appello della verità del suo proprio atto di conoscenza, come un'appello all'unità con tutti gli altri "io".

Allora come usciremo da questa prova della libertà e, insieme, della nostra umanità? La famosa confessione di Ovidio: "Video meliora, proboque, deteriora sequor" (Metamorfosi VII, 20) sarà forse la chiave della risposta che diamo, della nostra autobiografia? La drammatica confidenza si san Paolo: "Non comprendo quello che faccio, perché non faccio quel che vorrei io, ma quello che non voglio" (Rom 7,15), non è stata forse fatta a nome di noi tutti? E. Jevtuscenko ci presta forse le parole per esprimere un'identica diagnosi su noi stessi quando si chiede:

"Ho incominciato a vivere?

Ancora non ho incominciato...

Ho amato?

Forse non ho amato..."

Non ho incominciato a vivere se non ho incominciato ad amare. E appunto non ho amato!

Se dunque tutto il male morale che compiamo non è altro, in fondo, che una forma di infedeltà alla dignità della persona e quindi una forma di infedeltà all'amore, e se è esatta la diagnosi dell'evangelista Giovanni ("Se dicessimo che noi non abbiamo alcun peccato, inganneremo noi stessi e la verità non sarebbe in noi" - 1 Gv 1,8), e se infine è chiaro che non siamo in grado di annullare noi stessi e le nostre decisioni, con le quali abbiamo introdotto irreversibilmente il non-senso nella nostra vita, potrà ancora esistere una qualsiasi forza in grado di restituire il senso perduto? Esiste una forza capace di "dichiarare nullo" ciò che nel mondo dell'umana libertà è avvenuto contro l'amore? Chi dunque può salvarsi?" (Lc 18,26). Soltanto una risposta positiva a questa domanda potrebbe determinare il senso della correzione da apportare.

E una speranza di salvezza. Ma una risposta del genere non appare già a priori incredibile?

Forse allora non ci si dovrebbe meravigliare poi tanto che sia stato avvertito come scandaloso il fatto che qualcuno in tutta serietà avesse a dichiarare un giorno: "Ti sono rimessi i tuoi peccati" (Lc 5,20)! Certo, presupponendo che l'autore di queste parole fosse soltanto un uomo, è difficile meravigliarsi della reazione degli ascoltatori: "Chi è costui che pronunzia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio solo?" (Lc 5,21). E se quest'ultima ipotesi si rivelasse vera? Se Colui che parlava così fosse non soltanto un uomo, ma anche Dio?

* * *

Ciò che è impossibile all'uomo è possibile a Dio (Lc 18,27).

* * *

In ogni caso quella incredibile e inaudita notizia del fatto che qualcuno un giorno ha detto con tutta serietà una cosa del genere: "Ti sono rimessi i tuoi peccati", e ha associato la credibilità di ciò che diceva a un incredibile e pur realissimo avvenimento visibile del quale egli era l'autore, non può non suscitare il massimo interesse in chi una volta abbia visto che soltanto l'amore è in grado di dare senso alla vita umana e abbia al tempo stesso esperimentato come si sia privato egli stesso irreversibilmente di questa possibilità con un atto di libera scelta... Ma esiste ancora un amore così potente? Esiste una forza che sia talmente amore da non far violenza alla libertà nel riparare al non-amore? Questo è il problema!

II

A - L'amore come confessione: "E' bello che tu ci sia!" o l'amore del prossimo più vicino

Il confessare: "Come è bello che tu ci sia!" può servire come dimostrazione esemplificativa del fatto che l'"amore ha più di un nome", che lo si può esprimere senza servirsi del suo "nome" e che si può fare questo in che non lascia il minimo dubbio che di esso si tratta (13). Nessuno vorrà negare che nella confessione: "E' meraviglioso che tu esista!" è di amore che si tratta. Ma che nessuno vorrà negare che in questa confessione si esprime un'altra dimensione dell'amore , diversa da quella che abbiamo analizzato sopra. Che cosa determina la diversità di questa dimensione?

Tale diversità non deriva forse dall'ottica particolare nella quale la persona amata si manifesta in questo caso alla persona amante. In questa ottica la persona alla quale va l'amore si rivela non solo come qualcuno che-alla pari di tutte le altre persone - partecipa di quella particolare dignità mediante la quale ciascuna persona viene posta al di sopra del mondo delle cose e non può essere paragonata a nessun'altra cosa di questo mondo. in quest'ottica la persona si rivela ancor di più come qualcuno che è diverso da ogni altra cosa e che nel mondo delle persone esiste in modo diverso da ogni altra persona.

