Adriano Bausola

"MA CHI E' IL MIO PROSSIMO? UNA DOMANDA AL NOSTRO VIVERE QUOTIDIANO E ALLA NOSTRA CULTURA"

 

La relazione avrà due parti: una prima di carattere, in senso molto largo sociologico, e una seconda di carattere più filosofico.

Vorrei aprire leggendo qualche riga da un libro di un autore sconosciuto, credo, ai più: Matteo Mureddu; il titolo del libro Il Quirinale del Re (1). Voi presto capirete perché faccio questa lettura, che potrà sembrare a prima vista un pò bizzarra, in questa sede.

Il libro si apre con un episodio, che si riferisce alla corte del re Vittorio Emanuele III.

"Maestà in questa casa è impossibile lavorare. Comandano i prepotenti... ieri mentre sbrigavo le faccende in frutteria, sono stato ancora una volta offeso... Mi è montato il sangue alla testa e ho reagito. Vostra Maestà deve sapere". Questo discorso concitato è rivolto a Sua Maestà Elena di Savoia Petrovich Njegoch, regina d'Italia, imperatrice d'Etiopia, dal servente degli uffici di bocca di seconda classe Antonio Fantini, sullo spiazzo antistante le palazzine reali di Sant'Anna di Valdieri in quel di Cuneo...

"Colta di sorpresa, Elena è rimasta sgomenta, ha fissato intensamente coi suoi occhi morati la faccia arcigna di Fantini che conosceva a malapena e che pure aveva osato affrontarla, e dopo qualche istante gli ha volto le spalle, s'é diretta verso la palazzina accanto, seguita da Giovanna... "Dev'essere un folle! "dice sua figlia". Non v'è più disciplina né rispetto fra il personale di Casa nostra, cara Giovanna. No, non si può tollerare oltre questo stato di cose".

Alla sera, Elena riferisce al Re: "Il Re ascolta impassibile, si accentua soltanto il ticchio che gli fa tremare una mascella. Poi sussurra: "Siamo giunti al colmo". (2).

Cosa c'entra questo episodio con quello che stiamo per dire? Certo, si tratta di una situazione eccezionale in un ambiente eccezionale; ma in essa si esprime, estremizzata nella massima formalizzazione, una concezione del prossimo che è abbastanza diffusa: il prossimo, almeno una certa fascia del prossimo, è così lontano, che non esiste neppure, non deve essere riconosciuto, è semplicemente una macchina, una funzione, ...come osa parlarmi allora?

Pensate ora all'antitesi estrema di quella prima richiamata: pensate a un'altra donna, alla donna Prassede manzoniana: mentre per Elena (e non solo per lei, badate), un certo prossimo non c'è, non c'è nella sua umanità, per donna Prassede si deve invece dire: "io sono il mio prossimo; io sono io, ma sto anche al posto degli altri, (donna Prassede faceva, capiva tutto lei, decideva tutto, lei aveva le chiavi di tutti i segreti della vita, e le persone che le capitavano intorno erano così fortunate, da rischiare di diventare sfortunate, perché succhiate dalla iperattenta Prassede).

Ho preso delle situazioni estreme; e situazioni di altri tempi. Oggi, ecco, potremmo dire che la realtà concreta è più complicata, e anche più sfumata; questo è vero; ma è anche vero che se oggi ci sono pochi monarchi ormai, e se, per fortuna, ci sono nobili eccezioni (stamattina abbiamo sentito degli esempi mirabili con fratel Ettore), è pur da riconoscere che è molto frequente l'atteggiamento della Regina Elena, anche senza essere a Sant'Anna di Valdieri. Potremmo dire che oggi assistiamo, da un lato, ad un fenomeno di maggiore socializzazione (più relazioni tra gli uomini, la società è più complessa, con più servizi, con più funzioni, con più mezzi tecnici per la comunicazione e la trasmissione del pensiero, delle esperienze ecc.); insieme abbiamo anche una maggiore universalizzazione, il che vuol dire un conoscersi da un capo all'altro del mondo anche se non ci si è mai visti in faccia, e, sul piano morale (e questo è positivo) una maggiore coscienza di appartenere all'umanità proprio in quanto umanità; c'è meno spirito di classe, meno chiusura, più consapevolezza di essere tutti partecipi della comune sorte umana. Deve però essere notato che questa maggiore socializzazione-universalizzazione si accompagna paradossalmente anche con un altro fatto (e questo è meno simpatico): ci sono meno relazioni interpersonali. Potremmo dire che la tecnoscienza, cioè la tecnica che sfrutta la scienza, è insieme ciò che favorisce i due primi fenomeni, ma che provoca anche il terzo, cioè il suo "pendant" negativo.

