Jean - Luc Marion

L'INTENZIONALITA' DELL'AMORE
(traduzione dal francese di A. Dell'Asta)

 

L'amore, viviamo come se sapessimo di che si tratta! Tuttavia, appena ci accingiamo a darne una definizione, o ci accostiamo ad esso attraverso dei concetti, ecco che subito l'amore si allontana da noi. Ne deduciamo che l'amore non può essere rigorosamente compreso, che esso si sottrae ad ogni intelligibilità, che ogni sforzo per tematizzarlo non è altro che sofistica o indebita astrazione. L'inevitabile conseguenza di questo atteggiamento è ovvia: noi possiamo dare dell'amore solo una interpretazione, o meglio una non-interpretazione, del tutto soggettiva, anzi sentimentale. Ne consegue che l'arbitrio individuale diventa la sola legge dell'amore e che esso naufraga in una intollerabile quanto inevitabile anarchia.

Noi amiamo arbitrariamente, o meglio, siamo convinti che questo arbitrio meriti ancora di essere chiamato amore. Ne consegue anche che diventa così delicatissimo, per non dire impossibile, sapere cosa abbiano a che fare con l'amore le concezioni cristiane. Ad esempio, che significa la parabola del buon samaritano o la nozione di Dio "ricco di misericordia" nel quadro di questa assimilazione dell'amore all'arbitrio inintelligibile? O bisogna ridurre la misericordia cristiana ad un semplice caso particolare dello slancio soggettivo e irrazionale dell'individuo, o bisogna isolarla come una disposizione eccezionale, estranea all'esperienza comune. Nei due casi, le parole di Cristo sono drammaticamente discreditate. In questi giorni i nostri sforzi si concentreranno (viser*) proprio su questo discredito, per evitarlo. Ma è chiaro che per giungere a questo dobbiamo cercare di superare la comune interpretazione dell'amore, che, previamente, profana la misericordia e la carità.

Questo superamento implica un chiarimento concettuale, dunque una premessa filosofica, forse strettamente negativa, alla meditazione teologica che la seguirà. Noi ci diamo una meta: determinare, anche se in modo sommario, un concetto d'amore che, di primo acchito, non vieti l'accesso alla misericordia. Noi ci fissiamo un campo filosofico di analisi, la nozione fenomenologica dell'intenzionalità.

E' noto che per Husserl, "il carattere fondamentale dell'intenzionalità" consiste, per la coscienza dell'uomo, nella "proprietà di essere coscienza di qualche cosa" (1) . Noi siamo dotati di coscienza solo grazie a questa proprietà, infinitamente paradossale, se ci si pensa, secondo cui non solo noi siamo coscienti, ma siamo coscienti di altro da noi.

Un fatto è constatare che la mia coscienza è sempre colpita da sensazioni, concetti, volizioni, ecc. Un latro fatto, ancora più notevole, è constatare che questi stati di coscienza, chiamati da Husserl "vissuti di coscienza" (Erlebnisse), non riguardano solo e innanzitutto la mia coscienza, ma pur rimanendo ad essa immanenti e per così dire coestensivi, riguardano oggetti trascendenti e esteriori ad essa. I vissuti, che costituiscono la trama della mia coscienza. Così, ascoltandomi, voi provate dei vissuti di coscienza (suoni, fatica ad ascoltare, distrazioni, ecc.); tuttavia questi vissuti vi rinviano a degli oggetti intenzionali che trascendono la vostra coscienza(il significato di quello che dico, la nozione stessa di intezionalità che riepilogo qui, o molte altre nozioni che mobilitano la vostra attenzione, o ancora altre persone, ecc.). Noi pensiamo solo intenzionalmente, perché pensare esige che si riducano i vissuti della nostra coscienza all'oggetto intenzionale altro dalla mia coscienza.

La coscienza è coscienza di qualche cosa - ciò vuol dire che essa non è innanzitutto coscienza di se stessa, ma innanzitutto cosciente di altro da sé che essa è sempre al di fuori di sé - per così dire alienata.

La mia domanda è ormai molto chiara: l'intenzionalità così abbozzata non fornisce forse lo schema appropriato per una comprensione concettuale dell'amore, che lo sottrae all'interpretazione comune? Ciò che la fenomenologia afferma della coscienza in generale non si applica più esattamente all'amore in particolare, che offrirebbe il caso privilegiato di un vissuto intenzionale della coscienza, del tutto "alienata", in vista di un oggetto intenzionale, l'altro se stesso che io amo?

E in questo modo, la strada non si aprirebbe direttamente verso l'intelligenza della misericordia? Proviamo allora.

I.

L'amore indiscutibilmente dipende dagli stati di coscienza. Sotto la forma della passione amorosa, esso offre persino il più intenso di tutti i vissuti della coscienza. Se la formula "innamorarsi" non offre alcun senso preciso, essa però designa, sebbene approssimativamente, quello stato della coscienza che Fedra, davanti a Ippolito, stigmatizza definitivamente:

"Lo vidi, arrossii e impallidii alla sua vista;

Uno smarrimento si levò nella mia anima sperduta;

I miei occhi non vedevano più, io non potevo parlare;

Sentivo tutto il mio corpo e intirizzire e bruciare:

Riconobbi Venere e le sue temibili fiamme" (2).

Per Fedra, amore Ippolito significa provare alcuni vissuti di coscienza, ad essa immanenti; essi lo sono tanto da permettere a Fedra di rivelarli a colui che ella ama attribuendoli, con uno stratagemma amoroso, a colui, che dovrebbe amare: Teseo. Amare Ippolito si confonde a tal punto con i vissuti di Fedra e così a poco con la singolarità effettiva del personaggio Ippolito, che Fedra può, sotto l'impulso di questo sedicente amore, accusare Ippolito davanti a Teseo e dunque condannarlo a morte. Ciò che Fedra ama non è Ippolito, ma l'insieme dei vissuti che ella prova sotto il nome di Ippolito e che d'altro canto interpreta lucidamente con l'effetto in lei non dell'Ippolito reale, ma della vendetta divina (Venere). Di modo che non vi sia alcuna contraddizione nell'odiare lo stesso amore che si percepisce nella passione: questo amore non consiste in una certa persona, ma proprio nell'insieme dei miei vissuti di coscienza. Non si deve opporre a questo approccio il carattere eccezionale della passione amorosa.