Questo "diverso" dice la sua alterità e in questo senso la sua unicità ed eccezionalità, la sua irripetibilità, non-scambiabilità e insostituibilità.

Si può non notare che qui siamo costretti a servirci continuamente del linguaggio della negazione? Anche le parole che nella loro forma o suono esteriori sembrano non tradire questo fatto, in realtà contengono un momento di negazione nel loro significato. Sono un tentativo di dichiarare l'unicità di ogni persona attraverso un'operazione volta a "separarle dalle rimanenti persone", come si vede nel caso delle parole "unico", "eccezionale" ecc.

Non siamo forse sulla buona strada per scoprire l'irripetibilità di ogni persona, se osserviamo il suo volto? Infatti, dove e come potremmo trovarne uno uguale tra le migliaia che si presentano davanti ai nostri occhi? Eppure esso più che scoprire questa irripetibilità tende piuttosto a coprirla, cioè a velare quello che è il paesaggio più profondo ed intimo della persona, e quindi la sua identità. Questo non diminuisce il ruolo del volto che ci conduce fino al mistero del "tu" nell'incontro faccia a faccia.

Nella confessione: "Come è bello che tu ci sia!" è contenuto però anche qualcosa di più della semplice affermazione dell'irripetibilità del "tu". In essa è contenuta anche - forse soprattutto - la gioiosa meraviglia per il fatto che il "tu" nella sua irripetibilità non è solamente un sogno, una visione, un desiderio o una fantasia, ma una realtà (14). Lui (lei) c'è! Esiste! Di più: questa confessione mette in evidenza il fatto che solo l'esistenza del "tu" è un bene, un valore. Anzi è il valore radicale e fondamentale, poiché esso solo decide che l'"io" può esperimentare l'eccezionalità, l'irripetibilità del "tu" come qualcosa di reale e di concreto. L'amore, esso stesso possibile solo sulla base della conoscenza dei valori dell'esistenza, è come una risposta suscitata da questa conoscenza. L'attenzione sull'esistenza del "tu" permette di penetrare meglio nella sorgente ultima della sua eccezionalità, di penetrare nella non-necessarietà di questa esistenza, nella sua contingenza. E con questo di rivelarne ancor meglio il valore del suo essere come sorpresa e dono che riempiono di stupore. "Potresti anche non esistere. Eppure esisti! Ci sei! Non ti sei dato (data) l'esistenza da solo (sola). Sei dunque un dono. Ma dono di chi? Chi dunque debbo ringraziare per te, per il fatto che esisti quando confesso: "E' meraviglioso che tu ci sia"?

Qui purtroppo possiamo toccare solo di sfuggita i punti nevralgici del fenomeno dell'amore. Ma anche in una caratterizzazione così elementare non è possibile non menzionare quanto avviene al polo opposto dell'espressione: "Come è bello che tu ci sia!". Poiché infatti l'affermazione dell'esistenza che questa espressione contiene ha due poli. E sono poli personali.

Da una parte vi è l'esperienza e la percezione dell'esistenza del "tu" come esperienza e percezione del valore del "tu" per l'"io". La confessione: che cosa meravigliosa che tu ci sia!" dice infatti che il "tu", in se stesso irripetibile, costituisce contemporaneamente anche per l'"io" un valore insostituibile. Il mondo nel quale all'"io" è toccato di vivere cesserebbe ai suoi occhi di essere questo stesso - e certamente suo - mondo, se in esso mancasse un "tu". Attraverso il "tu" tutto il mondo appare all'"io" in maniera completamente diversa. Egli lo riscopre. Trova in esso una dimora per sé. La scoperta dell'eccezionalità del "tu" non separa affatto l'"io" dagli altri. Al contrario, solo adesso gli altri diventano per lui veramente i vicini prossimi, cioè non così solo degli "altri io", ma perfino degli altri tu: sorelle e fratelli. Non voleva forse dire questo Martin Buber quando ha affermato che l'amore è esclusivo e insieme inclusivo? Esclusivo e insieme inclusivo di tutti, non escludendo nessuno. E questo appunto grazie al fatto che la prospettiva eccezionale nella quale l'"io" ha potuto scoprire l'eccezionalità del "tu" non può, come minimo, non turbarlo, dal momento che vivendo nel mondo delle persone, in rapporto con gli altri, l'"io" vive in mezzo al mistero della irripetibilità di ogni altro! Tutto il mondo diventerebbe più povero se in esso mancasse qualcuno.