Inoltre, c'è maggior rispetto, sembra, della libertà altrui, meno pressione sociale, specialmente nelle regioni in cui un tempo la preoccupazione sociale principale era "cosa dirà la gente", oggi, sacrosantamente, ci si preoccupa meno di sapere di cosa dirà la gente. Questo è un fatto positivo; però c'è anche indifferenza, e questo è un altro fatto, che ci dà il rovescio della medaglia, c'è indifferenza verso l'altro.

L'altro uomo è libero, e se si ammette che la libertà non ha regole - come molti oggi dicono - l'altro uomo diventa, nella sua libertà senza regole, un pericolo: sorge allora un'angoscia della libertà del prossimo (ancora una volta, un'ombra). Il risultato, per le numerose persone che partecipano di questa esperienza contemporanea, della somma di questi fenomeni (maggiore universalizzazione e socializzazione, e paura del prossimo) è che il prossimo, come è stato rilevato da Sartre, diventa funzione, lo si vuole come funzione. E questo in parte è inevitabile, perché è un prodotto di quella realtà della tecnoscienza che sembra difficile da superare; il rimedio va perciò cercato agendo sugli effetti; in parte, là dove la ragione di questa realtà è l'angoscia nei confronti del prossimo, o dove domina l'indifferenza (che tratta poi alla fine ancora il prossimo come funzione e non ha impegno per gli altri), questo è evitabile, perché nasce da un errore teorico e anche da un errore pratico: qui il rimedio deve attingere alle cause.

Cominciamo nella nostra analisi dal primo dei fenomeni che abbiamo descritto: la socializzazione crescente. Attraverso la tecnica non solo si libera l'uomo da tante pesanti fatiche, si aiutano a sopravvivere più persone, ma anche si unificano gli uomini, si favorisce la comunicazione. La tecnica però livella anche, pone diaframmi tra uomo e uomo. Darò alcuni esempi, alcuni sembreranno minimi, eppure essi concorrono con altri a descrivere una situazione come quella contemporanea: per esempio, il telefono. Certo, il telefono ravvicina gli uomini (la pubblicità alla televisione ce lo fa vedere continuamente come uno strumento che crea ottime relazioni interpersonali). In realtà, il telefono è strumento di più segnali, di più comandi, di più precetti, di più informazioni, anche; ma esso insieme separa le persone, le unifica ad un certo livello che è quello dell'informazione verbale, della comunicazione, ma sotto una sola dimensione: non è la stessa cosa parlare da uomo a uomo, a caldo, guardandosi in faccia. Una relazione come si aveva un tempo, quando se si voleva dire una cosa a una persona bisognava muoversi, andarla a cercare, andarla a visitare ecc. adesso è sostituita da un rapporto tra due astratti. C'è un momento in cui c'è un arricchimento, attraverso il telefono: si possono dire tante cose, ma attraverso l'astrazione dalla persona concreta, che non si vede, che non si sente fisicamente. Si dirà: "sei un materialista, vuoi il sensibile"; rispondo che l'uomo è anche questo, è anche sensibilità, non è certamente solo questo, ma è anche questo. Il telefono nello stesso tempo aumenta la socializzazione e impoverisce il rapporto personale tra i soggetti.

Altro esempio: il supermarket. Qui addirittura si arriva fino a punti esasperati, non soltanto a stabilire un rapporto minimo con la persona: la commessa non c'è, praticamente si tende ad eliminarla, si vuole il rapporto con gli oggetti senza più la mediazione della persona, (e la tecnologia, sia detto "en passant", tende a ridurre a zero persino il rapporto con la macchina, in quanto realtà che chieda un'intelligenza e una consapevolezza, di iniziativa umana: si tende semplicemente al controllo, alla custodia, ma non l'intervento in qualche modo umano nei confronti della macchina). Un fenomeno più antico, e questo lo accenno appena perché non è di oggi soltanto, quello della moneta (l'aveva già rilevato un filosofo come Simmel, e lo hanno ripreso altri sociologi moderni come ad esempio Thomson), è un fattore di astrazione, perché toglie il legame con i prodotti dello scambio, legame diretto s'intende, alla storia della persona. Con la moneta ci si abitua a ragionare su un'entità astratta. Proprio pochi giorni fa ho ascoltato ad un convegno dell'Unesco a Ottawa un rilievo interessante di un filosofo e sociologo canadese, Audet: sarebbe bello, ha detto Audet, studiare la strategia dello sguardo su un marciapiede di una città, quella serie continua di microattenzioni dei passanti l'uno all'altro, seguite subito da microrotture; la relazione della civiltà urbana, potremmo dire, è un gioco di frustrazioni continue, di relazioni che si aprono e che si interrompono immediatamente, è un oscillare continuo.