Ogni altro amore riproduce questo carattere: amare significa sempre provare dei vissuti di coscienza; che si tratti di benevolenza, di amicizia, di sollecitudine versi i propri cari, figli o genitori che siano, io amo solo attraverso dei vissuti della mia coscienza; anche se compio un dovere d'altruismo senza alcuna emozione sensibile, questa stessa assenza di emozione già costituisce un vissuto della mia coscienza. - E non si deve neppure svigorire questa analisi, notando che qui l'amore non fa altro che riprodurre il principio universale di ogni conoscenza - che, evidentemente, deve passare attraverso dei vissuti della mia coscienza: tutto ciò che percepisco e comprendo, lo provo e innanzitutto ed in ultima analisi nella mia coscienza, e non fuori di essa; o, per parlare come Descartes: "si sa già abbastanza che è l'anima a sentire, e non il corpo" (3).

L'amore infatti differisce di gran lunga da ogni percezione; la percezione riguarda solo cose e oggetti, che io posso, senza contraddizione per loro, ricostruire o costituire in me attraverso di me; essi possono, senza contraddizione, pensarsi come miei oggetti; anzi forse essi lo esigono per principio. Ma con l'amore non si tratta né di oggetto né di appropriazione; si tratta, al contrario, dell'altro come altro uomo, irriducibilmente distinto e autonomo; se, per assurdo, me ne dovessi impossessare, dovrei innanzitutto ridurlo al rango di schiavo, di oggetto animale, dunque dovrei perderlo come altro. Ciò che definisce la percezione dell'oggetto - cioè la sua costituzione a partire dai miei vissuti di coscienza -, è anche ciò che vieta l'amore, il quale dovrebbe, ipoteticamente, farmi trascendere i miei vissuti e la mia coscienza per accedere alla pura alterità. Da qui l'infernale paradosso, che tutti gli amori infelici del mondo soffrono universalmente come loro fatalità definitiva: quando io amo, ciò che sento dell'altro, dipende, infine, realmente dalla mia coscienza; ciò che chiamo l'amore di un altro si basa solo su certi vissuti della mia coscienza, inesplicabilmente provocati, nella migliore delle ipotesi, da una causa accidentale che io chiamo l'altro e che in realtà non è tale.

L'amore appare come una illusione ottica della mia coscienza che non sperimenta altro che se stessa.

Verifichiamolo rapidamente. Ciò che si può chiamare l'autismo dell'amore si evidenzia con un paradosso già formulato da Pascal (4): dico di amare quella tale persona; ma io l'amo in quanto la sento nei miei vissuti di coscienza come dotata di bellezza, di lealtà, d'intelligenza, di ricchezza, di potere, d'affetto per me; se alcuni o tutti questi vissuti sparissero, potrei essere sicuro di amare ancora questa persona? Supponiamo che si verifichi la migliore delle ipotesi: io continuerò ad amare questo altro senza la sua bellezza presente, senza la sua intelligenza presente, ecc. insomma per farla breve, prescindendo dali attributi che i miei vissuti di coscienza registrano; in questo caso, che in realtà è poco verosimile, mi sarebbe sempre impossibile dire che l'amo per se stessa, perché non avrei a mia disposizione alcun vissuto di coscienza che mi permetta d'identificarla, infatti se io amo malgrado la desertica astrazione da ogni vissuto e da ogni qualità accidentale, io non saprei più chi amo; per parlare con esattezza, amerei nel vuoto.

E questo paradosso non si applica solo alla nostalgia morbosa di Madame Bovary; esso riguarda i casi limite dell'ostinazione terapeutica, in cui la tecnica offre all'amore solo ciò che è astrazione di ogni vissuto di coscienza, dunque l'astrazione dell'altro.

L'amore si identifica ai vissuti della mia coscienza, non per un eccesso del mio egoismo che potrebbe venir compensato da un po' d'altruismo, ma per una legge della mia coscienza: l'altro non può apparirmi; anche nell'amore, che attraverso dei vissuti della mia coscienza; non si tratta di morale, ma di fenomenologia. Così quando provo amore, anche sincero, per l'altro, provo innanzitutto, non l'altro, ma il mio vissuto di coscienza. Supponendo che così io amo ancora un altro da me, per lo meno lo amo in me.

L'autismo dell'amore dipende, più profondamente, da un auto-idolatria (secondo la formula di Boudelaire ma anche di Kierkegaard) (5). Rimane infatti ancora un'obiezione alla nostra analisi: se io amo l'altro in me, amo ancora l'altro reale, non amo tutti o uno qualsiasi, ma amo questo e quello, questo o quello; amo un'alterità identificabile, individualizzata e pertanto estranea a me. Anche se Swann e di Proust ha potuto amare una donna "che non era un tipo per lui", egli ha amato quella tal donna, Odette, e non un'altra, Madame Verdurin o chi per lei. Ma precisamente, perché ciò che io chiamo il mio amore investe quella tale figura? Perché questa figura suscita nella mia coscienza i vissuti più potenti, i più ricchi e i più costanti; proprio perché essa soddisfa il mio desiderio e colma la mia capacità di sentire (di provare), al punto che tutti i vissuti che provengono da altre figure o dal mondo inanimato, paragonati a lei sono subito discreditanti e diventano come indifferenti. La ragione per cui questa figura si impone a me è da ricercare dunque più in me , che non in lei, essendo essa, d'altra parte, sconosciuta: io provo in essa il massimo dei vissuti che la mia coscienza tollera e reclama; l'amore soddisfa la mia coscienza perché esso prende le sue dimensioni e si sottomette alla sua misura; davanti a ciò che io chiamo l'altro, io non vedo lui, ma l'insieme dei vissuti di cui egli non è altro che la causa occasionale e di cui la mia coscienza è la reale misura. In poche parole, se io amo questo e non un altro è perché il primo riflette con maggiore esattezza la misura del mio desiderio dei vissuti, dunque della mia coscienza. Il mio amore è mio solo nella misura in cui esso mi è meno altro di ogni altro amore, nella misura in cui esso soddisfa la mia coscienza di vissuti poiché in effetti la riflette.