Nessun uomo è un'ISOLA, intero in se stesso.

Ogni uomo è un pezzo del CONTINENTE,

una parte della TERRA.

Se una ZOLLA viene portata dall'onda del MARE,

l'Europa ne è diminuita,

come se un PROMONTORIO fosse stato al suo posto,

o una MAGIONE amica, o la tua stessa

CASA. Ogni morte d'uomo mi diminuisce,

perché io partecipo dell'umanità.

E così non mandare mai a chiedere

per chi suona la campana: Essa suona per te

John Donne

Se infatti in esso mancasse il "tu", il mondo cesserebbe di essere una dimora per l'"io", oppure diventerebbe una dimora vuota.

Hai lasciato un grande vuoto nella mia casa,

Mia cara Ursula, con questa tua scomparsa!

Era piena di noi, ora è come se non ci fosse nessuno...

J. Kochanowski, Treny, VIII

C'è da meravigliarsi se le affermazioni: "Non ho più nessuno per cui vivere" e "Non ho più nulla per cui vivere" sono usate da persone colpite dalla morte di persone care in modo così spontaneamente interscambiabile che esse non se ne accorgono neppure? E si può essere sicuri che non capirebbero di che si tratta se qualcuno tentasse di farglielo notare. Non sarà forse perché, servendosi di queste espressioni linguistiche, esse non pensano affatto alle parole? La "cosa" li assorbe completamente. E' con essa che hanno a che fare. E questa "cosa" - almeno nella loro esperienza e nel loro sentire - è una sola e sempre la stessa e influisce allo stesso modo su di loro. Li interpella sul senso della loro vita.

Qualcosa di analogo - d'altra parte - avviene al polo opposto della confessione: "Come è bello che tu ci sia!" Anche il "tu" vede la propria esistenza in modo completamente nuovo quando gli sia dato di esperimentare e di accorgersi di essere vissuto da qualcun altro come qualcosa di insostituibile. Anche per il "tu" il mondo diventa una casa, gli altri diventano altri "io", i prossimi più vicini, egli stesso vede sé come nuovamente dato a se stesso e identificato appieno nella sua "singolarità", come solo alla fine scoperto da se stesso, ritrovato dopo una lunga ricerca e al tempo stesso "legittimato" ai suoi propri occhi.

Questa verità è confermata, in maniera talora tragica, dall'esperienza dei figli "non voluti". In questa prospettiva "essere" è uguale a "essere legittimato nel proprio esistere", significa "essere accolto", "venire stretto al seno". Insomma: "essere amato". Non essere amato è invece quasi come un perdere il diritto ad esistere, perdere il "perché" della propria vita, perdere il sentimento del suo senso.

Dovrebbe dunque essere proprio così ingannatore questo sentimento nella funzione che esso ha di legare il problema del senso della vita e la questione dell'"amare" ed essere amati"? Non si dovrebbe tener conto della mutevolezza dei sentimenti, delle illusioni e delle delusioni, e soprattutto della legge crudele della morte?

Nella nostra analisi piuttosto sommaria omettiamo intenzionalmente di trattare il caso della "perdita dell'amore" in conseguenza di un'infedeltà. Si può per altro ammettere, magari già in virtù della definizione, che l'amore esprimentesi con quell'"E' meraviglioso che tu ci sia" forse non sarebbe mai se stesso se non contasse in sé - almeno come intenzione - l'elemento del "per sempre". Di più: va sottolineato con energia che quel momento del "per sempre" coinvolge a tal punto tutto l'atteggiamento di colui che confessa: "E' meraviglioso che tu ci sia", che costui, , se solo ne avesse la potestà, soddisferebbe il suo più grande desiderio: donare l'immortalità alla persona amata. Se solo dipendesse da lui, la persona amata non cesserebbe soprattutto mai di essere, di esistere. Sarebbe questo il primo dono del suo amore (15).

E se di fatto non le dona questa immortalità, non è perché non voglia, ma perché non può fare ciò che più di tutto vuole. E' impensabile, se si disponesse dell'onnipotenza, non usarla soprattutto al fine di donare un'esistenza senza fine, una vita infinita alla persona amata. L'unità di amore e vita, di amore e dono dell'esistenza, è un'unità indissolubile.