Sono piccoli segni, che ho scelto tra i tanti, per dare l'idea di come questa nostra società tenda sempre più ad aumentare la socializzazione, ma a ridurre le relazioni interpersonali. Certo, sembra difficile rifiutare in blocco la tecnoscienza e con essa il vivere contemporaneo su di essa fondato.

Si può anche dire che non tutti gli scopi dei tecnologi, tutte le mire consumistiche siano condividibili. Entro certi limiti però è un pò difficile pensare che l'umanità possa sopravvivere, in un'età di popolazione crescente, senza questo imponente strumento; si tratta allora di vedere come ridurre i fenomeni negativi della realtà sociale che abbiamo descritto, agendo sugli effetti.

Consideriamo ora il secondo aspetto prima accennato. Il prossimo viene rispettato nella sua libertà, e questo è positivo, ma spesso, ecco il pericolo, si ha una indifferenza reale che si nasconde dietro questo rispetto. Potremmo dire che si arriva ad una confusione tra rispetto della libertà e indifferenza. Si ha spesso la traduzione del rispetto degli altri, della tutela dell'autonomia del prossimo, del rifiuto di quello che potremmo chiamare il donna-prassedismo, nell'indifferenza, o addirittura nell'approvazione per la differenza, si arriva da ultimo alla approvazione della devianza e si rinuncia, di conseguenza, ad operare (nella libertà, con il metodo della persuasione e della carità) affinché l'altro uomo sia più uomo. Come si produce questa traduzione?

Stando in Italia, partirei ancora per un momento da un fatto sociologico; poi cercheremo di chiarirne le radici culturali (per accenni, s'intende). Uno psicologo sociale, Gabriele Calvi (3), ha osservato come, nel giro di pochi anni, si sia passati a proposito del rapporto tra le generazioni (padri-figli), dal conflitto alla frattura: "i primi anni '70 sono stati caratterizzati da una contrapposizione dialettica e da un vivace confronto delle forze giovanili con le altre; l'atmosfera era quella di un conflitto tra le generazioni in cui la comunicazione tra le parti era violenta ma continua. Gli ultimi anni del decennio hanno visto calare il silenzio e crearsi una frattura fra giovani e adulti di proporzioni mai viste prima". In particolare, aggiungerei, per quanto riguarda le devianze, si è prodotto il passaggio, dalla ghettizzazione (il deviante è reprobo, sta da parte) a quella che gli psicologi dicono scotomizzazione (che vuol dire il passare davanti ad un uomo, il vederlo, ma non guardarlo, non accorgersene, praticamente c'è, ma è come se non ci fosse). Dice ancora Calvi: "sono caduti i ghetti, gli spastici e i mongoloidi entrano nelle classi normali così come i drogati si mescolano alla gente, nei giardini pubblici e nelle vie". Chiunque viva in una città sa che esiste questa realtà sotto casa. "Ma il problema del deviante o del diverso non viene più letto come un sintomo del disagio di tutta la gioventù o dell'intera società". Potremmo aggiungere: lo spastico va nella classe normale; non più in quella speciale; ma, sarà per l'impreparazione di alcuni insegnanti, sarà per il numero degli alunni, o per altro ancora, spesso finisce per essere trascurato nelle sue esigenze specifiche; talora si giustifica questo atteggiamento con la scusa del delicato rispetto per l'altro, del dovere di non sottolineare i suoi difetti, le sue limitazioni fisiche, talaltra con il rispetto della libertà del prossimo. In alcuni casi però si arriva a pensare che siano belle proprio la differenza, la diversità e anche l'opposizione, il contrasto di idee, di costumi, di scelte di vita, anche nei termini più estremi. In quest'ultimo caso, riconoscere il prossimo significa apprezzare non tanto ciò che ci fa egualmente uomini, universalmente tutti umani, ciò che è comune, ciò che dovrebbe perciò affratellarci, (l'eguale in noi) ma ciò che ci diversifica, e anche, al limite, che ci oppone, ci mette gli uni contro gli altri. Con questo (ed è la cultura che in Italia si suol denominare "radicale" a mio parere facendo troppo onore a una modesta realtà politico-culturale") si finisce per esaltare la diversità, e quindi per negare l'unità e l'università umane, che sono intese erroneamente come uniformità: ora, uniforme, è una brutta parola, allude alla monotonia, alla noia del sempre eguale, ripetitivo, e così di seguito.