Questo amore devo dunque chiamarlo il mio amore, poiché esso non mi affascinerebbe come il mio idolo se, innanzitutto, non mi rinviasse, come uno specchio inosservato, l'immagine di me stesso. Se in me io amo l'altro, bisognerà dunque che io ami nel supposto altro solo l'idolo di me. L'amore amato per se stesso (poiché l'amare amabam di Agostino riguarda l'amore come vissuto di coscienza), sfocia inevitabilmente nell'amore di sé, sotto la figura fenomenologica dell'auto-idolatria.

Il mio amore equivale sempre all'amore di me. In altre parole, poiché in questo amore, io amo me, concretamente io non amo in esso che quelli che mi amano. Da ciò il giudizio di Cristo: "Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i publicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?" (Matteo 5, 46-47). Se noi restiamo nell'ambito della definizione dell'amore quale trama di vissuti della mia coscienza, riversiamo su di noi ogni amore, con una reciprocità che non fa difficoltà perché è senza esteriorità. Amore in sé, di sé, dell'altro io, amore dei "pagani", cioè di coloro che credono o pretendono di amare senza ricorrere a Cristo. Riferita alla parabola del buon samaritano, questa definizione corrisponde a quella dei briganti: essi spogliano l'altro dei suoi beni, se ne impossessano, abbandonandolo nudo e moribondo, astratto e negato, privato della sua alterità. Amare esclusivamente coloro che ci amano, o privare l'altro dei suoi beni e innanzitutto della sua alterità: in un certo senso questi due atteggiamenti si confondono nell'unico presupposto che l'amore svolge il suo ruolo nei miei vissuti di coscienza, e mi dà l'idolo perfetto di me stesso. Narcisismo o Sadismo, l'amore attrae ciò che esso ama verso la mia coscienza, come il sole attira i pianeti, come l'odio attira l'odio, necessariamente.

II.

Questo paradosso segna un'"impasse". Ma in questa "impasse", questo vicolo cieco, deriva solamente da una scelta unilaterale: abbiamo adoperato solo uno dei due termini della dottrina dell'intenzionalità: il vissuto di coscienza. E si tratta precisamente del termine che non implica l'intenzionalità come tale. L'intenzionalità non si identifica con i vissuti di coscienza, ma al contrario li identifica con ciò che essi non sono - l'oggetto intenzionale.

L'intenzionalità non ha per oggetto l'immanenza dei vissuti, bensì l'oggetto trascendente; essa mira, attraverso i vissuti, orientandoli, dilatandoli e polarizzandoli verso di lui, all'obiettivo dell'oggetto intenzionale di altro dai suoi vissuti, sia cioè intenzionale dell'oggetto in sé. Il fatto stesso che l'intenzione nella maggior parte dei casi vada al di là dei riempimenti d'intuizione, conferma che la coscienza tende di gran lunga al di là di ciò che vive, e dunque che essa tende ad un oggetto essenzialmente altro da lei.

La coscienza, attraverso e con i suoi vissuti polarizzati, diventa sempre coscienza di un altro, coscienza assetata di alterità, coscienza intrinsecamente alienata. Perciò, come l'interpretazione dell'amore a partire dall'immanenza dei vissuti alla coscienza ha messo in luce l'auto-idolatria della passione amorosa, così la sua interpretazione a partire dalla trascendenza dell'oggetto intenzionale dovrebbe condurci al pensiero della sua autentica alterità.

O, per citare Husserl: "Ciò che io mostro concordemente come altro (...), questo è già di per sé, nell'atteggiamento trascendentale, l'altro che esiste, l'alter ego, riguardato invero al di dentro dell'intenzionalità esperiente del mio ego (...) lo esperisco, conosco in me l'altro, esso si costituisce in me"(6).

Queste ultime parole già tradiscono un'ambiguità: sarebbe sempre in me e attraverso di me che l'altro si costituirebbe intenzionalmente. Altro dalla mia coscienza, ma di una alterità essa stessa costruita dalla mia coscienza e nella mia coscienza.

Questa costituzione dell'altro può, certamente, illustrare una dimensione fondamentale dell'amore: e cioè che l'amore consiste in una dimensione che l'intenzionalità apre, decentrando senza sosta l'immanenza della coscienza e dilatando, senza limite i suoi vissuti in un punto di fuga che, per definizione, è sempre al di là di ciò a cui ogni intuizione potrà pervenire. L'intenzionalità implica la sporgenza, mai riassorbita, dell'intenzione sull'intuizione, dell'oggetto a cui si tende sul riempimento, della dimensione sul suo percorso. Diventa così definitivamente chiaro che l'altro, che il mio amore pretende di amare, dovrà sempre trascendere la mia coscienza andando al di là di essa, come l'orizzonte la cui linea si allontana, retrocede, man mano che io mi avvicino ad essa. L'oggetto intenzionale non è un oggetto, eretto, a posteriori, in oggetto di una intenzione; al contrario esso è un'intenzione che suscita un obiettivo, senza farsi totalmente un oggetto. Tuttavia questa acquisizione costringe subito ad una domanda: se l'oggetto intenzionale resta un obiettivo tangenziale più che un oggetto totalmente costituito, resta pur sempre l'obiettivo del soggetto trascendentale, dell'Io costituente che la mia intenzionalità assume. Questa condizione previa per principio impone una subordinazione al suo condizionato; il fatto che l'oggetto risulti dall'intenzione non lo libera per questo dalla condizione di condizionato; il fatto che esso resti tangenzialmente sconosciuto non lo esime dal dipendere dall'intenzione in attesa di riempimento. L'intenzionalità della coscienza le sottomette come ad un Io, degli oggetti, e unicamente degli oggetti; per definizione noi cerchiamo un accesso, secondo l'amore, ad un soggetto, non ad un oggetto, per quanto esso sia lontano. L'intenzionalità apre all'oggettività degli oggetti intenzionali, ma mai direttamente ad altro soggetto: nel campo dell'intento può giocare una sola origine, una sola intenzionalità, un suo Io.