Ecco perché non è pensabile un Amore Onnipotente che non voglia impedire - e di fatto non impedisca - l'annullamento totale della persona amata una volta che le abbia donato l'esistenza. Infatti in tal caso esso o non sarebbe Amore o non sarebbe Onnipotenza. Se è l'una o l'altra cosa come dunque è possibile la morte? Qualunque cosa sia, una cosa la morte non è, e non può essere: la distruzione totale della persona amata. Può essere soltanto... un passaggio ad un'altra vita... un transitus. "Vita mutatur non tollitur...".

B. - "Amore più potente della morte"?

Sappiamo che l'amore dell'uomo non dispone dell'onnipotenza. L'uomo, amando, non è in grado di fare ciò che soprattutto e più di tutto desidera per la persona amata e per se a motivo di lei: eliminare la vita la necessità della morte. Non potendo eliminare la morte, essendo impotente nella sua protesta contro la sua inesorabile necessità, l'uomo, anche il più fedele nell'amore, nel donare l'amore e nell'accettare il dono dell'amore, non è in grado di impedire quella catastrofe inevitabile che è la "perdita" dell'amore. Che cosa dunque può esserci di più assurdo della morte per colui che dichiara: "Quale meraviglia che tu esista!"? In questa prospettiva sia la morte della persona amata, che la morte della persona amante deve essere vissuta - ed è vissuta - non solo come colpo radicale inferto al loro legame interpersonale, ma contemporaneamente anche come colpo inferto a qualcosa in cui hanno visto o a cui hanno legato il senso della loro vita.

E' difficile non vedere questo qualcosa di traumatico. L'amore appare come qualcosa di paradossale. Da un lato le persone che si amano percepiscono il loro amore come la forza che unica dà senso alla loro vita. Essi ne hanno bisogno assolutamente per potere dare un senso alla loro esistenza, e infatti in quel "per te" essi vedono la risposta alla domanda sul 2per che cosa" della loro esistenza. D'altro canto invece, nulla come l'amore rivela loro con tanta forza quanto l'inesorabile "legge della morte", scolpita nella loro vita, sembri recidere quel senso alla radice. Di più: nulla più potentemente dell'amore stesso rivela loro l'importanza del loro amore di fronte alla morte. Infatti nessuno vive più profondamente di loro quella protesta contro la morte che è il loro vicendevole amore, e insieme la vanità di questa protesta. Nessuno più a fondo e più potentemente di loro si rende conto che "la morte è più forte dell'amore" che vuole, invano, salvare la vita. Più forte di ciò che alla loro vita dà un senso? Non sarà che l'amore, col mettere a nudo la propria impotenza di fronte alla morte, mette a nudo con ciò stesso anche il non-senso della vita? Non strappa esso stesso la maschera dell'apparenza con la quale ha illuso gli amanti fino al momento in cui si sono trovati di fronte alla morte. Non sarebbe comunque necessario "un amore che 'e più forte della morte affinché il senso della vita possa essere salvato"?

Ed ecco che queste considerazioni ci portano ad una conclusione analoga a quella con cui abbiamo terminato la riflessione al punto I B. Entrambe si concludono con le stesse domande. Innanzitutto questa: l'amore è più forte dell'anti-amore umano, è più forte della morte morale dell'uomo, del peccato? Abbiamo posto questa domanda quasi in nome di una grande speranza come condizione irrinunciabile della conservazione e dell'esaudimento di tale speranza. Se a questa domanda ci fosse una risposta positiva, onestamente fondata, questa risposta costituirebbe una indicazione verso la salvezza del senso della vita.

La seconda domanda ci porta nella stessa direzione. Anche la domanda: l'uomo è più forte della morte? è da noi posta a partire da quella medesima posizione di speranza. Entrambe le domande rimandano in fondo alla stessa conditio sine qua non della salvezza del senso della vita umana: questa condizione è l'"amore più forte della morte". Solo che nel primo caso poniamo questa "condizione della speranza" di fronte alla morte morale dell'uomo, la seconda volta invece di fronte alla sua morte fisica. Di fronte cioè alle due potenze che sopprimono il senso della umana esistenza distruggendo la nostra comunione con l'altro "io" - il più lontano e il più vicino. Ed entrambe le domande tendono in direzione di quell'annuncio mai udito prima che - precisamente in relazione a quella speranza - è stato chiamato Evangelo, Buona Novella, e perfino Lieta Novella. Ed è proprio da quella parte che ci giungono parole il cui contenuto è fuori del comune e che ci riempiono di stupore se paragonate con la diagnosi che siamo costretti a fare di noi stessi: "Ti sono rimessi i tuoi peccati!" Di più: non meno stupefacente è il fatto che l'Autore di queste parole con la stessa naturalezza è serietà dice a Maria disperata per la morte del fratello: "Tuo fratello risorgerà" (Gv 11,23). E subito compie quanto ha promesso. Così pure al compagno che sta morendo insieme con Lui sulla croce e mostra di pentirsi dei delitti che ha compiuto, dice con la stessa naturalezza le parole: "Oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,43). E questo come se non si curasse affatto della disgraziata situazione, propria e del compagno. Quasi che la morte imminente non meritasse affatto la Sua preoccupazione. Quasi che non contasse nulla di fronte alla "cosa essenziale dell'uomo:"