A produrre questo atteggiamento, che tende sempre più a diffondersi, concorrono fattori politici, fattori culturali, soprattutto fattori filosofici plurisecolari, accanto a fattori psicologici personali. Qui non potremo assolutamente dilungarci, ma qualche cenno cercheremo di darlo.

Fattori politici, anzitutto. Ecco la lotta, nell'età moderna, per la tolleranza (si pensi alle guerre di religione) per i diritti della persona. E' stata lotta sacrosanta, che però progressivamente è stata interpretata in un senso che ha portato al relativismo e all'indifferentismo verso i valori. Là dove, in precedenza, almeno nella pratica, la libertà non era il più delle volte considerata come il valore più alto, non appariva il valore che fonda e dà anche, per così dire, sapore a tutti gli altri valori, nell'età moderna si è affermata una certa tradizione culturale che è divenuta molto forte, la quale ha pensato proprio così. Fino alle soglie dell'età moderna si era pensato che i valori più alti fossero quelli specificamente umani, e che questi fossero quelli contemplativi: la verità la si scopre, la si trova, e l'essere si manifesta senza che intervenga la libertà; esso è scoperto, trovato nella verità. Anche l'ordine della giustizia, oggettivo, che s'impone a tutti, è scoperto, trovato nella verità, anche l'ordine dell'essere immutabile; la libertà, si pensava, è un bene, ma dovendo scegliere tra il favorire la diffusione della verità e della giustizia, e la difesa della libertà, bisogna scegliere per il primo corno dell'alternativa, perché lì stanno i valori più alti.

Nell'età moderna è comparso l'homo faber, l'uomo trasformatore del mondo, per il quale il valore per eccellenza sta appunto nella prassi: con questo si è messo in vista un valore specificatamente umano (l'uomo non è uomo solo quando contempla, ma in quanto realizza con libertà, in quanto si sottrae all'opacità dell'essere naturale, in quanto si autodetermina). La sottrazione all'ordine meccanico e deterministico della natura specifica caratterizza l'uomo non meno del suo essere ente che ragiona e contempla; con la libertà l'uomo sa di poter decidere almeno in parte del proprio destino, di non essere vittima solo dell'ineluttabile; in questo senso la libertà è valore, e deve essere difesa il più possibile anche nei rapporti interpersonali. Ma va aggiunto che la constatazione del fatto che la natura cede all'uomo, che essa è molto più docile di quanto per millenni non fosse sembrato, ha fatto ritenere che con la sua libera iniziativa l'uomo fosse abilitato a mutare l'essenza delle cose, e da ultimo, allora, perché anche non la natura stessa dell'uomo? Ciò che prima appariva dominato da un "Logos" divino, attraverso leggi sempre eguali, si rivelava sempre più rispondere all'iniziativa dell'uomo; quando, tra il '600 e il '700, si ritiene caduta, anche se a torto, sotto i colpi delle concezioni meccanicistiche moderne, ogni lettura finalistica del mondo, Dio apparve addirittura inutile, e l'uomo sembrò bastare pienamente a se stesso; se c'è solo un ordine meccanico dell'universo, che l'uomo però può modificare, l'uomo diviene il nuovo Dio, che dà senso, fin dove può, alle cose; la libertà, da valore subordinato o al più di pari grado con altre realtà, diventava il valore più alto, e la natura non era più tanto da contemplare quanto da trasformare.