Supponendo che il mio intento intenzionale dell'altro sia seguito dall'intuizione e, dunque dal successo, per questo stesso fatto esso fallirebbe poiché l'intuizione non può riempire che una intenzione oggettuale. Ogni successo dell'intenzionalità raggiungerebbe, esclusivamente, un oggetto, dunque non riuscirebbe ad incontrare l'altro come tale. Se l'imperfezione del suo riempimento qualifica l'intenzionalità per insegnarci l'alterità in generale, il suo eventuale successo la squalifica per insegnarci la soggettività dell'altro. L'intenzionalità della coscienza l'apre certo infinitamente, ma l'apre solo all'orizzonte degli oggetti e dunque la chiude radicalmente all'incontro dell'altro soggetto, dell'altro come soggetto, dell'altro come tale.

Che cosa significa la richiesta di pensare l'altro come soggetto? Le ambiguità di questo termine spingono a rigettarlo, per determinare senza di esso il rovesciamento in questione. Se l'altro, anche nettamente teso e pienamente intenzionato, deve restare invisibile, non è perché così io non lo vedrò, ma paradossalmente, perché io lo vedrò, e perché solo un oggetto può vedersi; è l'oggetto che deve essere visto e non l'altro.

Perché l'altro non deve essere visto? Perché solo ciò a cui si tende può divenire visibile, e perché ciò che rende l'altro decisamente altro da me è che, come me, esso stesso tende a degli obiettivi. Io sono l'Io trascendentale fintanto che tendo a degli obiettivi visibili i quali, dal canto loro, né tendono a me né mi vedono.

Se un altro da me accede al ruolo irriducibile dell'Io, egli si, distinguerà proprio per l'esercizio di un intento esso stesso invisibile. L'intento non si può vedere: lo sguardo dell'altro è giustamente la sola cosa che io non possa rappresentarmi in lui come oggetto perché, restando esso stesso non oggettivabile, mira a degli oggetti a partire da quelle due cavità nel suo viso, da cui un vuoto mi contempla - le sue due pupille, che il mio sguardo non cerca, se non in quanto esso sa che lì non c'è, per la prima volta, nulla da vedere, né oggetto, né visibile, né oggettivo. Accedere all'altro non vuol dire accedere ad un nuovo oggetto, né vuol dire accedere ad un quasi-oggetto d'un nuovo tipo, ma convertire lo sguardo: non più tendere al visibile e dominarlo, ma lasciarmi contemplare da un altro intento, esso stesso invisibile.

L'altro mi diventa accessibile solo se, rinunciando ad accedervi con il mio intento, io lo lascio accedere silenziosamente e invisibilmente a me con il suo incontrollabile sguardo che tende a me. Accedere all'alterità dell'altro implica quindi la rinuncia a vederlo, per ammettere innanzitutto che gli vede ai pari di me, e chi io non potrò mai vedere né lui né come lui. In breve, l'altro non appare al termine dell'intenzionalità, ma alla sua origine - un'origine che, per la prima volta, io devo rinunciare ad esercitare.

Così l'intenzionalità, come tale, non può accedere all'intenzionalità dell'altro, né noi possiamo con essa assiomatizzare le condizioni di possibilità dell'amore.

Bisogna senz'altro attribuire a questa constatazione il fatto che la fenomenologia sia ricorsa a dei processi indiretti per accedere all'altro come tale. Così è molto significativo che Husserl, non potendo rinunciare al primato dell'intenzionalità, né rischiare di invertire l'origine, abbia tentato d'assicurare l'incontro degli altri con il sotterfugio della costituzione del mondo. L'Io come tale, non può vedere o conoscere un altro Io, come tale; ma l'uno e l'altro (e tutti gli altri) per lo meno incrociano le loro intenzionalità in oggetti approssimativamente comuni; io non posso vedere, come obiettivo di una intenzione, l'altro nella sua irriducibilità; ma posso vedere (tendere intenzionalmente) l' obiettivo, che egli vede ( a cui egli tende) e che io so che egli vede, grazie ai vissuti che questo intento provoca indirettamente nella mia coscienza. Un tale inter-incrociarsi di intenti non ne permette né l'incontro, né lo scambio, né la conversione, ma suscita, come loro opera comune, ciò che Husserl non esita a definire: "un mondo (...), come intersoggettivo, un mondo che c'è per tutti, ed i cui oggetti sono disponibili a tutti" (7).

L'intersoggettività non mi permette di amare l'altro né di vederlo, né di scorgerlo, ma solo "di costituire" intersoggettivamente il mondo oggettivo" (8). L'intersoggettività, per quanto essa sia oggettiva, mi fa accedere all'altro solo in quanto esso è il primo "non-io", irriducibilmente invisibile proprio perché parallelo compagno del mio intento. In questo senso, più noi guardiamo l'uno e l'altro nella stessa direzione (oggettività intersoggettiva del mondo), meno possiamo amarci - contrariamente al proverbio tristemente celebre. L'altro mi tocca solo come " ciò che prima era in sé estraneo" (9). Il compimento dell'intersoggettività diventando artefice del mondo avrà come non mai strettamente vietato l'amore.

La riflessione d'Emmanuel Lèvinas non soccombe a questa aporia, poiché l'intenzionalità perviene a liberarsi da ogni oggetto visibile e costituibile senza condizioni, per contemplare il nudo viso che, silenziosamente disarmato, mi contempla. Sul viso dell'altro, io leggo l'espressione che mi apre definitivamente la sola esteriorità possibile - l'infinito stesso. Ma precisamente, possiamo noi, dobbiamo amare noi l'infinito? L'infinito non si propone all'amore ma al rispetto. Rispettare l'infinito nel viso dell'altro implica che io obbedisca all'ingiunzione etica: che io non uccida l'altro, il quale, nel suo viso, non è difeso da nulla.

Il viso dell'altro, più che aprirmi al godimento della sua presenza o all singolarità della sua persona, mi pone di fronte a questo comandamento: "Non uccidere!".

L'intersoggettività diventa l'esperienza dell'esteriorità etica come tale: l'altro non deve essere né ucciso, né ridotto, né colpito, ma deve essere sostenuto come uno sguardo, o piuttosto come una responsabilità.

L'etica, in una universalità che resta vincolata a Kant, investe totalmente il viso dell'altro, di modo che, più che incontrare lui vi incontro la sua alterità stessa.