E' dunque meritevole della massima attenzione la sproporzione - nel Suo giudizio - tra la morte morale e la morte fisica dell'uomo da una parte e, dall'altra, il rapporto di dipendenza della seconda dalla prima da Lui sottolineata. Accennando a questo rapporto Egli fa sempre capire di avere potere indivisibile sia sul male fisico che su quello morale dell'uomo: "Che cosa è più facile dire: Ti sono rimessi tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina?" (Lc 5,23). E di questo vuole convincere gli ascoltatori: "Ma affinché voi sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, rivolto al paralitico esclamò: Dico a te, alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa" (LC 5,24).

Mostrando però di avere questo potere indivisibile sui due grandi mali della nostra esistenza, l'Autore di queste parole dà molte prove del fatto che la Sua più grande preoccupazione è il nostro male morale. E che questo soprattutto per Lui è un problema di quell'onnipotenza che è l'Amore. Egli vuole salvare senza pregiudicare in nulla la libertà di colui che salva. Che può fare l'amore onnipotente quando desidera sotto ogni aspetto dare la salvezza a un essere libero rispettandone in tutta la sua portata l'autonomia? Non dovrà forse dar prova di rinunciare, dopo avergliela dimostrata, alla sua onnipotenza, e mostrare invece la "forza convincente della Carità" (Fil 2,1)? Onnipotenza disarmata d'amore!? Non è forse questa l'espressione riservata in un certo senso strettamente ed esclusivamente all'onnipotenza, e insieme una dimostrazione dell'amore? E' possibile pensare un amore "più divino" di questo, un amore che sia ancor più amore? Non è questa una manifestazione appunto dell'amore divino, di quella carità qua maior cogitari non potest? "Abbiate in voi gli stessi sentimenti che erano in Cristo Gesù. Egli, pur possedendo la natura divina [...] umiliò se stesso" (Fil 2, 5-7).

Forse che Colui che è risorto non poteva scendere dalla croce quando fu sfidato a farlo per "dare la prova di essere figlio di Dio"? Perché dunque non scese? Non forse proprio per questo, perché potessimo credere ad un Amore più forte del peccato? E credere in un Amore più forte della morte? In questo caso non è Lui il verificarsi delle condizioni sine quibus non, della "grande speranza" nel recupero del senso perduto della vita, non è Lui quell'"Amore" più forte della morte" da noi cercato? Quell'Amore, l'"incontro" del quale "rivela appieno l'uomo a se stesso", poiché il "parteciparvi vivamente" restituisce alla sua vita il senso perduto o scosso?

E soprattutto Esso è più grande del peccato...

più potente della morte [...] (RH 9; DM 8)

"L'uomo non può vivere senza amore". Solo l'amore dà senso alla vita. Ma di fronte alla morte morale, al peccato, soltanto un amore " più grande del peccato" supera la "prova del senso". Infatti di fronte alla morte del corpo esce vittorioso da questa prova solo un amore "più potente della morte", morte fortior amor. Questo amore può giungere all'uomo, autore della propria disfatta morale e fisica, solo dal di fuori. Può essere solo dono il dono dell'"amore che viene incontro a ciò che costituisce la radice del male nella storia dell'uomo: incontro al peccato e alla morte" (DM 3).

L'amore di questo genere è apparso - e si è fermato alla soglie del cuore umano in una continua attesa del suo libero invito: "Sì, vieni!". Solo da questo" Sì, vieni!" dipende la realizzazione del "Dio redentore con noi!" - in cui ciascuno di noi può ritrovare la comunione con gli altri, tanto con i più lontani quanto con i più vicini. E ritrovare anche se stesso nella - e attraverso - questa comunione, cioè ritrovare il senso della sua vita.