Deve però essere osservato che questo valore supremo, che veniva ad essere elevato a valore supremo, la libertà, in questo contesto non riesce sul serio a diventare il criterio per determinare, sia pure provvisoriamente, sia pure come criterio mobile, altri valori subordinati. Certo, alla prospettiva che potremmo die genericamente liberalistica, (non prendiamo il termine nel senso politico stretto, s'intende) si ammette che la libertà non può essere assoluta, altrimenti si avrebbe la distruzione dei soggetti più deboli: ma quale deve essere, in tale liberalismo, il criterio per decidere il limite delle limitazioni inevitabili della libertà, il limite delle limitazioni? La realtà di altri valori universali oltre la libertà, e perciò di altri principi etici universali, oppure la stessa libertà? Ecco, qui può avvenire, e di fatto storicamente è avvenuta, la separazione dei filosofi della libertà (o de sostenitori addirittura della religione della libertà) dai semplici difensori di quello che potremmo dire il principio liberale, rivendicato giustamente dalla coscienza moderna: per tutelare la libertà di tutti basta, possiamo domandarci, un intervento dello Stato che impedisca ai più forti di uccidere i più deboli, o non si dovranno piuttosto richiedere ulteriori interventi? Facciamo un esempio: liberamente, molti genitori cercheranno di far crescere i figli impartendo loro un certo tipo di educazione; e questo è un limite alla libertà incondizionata dei figli, perché essi cerchino di dare un certo orientamento, una via; ma se certi genitori non impartiranno un'educazione (può anche accadere questo, per permissivismo o per incoscienza addirittura), lo Stato dovrà intervenire, o dovrà rispettare la libera decisione dei genitori di lasciar liberamente crescere, anche se selvaggiamente, diremmo noi, i loro figli? fra questi ragazzi, chi sarà più libero?

E' chiaro che non appena si superi il livello della garanzia della sopravvivenza della difesa dall'aggressione (minima funzione dello Stato), sorgono problemi i quali richiedono un criterio di soluzione che non può essere dato dal solo appello alla libertà, come viceversa vuole questa concezione che è venuta prevalendo, che oggi, con il libertarismo dilagante, conosce i propri trionfi. Va detto subito, seppure en passant, che la concezione cristiana non può certo coincidere con questa religione della libertà, proprio perché per essa i valori universali, e quindi i principi morali non si riducono a quello solo della libertà, perché la libertà, nella concezione cristiana, è un valore e la libertà politica come corollario è un principio, ma non è l'unico principio. Comunque, il risultato finale, e torno sul piano della ricostruzione storica, il risultato finale dell'assolutizzazione della libertà (non, insisto, la semplice posizione della libertà come valore tra valori) rischia di essere la perdita di ogni criterio obiettivo di azione, l'abbandono all'arbitrio di ognuno, non corretto da limitazioni oggettivamente accettabili.

La posizione che abbiamo esposto è stata svolta anche nei termini seguenti. S'incomincia col dire: primo: il rispetto della libertà dell'altro è un bene (e oggi alzi la mano chi oserebbe dire che questo sia contestabile); poi, secondo: l'esercizio della libertà dell'altro, è un bene, (l'esercizio concreto, non la libertà in astratto, ma l'esercizio concreto è un bene); terzo: il contenuto concreto dell'esercizio della libertà dell'altro è allora un bene; quarto: poiché il contenuto dell'esercizio della libertà dell'altro è vario e spesso realizza opposizioni - si conclude - sono un bene anche le opposizioni, sono un bene non solo le diversità (io scelgo l'acqua minerale, l'altro sceglie la birra), ma anche le opposizioni di atteggiamento, i giudizi di valore, morali, contrastanti, e le condotte che ne conseguono.

Ora, va notato che il passaggio dal secondo al terzo punto (da "l'esercizio concreto della libertà è un bene a "il contenuto concreto dell'esercizio della libertà dell'altro è un bene") viene introdotto surrettiziamente. Si dimentica, in realtà, che ognuno di noi deve, e questo sì è dovere, fermarsi al rispetto dell'esterno della volontà, il che vuol dire al rispetto dell'atto conclusivo esterno in cui il processo di deliberazione si conclude (i filosofi dicono dell'"atto imperato"), al rispetto cioè della decisione tradotta all'esterno (vado a Torino anziché a Milano); ma il processo deliberativo passa pure per considerazioni etiche, per confronti di valori e per decisioni finali relative che precedono il "così voglio e faccio" dell'atto esterno; rispetto ad esse l'altro uomo non ha il dovere di dire che si tratta di considerazioni e deliberazioni comunque buone. Se non si fa questa distinzione, il rispetto della libertà altrui diventa accettazione dell'equivalenza di ogni scelta, e quindi diventa indifferenza intorno ai valori; rimane anche qui certo un valore rispetto al quale non c'è indifferenza, - la libertà -; ma si tratta, da ultimo, di un valore puramente formale, perché la libertà è la forma degli atti umani, che hanno poi dei contenuti, una materia specifici, e nella prospettiva che abbiamo esposto, chi la regola? Nessuno!