E senza alcun dubbio, è in questa alterità suggellata dall'infinito, che egli stesso può contemplarmi. Noi non ci incontriamo come un Io sdoppiato in sé, né come un Io e un tu, ma come indirettamente convocati da un Egli infinito.

Il mio amore, secondo l'intenzionalità, non ritorna certamente a me, ma non per questo conduce l'altro. L'altro si ritira dietro l'alterità intangibile, universale e forse non amabile. Io non devo amare ma devo costituire il mondo con l'altro e devo rispettare l'etica con e per l'altro. Sono io al di là dell'amore facendo così uno scarto alla singolarità personale dell'altro che tuttavia, in un certo senso, vedo mentre mi vede? Oppure, non sono ancora al di qua dell'accendervi? Riferita alla parabola del buon samaritano, questa situazione potrebbe corrispondere a quella del sacerdote che "vide e passò oltre dall'altra parte" come il levita (Luca 10, 31-32). Se invece il samaritano, dopo aver visto, restò sullo stesso lato della strada e si fermò, fu perché egli "lo vide e n'ebbe compassione" (Luca 10, 33).

Letteralmente, esplagkhnisthê, misericordia motus est, egli fu colpito dalla misericordia, e, a causa sua, si avanzò verso il suo prossimo (= Lc 7, 13 e 15, 20). "Egli si fece vicino" (Proselthôn, appropians), continua Luca: per avvicinarsi, non basta dunque trascendere l'immanenza dei vissuti di coscienza; bisognerebbe forse trascendere anche la stessa intenzionalità, o meglio convertirla. Convertire la stessa esteriorità che io esercito ancora come un modo di appropriazione del mondo e di costituzione in esso dei miei oggetti. L'intenzionalità apre certamente una esteriorità, la quale non abolisce però la prossimità a me poiché offre il quadro ultimo del mio dominio. La mia apertura mi appartiene ancora, come l'orizzonte dove il sole del mio potere non tramonta mai. Nell'ombra di quale crepuscolo debbo io entrare per poter infine amare in verità l'altro?

III.

Dunque io non posso amare né nella prossimità, poiché i vissuti della mia coscienza mi aprono solamente la mia auto-idolatria propria, né nell'esteriorità, poiché così come essa mi è proposta dalla intenzionalità, l'esteriorità mi conduce ad un oggetto intersoggettivo o ad un non-oggetto ancora non personale.

Io non amo, nell'intenzionalità, né da vicino né da lontano. Questa duplice aporia, riferita alla parabola del buon samaritano, è raffigurata dai due atteggiamenti inescusabili dei briganti, che avvicinano l'uomo fino al punto di impossessarsene e di negarlo, e del sacerdote e del levita, i quali si allontanano volontariamente dall'uomo che essi vedono, fino al punto di abbandonarlo, di ignorarlo.

Se l'analisi filosofica non ci offre una terza vai, tra la prossimità omicida e l'esteriorità indifferente, la parabola teologica, invece, introduce una terza figura, quella del Samaritano. Come si comporta il Samaritano per esercitare misericordia (Luca 10,37)? Prima di tutto limitiamo ad esaminare i suoi gesti elementari: prima cammina, vede e s'avvicina - prossimità; questa prossimità culmina nella comunione quando egli cura il ferito, lo carica sopra "il suo proprio giumento" (Luca 10, 34), paga l'albergatore e si impegna a pagare le altre spese future. Ma ciò non toglie che alla fine il samaritano si allontani: trasporta il ferito lontano dal luogo dell'incontro, lo affida ad una terza persona, e parte per andare lontano - esteriorità; questa esteriorità non contraddice la prossimità, poiché il samaritano lascia l'albergatore per ritornarvi; le due dimensioni s'incontrano nella promessa finale: vicino, il samaritano annuncia la sua partenza e promette, cioè si impegna a ritornare per pagare, nella promessa, la prossimità esige che il ferito (e l'albergatore) credano al suo ritorno, e dunque che essi percepiscano l'allontanamento non come la negazione dell'incontro, ma come la sua continuazione e la sua conferma; il samaritano esercita la misericordia e, nello stesso tempo, domanda la fede per capire che la prossimità non si oppone alla esteriorità, ma che l'una e l'altra si fortificano.

L'atteggiamento del samaritano supera quello dei briganti come quello dei passanti, perché esso rifiuta di scegliere tra la prossimità (che conduce all'appropriazione omicida) e l'esteriorità (che conduce all'abbandono omicida), per scegliere la misericordia che, senza contraddizioni, passa dalla prossimità all'esteriorità. Ma la misericordia può fare questo solo domandando la fede in questo paradosso: colui che viene, parte; colui che parte, viene.

Dobbiamo meditare l'insegnamento della parabola per riconoscergli tutta la sua portata concettuale nel nostro dibattito: come concepire l'amore? La duplice aporia cui ci ha condotto l'intenzionalità riposa su di un unico presupposto: l'amore si comprende a partire dall'Io che tende intenzionalmente ad un oggetto; l'altro potrà diventare accessibile con e all'amore, solo in un secondo tempo, raggiunto dopo il primo, precisamente costituito dall'intenzionalità dell'Io. Dopo l'Io, l'eventuale altro; dopo la prossimità dell'immanenza, l'alterità trascendente dell'esteriorità. L'intenzionalità non contraddice il primato della prossimità a sé dell'Io, ma lo presuppone; se è vero che la coscienza è innanzitutto coscienza di altro da sé prima di essere coscienza di sé, essa tuttavia si scopre esteriorizzata solo perché è coscienza. Anche se si stigmatizza (come lo fa Sartre) la trascendenza dell'ego, non si può eliminare l'anteriorità della coscienza stessa, dunque della prossimità sull'esteriorità. Ma se l'esteriorità precedesse la prossimità? O piuttosto, bisogna rinunciare alla coppia prossimità/esteriorità, perché essa si costruisce sempre a partire da uno dei poli dell'eventuale relazione e presuppone le espressioni: "vicino a...", "esteriore a...", dunque implica la priorità di un polo sull'altro; fenomenologicamente, l'esteriorità non mette in causa l'Io, ma lo conferma. Noi dobbiamo dunque tentare di pensare un concetto che riprenda, per così dire alla pari, la prossimità e l'esteriorità, e che, per giungere a ciò, contesti la priorità dell'Io abbordandolo per così dire, dal punto di vista che esso non può né vedere né verificare, neppure come esteriore a sé - dal punto di vista di un anteriorità che destabilizza l'Io. Questo concetto ho proposto di chiamarlo distanza (10). La distanza apre lo scarto originale, che non procede dall'Io, ma che lo precede radicalmente, e dunque lo decentra da ogni priorità.