Questa rivelazione dell'amore si chiama anche misericordia.

Questa rivelazione dell'amore e della misericordia

ha nella storia dell'uomo una sola forma e un solo nome.

Si chiama: Gesù Cristo (RH 9).

Tadeusz Styczen SDS

NOTE

1) Cfr. J. Pieper, über die Liebe, München 1972 p. 15.

2) "La trascendenza della persona nell'atto non è soltanto dipendenza da sé, dipendenza dall'io". Contemporaneamente entra in essa il momento della dipendenza dalla verità, e questo momento in ultima analisi forma la libertà. Essa in fatti non si realizza subordinando a sé la verità". Cfr. Karol Wojtyla, Persona e atto, LEV Città del Vaticano 1982, p. 180/181; anche pp. 165, 182-183, 184-189.

3) "Con questa conoscenza che lo fa uscire, in certo modo, al di fuori del proprio essere, in pari tempo l'uomo rivela sé a se stesso in tutta la peculiarità del suo essere. Egli non è soltanto essenzialmente e soggettivamente solo. Solitudine infatti significa anche soggettività dell'uomo, la quale si costituisce attraverso l'autoconoscenza. L'uomo è solo perché è "differente" dal mondo visibile, dal mondo degli esseri viventi.
Analizzando il testo del Libro della Genesi siamo, in certo senso, testimoni di come l'uomo "si distingue" di fronte a Dio- Jahvè da tutto il mondo degli esseri viventi (animalia) col primo atto di autocoscienza, e di come pertanto si riveli a se stesso ed insieme si affermi nel mondo visibile come "persona". Cfr. Giovanni Paolo II, L'amore umano nel piano divino, LEV Città del Vaticano, 1980 p. 24-25.

4) Cfr. Karol Wojtyla, Person: Subjekt und Gemeinschaft, (Persona: soggetto e comunità) in : Karol Kardinal Wojtyla,Andrzej Szostek, Tadeusz Stycen', Der Streit um den Menschen. Personaler Anspruch des sittlichen, Kevelaer 1979, "Ich-Du" : die zwischenpersonale Dimension der Gemeinschaft, p. 41-48/ pol. Karol Kardynal Wojtyla, Osoba: podmiot i wspòlnota, in Roczniki Filozoficzne - Etyka 24/1976/ fasc. 2.

5) Ibidem, p. 46-47.

6) Ibidem, p. 32-34.

7) Ibidem, p. 35.

8) T. Styczén, Sumienie: zródlo wolnosci czy zniewolenia? "Zeszyty Naukowe KUL" 22/1979/ fasc. 1-3, p. 87-97.

9) T. Styczèn, Autorytet religijny a wiara osobista i autonomia sumienia. "Zeszyty naukowe KUL" 2°/1977 fasc.3-4 / tedesco, Personaler Glaube im Spannungsfeld von religiöser Autorität und Gewissensautonomie, in: J.Piegsa - H. Zeimentz / ed. / Person im Kontext des Sittlichen. Düsseldorf Patmos Verlag 1979, p. 28-64, in part. III Das Gewissen: Korrelation von Akt und Sollensanspruch setzendem Gegenstand, p. 45-55.

10) Karol Wojtyla, Person..., p. 34/ "In ihrem Tat-vollzug verwirklich die Person sich selbst, wenn ihre Tat "gut" ist, d.h., im Einklang mit Gewissen geschieht / fügen wir hinzu: mit gutem oder auch rechtem Gewissen. Durch eine solche Tat "werdw" und "bin" ich selbst gut, gut als Mensch. Der sittliche Wert reicht in die Tiefe der metaphysichen Struktur des Suppositum Humanum. Den Genensatz dazu stellt eine Tat. dar, die mit ich schlecht als Mensch. In diesem Fall bringt mir der Tat-vollzug nicht die Verwirklichung meiner selbst. Hier geschieht eher eine Nicht-verwirklichung" / oder "Ent-wirklichung" / meiner selbst".

11) Ibidem, p. 34-35.

12) Cfr. M. Buber, Schuld und Schuldbewusstsein / pol. Wina i poczucie Winy, "Znak" 19/ 1967/ p. 3-26.

13) Anche Dio quando ha cretao l'uomo disse: bene! bene-dixit / Gen. 1,4.

14) Cfr. J. Pieper. Über die Liebe, p. 47.

15) Cfr. Giovanni Paolo II, L'amore umano... pp. 61-67 / L'uomo nella dimensione dell'dono" /.