Potremmo dire che il rispetto del "diritto di ognuno di vivere la propria vita", che sembra il massimo della carità moderna, l'apogeo del rispetto del prossimo, non può diventare assoluto, ma deve essere commisurato con le esigenze sociali, e giudicato secondo parametri più alti. Vorrei anche aggiungere (suonerà scandalizzante, ma deve essere detto) che il luogo comune: "si devono rispettare le opinioni di tutti", io rispetto tutte le opinioni, non è affatto giusto: io devo rispettare le altre persone, la libertà delle altre persone, ma non devo rispettare le convinzioni errate; un'opinione errata, proprio nell'atto in cui la si giudica errata (e tale la si giudica se essa diverge, se essa nega quello che io ritengo vero), è con ciò stesso, non rispettata, è un errore. Dire... che si rispettano tutte le opinioni sembra un atteggiamento di persona molto libera, mentre è l'atteggiamento di una persona che se ne infischia di tutto (se sa quello che dice, si intende). Negare questo significa dichiarare l'equivalenza di ogni opinione: non si ama il prossimo, ecco una prima conclusione delle nostre riflessioni, se non si ama per sé e per gli altri la verità; non possiamo porre la libertà come il valore per eccellenza, di per sé solo preso.

C'è anche un atteggiamento, passo ad un altro "paragrafo" c'è anche un atteggiamento verso la libertà del prossimo che in linea teorica è l'opposto di quello che abbiamo appena descritto: è l'atteggiamento, cui abbiamo accennato all'inizio, che potremmo dire di angoscia verso la libertà altrui (e qui l'esistenzialismo tedesco, ma soprattutto francese, ha insistito molto). Noi abbiamo appena detto che la libertà da sola, come valore assoluto, lascia l'uomo senza guida e non può funzionare da criterio supremo dell'azione, nonostante le illusioni libertaristiche; e abbiamo per inciso aggiunto che la concezione cristiana non intende così la libertà. Ma c'è anche chi, da un lato, non sa vedere, perché ateo, un fondamento dell'azione che non si riduca alle libere scelte umane, ma insieme sa riconoscere, contrariamente agli entusiasmi dei libertari, che la libertà degli altri, assolutizzata, fatta diventare criterio supremo, non è tanto inebriante, è un pericolo, perché è l'imprevedibile; in un universo meccanicistico, in un universo tutto deterministico, se non altro potremo prevedere che cosa minaccia di schiacciarci; in un universo di soggetti liberi e di una libertà che non ha un criterio sopra di sé, che non ha un fondamento, una guida, l'altro diventa un motivo d'angoscia, perché, sempre usando un linguaggio esistenzialistico, è l'apertura indefinita dei possibili per me e per gli altri che io non posso prevedere. Ecco, sul piano pratico l'episodio della Regina Elena, letto in inizio, è esemplare anche se si riferisce a personaggi del tutto fuori del comune. L'angoscia, la paura del prossimo porta al meccanismo di difesa consistente nell'interpretazione dell'altro come funzione. La società tecnoscientifica di cui parlavo prima porta anch'essa a questo risultato: il prossimo viene sempre più assimilato alla funzione che svolge, al meccanismo. Ora va aggiunto che anche la difesa dall'angoscia verso l'altro, come libertà assoluta, porta a volere che l'altro non esista come persona che progetta, che giudica, che ha una libertà, che mi considera a sua volta come persona. Nell'episodio che abbiamo citato il servo non mi deve vedere come persona così come io non lo vedo come persona; c'è anche qui un fenomeno di scotomizzazione, perché in verità io so che l'altro è persona, ma mi comporto come se non lo fosse, lo riduco a funzione.