L'alterità, ripresa nella distanza non si costituisce più dopo l'edificazione dell'Io; bensì è l'Io che si costituisce secondo lei, e può tendere al primato solo pagando il prezzo di una astrazione dalla distanza originaria. L'altro non viene a colmare come uno spettacolo visibile lo sguardo originale dell'Io.

Originariamente, non si tratta di uno sguardo invisibile che si volge verso uno spettacolo visibile, ma di due sguardi invisibili che si incrociano e si scambiano. Vedere l'altro non ha nessun senso, poiché l'altro, mantenuto come tale, si caratterizza come uno sguardo originario di sé stesso, dunque invisibile; solo l'oggetto è visibile, lo sguardo resta, per definizione, invisibile; di conseguenza, a meno di ucciderlo e di renderlo così cadavere visibile ma con gli occhi ciechi, l'altro mi sarà invisibile per sempre. Accedere all'alterità significa dunque non vederlo, ma riceverlo come tale - cioè come invisibile.

La distanza tra l'altro e me non deve essere abolita o polarizzata, bensì deve essere percorsa: mi consegno, nudo, allo sguardo invisibile dell'altro che non diventerà mai per me un oggetto, ma che, invisibile, mi libererà sempre dall'auto-idolatria.

Percorrere la distanza vuol dunque dire: risalire dalla visibilità oggettiva che nasconde l'altro come tale, alla invisibilità del suo sguardo che mi contempla a viso scoperto. E l'altro accede a me non rendendomi visibile sotto un intento oggettivante (lo sguardo secondo il senso di Sartre), ma lasciandosi contemplare anch'egli a viso scoperto dal mio sguardo ugualmente invisibile. La distanza salva l'alterità in me come nell'altro, preservandoci, l'uno dall'altro, dalla visibilità oggettiva e serbandoci all'invisibilità di sguardi che, ogni volta, un viso scoperto accoglie. Incontrare l'altro non consiste né nel vederlo (come oggetto), né nel vedere se stesso nell'atto di incontrarlo (auto-idolatria), bensì consiste nel vedersi visto da lui, nel lasciarsi contemplare.

La distanza, anche così esplicitata, può essere messa in pratica effettivamente? Ancora: supponendo che noi raggiungiamo qui una posizione teorica corretta, questa posizione può offrire un atteggiamento pratico vivibile? La distanza diventa possibile solo a prezzo di una conversione dello sguardo, che rinuncia all'auto-idolatria, e alla visibilità di un oggetto. Questa conversione fenomenologica implica una disappropriazione dell'Io trascendentale (e anche del Dasein), la quale, senza dubbio, supera la portata della fenomenologia. A fortiori se è vero che la distanza concerne l'altro per eccellenza, Dio, è anche vero che essa esige una conversione dello sguardo tanto profondo da dover diventare per ciò stesso teologica. A questo stadio, noi possiamo dunque intendere seriamente la raccomandazione di Giovanni Paolo II: "coloro che in tal modo arrivano a conoscere Dio, che in tal modo lo 'vedono', non possono vivere altrimenti che convertendosi continuamente a Lui. Vivono, dunque, in statu conversionis ed è questo stato che traccia la più profonda componente del pellegrinaggio di ogni uomo sulla terra in status viatoris" (11).

La conversione non si esaurisce in un atto (anche ripetuto), ma definisce un stato - lo stato in cui diventa possibile "vedere"; le virgolette stanno ad indicare che non si tratta della visione comune, ma di una visione che, tornando indietro, si distoglie da sé così come dai suoi oggetti, per lasciarsi contemplare dall'invisibile, e, in questo senso soltanto, per così dire, " vedere" l'invisibile. La conversione educa a vedere l'altro amandolo più di sé, dunque ad amare per accedere all'altro. Dobbiamo, brevemente, indicare le forme elementari della conversione all'altro, dunque a Dio, o, ciò che è lo stesso, la conversione dell'intenzionalità all'amore.

Prima condizione formale della conversione: la fede. Nella distanza io non vedo mai l'altro poiché, se lo vedessi, egli non sarebbe più l'altro, ma il mio idolo o il mio oggetto. Io non posso dunque mai pretendere di fondare il mio slancio verso di lui sulla certezza - a questo titolo detta certezza oggettiva - di una permanenza visibile e disponibile. L'altro, se è amato nella distanza, non può mai essere posseduto in essa, né deve esserlo. Io mi espongo dunque allo sguardo invisibile dell'altro solo allo scoperto, con la certezza che non potrò mai aver la certezza che il suo sguardo invisibile mi ami. Espormi a viso scoperto davanti all'altro, implica, in ultima analisi, che io non saprò mai se egli sta per baciare la mia faccia, o se invece sta per schernirla o oltraggiarla; se del resto il rischio dell'oltraggio non mi minacciasse, la gioia di scoprirsi amato non potrebbe affiorare come una grazia; la gratuità dell'amore - perché l'amore è gratuito oppure non è amore - implica che io ami senza riserva, e che io mi esponga ad esso, e dunque anche al suo contrario. Amare significa rischiare di non essere amato. Il volto del Cristo non riceve spunti o baci mentitori fintanto che esso non si denuda per darsi allo sguardo degli uomini e del Padre; dagli uomini, riceve la morte, e dal Padre, la resurrezione perché a tutti, nello stesso modo, egli offre uno sguardo perfettamente esposto. Sul volto esposto di Cristo si leggono i volti di tutti gli amanti e di tutti gli amanti oltraggiati o glorificati. La certezza dell'incertezza non può sostenersi che con la fede.