Ricordiamo l'esempio che Sartre fa: se io vado in autobus o in tram, come mi conduco nei confronti del tramviere? Lo vedo semplicemente come una funzione; certo, questo si colloca sul piano dell'inevitabile, è una conseguenza della situazione tecnologica in cui ci troviamo; ma questo può anche essere una scelta, e non qualcosa d'inevitabile; se io decido di condurmi come se il prossimo, tutto il prossimo, non esistesse nella sua specifica realtà personale, questo accade se non si vede che la libertà, come abbiamo detto prima, non è il valore assoluto. Se la si intende come valore assoluto, allora essa appare solo come un pericolo: certo, la libertà dell'altro è effettivamente anche un pericolo per me e per gli altri, ma la libertà ha anche un aspetto positivo che non si vede se non si vede il fondamento universale del bene: se il fondamento dei significati delle cose, del mondo, delle altre persone, è solo l'uomo, allora ogni uomo (che prova desideri illimitati, che, in quanto pura libertà, per un certo aspetto è incondizionatezza, (4) allora l'uomo, che è infinità ma anche, insieme limitatezza, finitezza (esso opera in un mondo dalle risorse limitate) non può non essere rivale, pericolo per ogni altro uomo. Non così però, se si riconosce che c'è un originario Autore del significato, Dio, che non è rivale dell'uomo, perché perfetto, illimitato e crea per amore. Dio inscrive originariamente ogni possibile significato creato dall'uomo in un orizzonte di significati per l'uomo, ponendo anzitutto l'uomo come significato, come valore (e non solo come fonte attraverso la libertà di valore) per sé e per gli altri uomini. Se volete recuperare la famosissima formula Kantiana: l'uomo è realtà che ha anche fini ed è fine (spesso si cita la formula kantiana così: "considera il prossimo solo come fine e mai come mezzo ma questa presentazione è sbagliata, non è la formula kantiana. Kant dice: anche come fine mai solo come mezzo, perché noi inevitabilmente trattiamo il prossimo anche come mezzo; ma il prossimo va trattato sempre insieme anche come fine). In una visione teologica, l'altro uomo non è qualcuno che può anche essere utile servire nell'armonia, nella pace, ma che più spesso lo si trova dinanzi come un ostacolo, e lo si può trattare come tale. Se c'è Dio l'uomo è sempre un valore.

Di questi limiti, di questo errore indifferentistico non partecipano coloro i quali pongono tra i valori umani più alti la giustizia, l'eguaglianza: si parla tanto spesso, da un secolo almeno, della giustizia sociale come del valore più alto. Prima abbiamo visto considerare il prossimo come centro di libertà; adesso vediamo considerare il prossimo come l'eguale. Nel liberalismo si vedeva l'eguaglianza solo nella libertà comune a tutti, per il resto, il diverso diventava il bello, qui viceversa quello che conta è soprattutto l'uguaglianza. Se la storia è il luogo della diversificazione, se il progresso, nel senso di sviluppo tecnico-scientifico, della cultura, ecc., è il luogo della diversificazione, allora, dicono alcuni, abbasso la storia, abbasso in questo senso il progresso: meglio una "società fredda" per usare una terminologia celebre, senza storia, una "società calda", storica, in sviluppo, che però crea diseguaglianze. Esistono numerose persone che ragionano in questi termini. Ma anche qui bisogna fare attenzione a non cadere nell'equivoco. Come deve essere esercitata l'attenzione positiva, attiva verso il prossimo, riconosciuto nella sua uguaglianza? Qui possiamo dire che a partire dal secolo scorso, è venuto maturando un rovesciamento, che, a voler usare una parola grossa che piace ai tedeschi dotti, potremmo chiamare "epocale". Per coglierne la portata, potremmo ricordare che ancora nel '600 un cristiano autentico, personalmente impegnato nella carità attiva come Pascal, poteva dire (lo riferisce madame Périer, sua sorella) "preoccupatevi del prossimo più vicino", cioè proprio dei poveri alla maniera che abbiamo sentito questa mattina da Fratel Ettore; del prossimo più vasto, con i grandi problemi che trascendono quello che ognuno di noi può fare nella sua azione quotidiana, si occuperà chi ha una particolare vocazione, che è rara. E' l'opposto, come vedete, (veramente c'è una distanza abissale) di quanto è sostenuto da tanti ideologi odierni, per i quali le sofferenze dell'umanità si combattono impegnandosi sul terreno del più vasto, del politico: per essi il mio prossimo è l'intera umanità. Anche qui c'è una verità: solo un intervento in profondità che abbia dimensioni sociali sempre maggiori (proletari di tutto il mondo unitevi!) può assicurare cambiamenti, in meglio, duraturi e non accidentali.

Oggi, in democrazia, sembra che vocati lo siamo tutti; oggi pensiamo che il popolo meno vasto rientra in quello più vasto, e se c'impegniamo per quello più vasto di impegniamo anche per il primo e abbiamo adempiuto ai nostri doveri.

Pascal non coglieva adeguatamente la funzione, la potenza positiva della dimensione pubblica, statale, dell'intervento sociale. Ma va aggiunto che anche qui c'è un pericolo: perché l'uomo può diventare un'astrazione, ed essere ridotto al solo universale, e ancora una volta finire per diventare una funzione in rapporto con altre funzioni.