La fedeltà negli amori umani ne attesta da sola, non soltanto la durata, ma innanzitutto l'identificazione come amori (e non come pulsioni). Questa fedeltà dipende, di fatto, dalla fede, nel senso più direttamente teologale di questa virtù. Amare l'altro nella distanza ha come condizione formale e ineludibile la fede.

Ciò che Gabriel Marcel chiamava: "la connessione indissolubile che unisce fede e carità" (12) riguarda qualsiasi tipo di carità, e dunque anche l'amore erotico, l'amicizia, o la comunità familiare.

Credere nell'altro vuol dire: credere che gli contempla il mio viso anch'egli a viso scoperto, non per uccidermi, ma per amarmi; dunque credere che la logica dell'amore trionferà in lui, così come io mi adopero a farla trionfare in me. E se la fede manca, l'amore sparisce, riappaiono l'idolatria e l'oggettività, la morte dunque uccide l'uno o l'altro, cioè l'uno e l'altro.

Seconda condizione formale della conversione: il dovere. La richiesta precedente della fede non condanna forse l'amore, nel percorso della distanza, all'insicurezza permanente e dunque all'atroce sofferenza della gelosia - al sospetto d'amare senza essere riamato, di lasciarsi contemplare per subire l'oltraggio? Ma la difficoltà può capovolgersi: io percepisco la paura di amare senza essere amato, solo quando, per amare, considero la reciprocità un presupposto indispensabile, dunque se io mi arrogo il diritto di amare o di non amare a seconda dei casi; contrariamente a Dio, io mi autorizzo a fare dei personalismi, ad ammettere delle distinzioni. Per sottrarmi a questa "impasse", devo ricorrere al geniale paradosso formulato da Kierkegaard: "Solo quando l'amore è dovere, e solo in quel caso, esso è eternamente liberato, in una indipendenza piena di felicità (...) L'amore che ha subito il cambiamento dell'eternità diventando dovere e che ama perché esso deve amare, è l'amore indipendente"(13). L'amore diventa indipendente quando esso non è condizionato dalle egoistiche esigenze di reciprocità; il che può avvenire solo se esso si appoggia su una esigenza più radicale: amare non ha alcun presupposto, poiché si tratta di un dovere; qualsiasi cosa succeda, io devo amare; amare senza disposizione, senza inclinazione, senza risparmio - dunque senza paura, limite, perdita, in perfetta libertà. Ma chi posso io amare così? Non si tratta, ancora una volta, di regredire all'astrazione dell'infinito, dell'etica, della legge morale, ecc? Non ci si espone, amando per dovere, a non amare, in effetti, nessuno? Al contrario, risponde Kierkegaard: "E' l'amore cristiano che scopre e sa che il prossimo esiste e, ciò che è lo stesso, che ciascuno è il prossimo. Se l'amore fosse disgiunto dal dovere non avremmo il concetto di prossimo; solo l'amore del prossimo estirpa l'elemento egoistico della predilezione e salvaguardia l'uguaglianza del fattore eterno"(14). A ciò Kierkegaard aggiunge a mò di esempio, precisamente l'atteggiamento del buon samaritano della parabola: amando senza condizioni e per dovere eterno, può scoprire nell'uomo ferito il suo prossimo e, con il suo proprio sguardo, incrocia quello dell'altro.

Il prossimo appare non perché noi per primi ci avviciniamo ad esso, ma perché la distanza, prima, eterna, costrittiva, ci offre a lui. Bisogna d'altronde notare uno strano capovolgimento della parabola: all'inizio il dottore della legge domanda a Cristo di spiegargli chi è il suo prossimo che egli suppone debba venire prima di lui (Luca 10,29); ora, alla fine della parabola, Cristo gli addita come prossimo non l'uomo ferito, ma il buon samaritano: "Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? Questi rispose: chi ha avuto compassione di lui" (Luca 10,36-37). L'uno e l'altro diventano il prossimo, in un percorso reciproco della distanza, che solo la misericordia incondizionata rende possibile.

Terza condizione formale della conversione: la misericordia. Bisogna qui rendersi conto sino in fondo che per misericordia non intendiamo un modo secondario e derivato dall'amore, un modo che sopravverrebbe solo in un secondo tempo nel percorso della distanza. La misericordia costituisce, al contrario, il primo modo possibile di intervento dell'amore nella mia esperienza personale reale. Quando si tratta dell'amore, infatti, la prima e più fondamentale cosa di cui ho esperienza è la sua assenza radicale: l'amore viene colto come l'assente per eccellenza. O non amo o non sono amato. In entrambi i casi, l'amore brilla per la sua assenza; è sovrabbondante, come un'ossessione, ma appunto perché non c'è. L'amore "non è uno dei nostri". La nostra vita ci conferma, ogni giorno, che gli altri non riescono né ad amarmi, né ad amarsi tra di loro, che io stesso non posso amare gli altri come lo vorrei, e che del resto non lo voglio veramente. In questo senso, tra di noi, in mezzo agli uomini, l'amore non è a casa sua. E neppure noi, d'altro canto, siamo a casa sua. Il nostro mondo resta estraneo all'amore, perché non lo vuole veramente e perché, ad essere esatti, non se lo merita neppure. Quindi, se non posso mai fare l'esperienza dell'amore ricevendolo, o, ciò che è la stessa cosa, per lo meno in un certo senso, se posso riuscire a performare l'amore solo offrendolo, è evidente che la sua apparizione eccede le possibilità di questo mondo, che è il nostro, e della sua economia. E' necessario che l'amore per primo mi venga incontro, ci venga incontro, perché io, noi, siamo assolutamente incapaci di farlo nascere. Dal che consegue innanzitutto che l'amore si presenterà come un dono, dono dell'altro, quale che esso sia, e che io comunque non posso né prevedere, né meritare, né ancor meno pretendere, tanto la durezza del mio cuore me ne ha reso da tempo indegno. Ma se l'amore può venirmi incontro solo come un dono radicalmente estraneo, con la gratuità del puro miracolo, la colpa è soltanto mia. In verità, infatti, io ho già rifiutato l'amore che mi manca (perché nel caso contrario, o non mi mancherebbe, se si tratta dell'amore, oppure non si tratterebbe amore e quindi non mi mancherebbe neppure in questo caso). Così il dono può raggiungermi solo se mi perdona innanzitutto di averlo o respinto o ignorato o semplicemente di non averlo saputo chiedere abbastanza. Se l'amore deve venire a me da qualcun altro, sarà per me un dono. Ma se deve essere per me un dono, dovrà anche e innanzitutto venirmi incontro come un perdono. L'amore quindi mi viene incontro come misericordia. Ciò che Giovanni Paolo II dice con estrema chiarezza: "Dio che è amore non può rivelarsi altrimenti se non come misericordia. Questa corrisponde non soltanto alla più profonda verità di quell'amore che è Dio, ma anche a tutta l'interiore verità dell'uomo e del mondo" (15). Le prove del carattere fondamentalmente misericordioso dell'amore non sono certo scarse. Se, umanamente parlando, chi mi ama è un essere umano (una donna, un amico), è evidente che riceverò questo dono come una "divina sorpresa" che nulla, da parte mia (salvo la fatuità), poteva meritare, provocare o prevedere. Chi mi ama, infatti, deve cominciare ad amarmi per primo, il che significa che deve perdonarmi di averlo amato così poco, o così tardi -- "... pulchritudinem, quam tardius amavi!". O ancora: "perché ci siamo incontrati così tardi!". Quando si tratta dell'amore di Dio, il suo carattere di misericordia si impone con ancor maggiore evidenza. Non solo Dio ci ha amati "sino alla fine" (Giovanni 13, 1), ma ci ha anche amati" per primo" ( 1 Giovanni 4, 19). Il fatto che ci abbia amati per primo significa evidentemente che ci ha amati quando eravamo indegni di questo amore o addirittura degni d'odio - repellenti come gli scarti di questo mondo: in breve, perdonandoci i nostri peccati ormai divenuti imperdonabili. Ma soprattutto, il fatto che Dio ci abbia amati per primo significa che ci ha amati quando eravamo delle non-esistenze (cfr. I Corinti 1, 28), nel senso più stretto del termine, quando cioè non eravamo ancora. La creazione significa che l'amore di Dio ha preceduto ogni cosa, poiché ha amato anche ciò che non poteva essere amato per il semplice fatto che ancora non esisteva. Ci ha amati perché fossimo e non perché eravamo, perché fossimo degni d'amore e non perché eravamo degni d'amore. L'amore, con la creazione, appunto perché ha preferito, in una misericordia senza limiti e senza nome, che ente fosse, che fosse quell'ente che prima di essere amato non era. Va da sé che la risurrezione finale dei morti (e degli ultimi sopravvissuti) ha senso solo se la misericordia trascende in ogni caso l'ente nel suo essere. Se l'amore dell'altro e di Dio per me, sempre e per definizione, mi precede come un perdono misericordioso, allora potrò a mia volta arrischiarmi a percorrere la distanza dell'amore solo se amerò per primo, se diventerò a mia volta misericordioso.

In tal modo non darò per ricevere qualcosa in cambio (do ut des), ma darò per amore dell'altro, per amore dell'amore.

Noi non concepiamo né pratichiamo l'amore per mezzo dell'applicazione dell'intenzionalità della coscienza, ma perché ammettiamo di trovarci sempre già preceduti, prima che dai vissuti e dalle intenzioni della coscienza, dalla distanza da prossimo a prossimo. Per pervenire a ciò dobbiamo rinunciare a vedere l'altro come nostro oggetto o nostro idolo, simo a lasciarci contemplare dal suo sguardo invisibile; vedendo così che siamo visti da lui, invertiamo l'intenzionalità e riorientiamo la coscienza verso la sua intenzionalità primaria. Questa esteriorità non contraddice la prossimità, poiché ne apre la dimensione per sovrapporsi nell'unica distanza. Per poter effettivamente percorrere il corso della distanza, dobbiamo rivolgerci alla fede, all'obbligo del dovere ed alla misericordia. Il che significa che noi accendiamo alla semplice conoscenza dell'altro solo amandolo e senza vederlo. O meglio, solo l'amore ce lo fa vedere per quello che è veramente, cioè per quello che è sotto lo sguardo invisibile di Dio.

NOTE

*) L'autore adopera spesso il verbo viser e il sostantivo la visée. Entrambe queste parole sono state rese in italiano con il verbo tendere e il sostantivo intento, quando non si è preferito tradurre il verbo viser con mirare, o come in questo caso "si concentreranno". Questa traduzione è però insufficiente a rendere il vero significato. Viser significa piuttosto, in questo contesto, volgersi verso qualcosa aspirando a raggiungerla o tendere di gran lunga al di là di qualche cosa verso un'altra cosa. Per ovvi motivi era impossibile ricorrere ogni volta a queste perifrasi.

1) HUSSERL, Ideen I, Husserliana, Vol. 3, § 36.

2) RACINE, Fedra, I, 3, v. 273-277

3) DESCARTES, Dioptrique IV, Oeuvres Philosophiques, ediz. A. - T., Vol. VI, p. 106.

4) PASCAL, Pensieri, ediz. L. Brunschvicg, parag. 32.

5) BAUDELAIRE, "Auto-idolâtrie, Fusée XI, in Opere Complete "Pléiade", Parigi, 1966, p. 1256, e KIERKEGAARD, Le opere dell'amore, SV, seconda ediz., vol.IX, p. 72.

6) HUSSERL, Meditazioni cartesiane, § 62, ediz. Bompiani 1970, pp. 165-166.

7) Ibid., § 43, p. 102.

8) Ibid., § 49, p. 118.

9) Ibid., § 49, p. 118.

10) L'idolo e la distanza, Milano, 1979 [L'idole et la distance, Paris, 1977].

11) GIOVANNI PAOLO II, Dives in Misericordia, n. 13.

12) MARCEL, Journal Métaphysique, nona edizione, Parigi 1935, p. 275.

13) KIERKEGAARD, op. cit., SV, pp. 50 e 51, traduzione francese, p. 36.

14) Ibid., SV, p. 57, traduzione francese, p. 42. Il testo di Luca 10, 36 è direttamente commentato in questo senso da SV, p. 32, traduzione francese.

15) GIOVANNI PAOLO II, Dives in Misericordia, n. 13.