Di fatto, questo esito negativo lo si constata spesso: l'impegno che viene oggi auspicato è nella lotta organizzata, partitica per i proletari, per i più deboli, per i poveri (a seconda dei lessici delle diverse culture), anche nel volto sul piano politico; ma troppo spesso si ragiona nell'astratto, per categorie, per classi, e poi si delega a dei funzionari - vedete che la parola ritorna - l'esecuzione. Il rapporto torna ad essere tra funzioni: il funzionario per l'uomo-funzione, e il circolo si salda.

Anche questo è un pericolo che va denunciato; non perché l'impegno politico sia da evitare, ma per ricordare che è giusto programmare universalmente, ma cercando insieme di come evitare l'astrazione: come evitare questa riduzione, questo comodo delegare ad altri dell'umile impegno quotidiano.

Da questo punto di vista io credo che bisogni fare l'elogio delle "piccole virtù", (dico "piccole", perché sono analiticamente considerate una per una), che per tanto tempo sono state irrise. C'è voluto quest'anno 1983 perché a Milano per la prima volta dopo tanto tempo - ma non l'hanno fatto i Cattolici, l'ha fatto un circolo socialista - venisse dedicato un intero ciclo di conferenze alle piccole virtù (il titolo esatto non è forse quello, ma il contenuto lo era) alle virtù particolari. Tra queste virtù, credo che andrebbero anzitutto recuperate quelle che presidiano quella istituzione che dovrebbe essere ricapita nella sua funzione di garanzia della globalità, dell'integralità del rapporto interpersonale e della fedeltà, che è la famiglia.

Hegel diceva: "l'amore materno (guardate che lo diceva un filosofo "laico") è il luogo in cui si realizza una sintesi che si può dire naturale della libertà e della necessità, dell'universale e dell'individuale". La famiglia sta scricchiolando, la stiamo perdendo: bisognerebbe farne vedere questa dimensione sociale, questa sua attualità per il nostro tempo così sensibile alla socialità.

Da favorire sono anche le iniziative del volontariato per offrire all'altro ciò che la funzione pubblica burocratica, impersonale, fredda, non può dare. Bisogna rivendicare il primato dell'etica rispetto alla politica; il Personalismo Cristiano, aggiungo, tanto insiste anche sulle piccole virtù, che hanno anche una precisa funzione sociale, attualissima. Basta pensare come, ad esempio, l'avarizia blocchi nelle cose e faccia dimenticare le persone. Le virtù della castità, della misura, dell'ordine sessuale - altro esempio - è funzionale ad un uso non strumentale dell'altro, e cioè ancora una volta ciò concorre ad evitare la riduzione dell'altro a funzione intercambiabile. La non-vanità - altro esempio - porta a rifiutare l'attenzione chiusa su di sé, evita l'egotismo che diventa solipsismo, invita a cercare l'altro come altro, e i valori in sé stessi.

Al Convegno di Ottawa di cui già ho parlato, un filosofo musulmano, Mohamed Azir Lahbabi, un marocchino che ha tentato di conciliare la tradizione islamica (che pure contiene una componente, anche se con delle contraddizioni vistose, di amore) con la cultura francese, ha raccontato un episodio che dice questo esasperato bisogno universale di rifiutare l'egotismo, il solipsismo, di cercare l'altro come altro, tenendo conto del fatto che l'uomo è un essere che vuole comunicare il proprio essere (5).

"Un giorno - ha raccontato Lahbabi - ero andato al mercato con mio padre, e mio padre discusse a lungo con il mercante sul prezzo dei pomodori; quando poi il mercante arrivò alla conclusione, e concesse un certo prezzo, mio padre diede al mercante più di quanto il mercante avesse chiesto; naturalmente io domandai: "ma perché tutta questa discussione se poi hai dato addirittura d più?" Mio padre mi rispose: "perché volevo parlare con il mercante, perché volevo stabilire un rapporto con lui e non soltanto con i pomodori; volevo vedere un sorriso intelligente". Ecco, questa esigenza di comunicazione del proprio essere chiede che si realizzi tutti i giorni un atteggiamento che si esprime attraverso una scelta per l'essere, contro quello, viceversa, che tende al possesso, quello dell'avere.

Ma come si può produrre un atteggiamento di questo genere se tutto quello che si fa, lo si fa per l'avere, oppure, nel caso migliore, ci si limita all'impegno universalissimo, politico-generale, e non ci si educa giorno per giorno, man mano che i problemi sorgono e le difficoltà si producono, ad orientare la volontà verso l'altro come persona concreta? Bisogna recuperare la dimensione delle piccole virtù, e non soltanto quella delle grandi virtù. Come si può concepire l'amore non soltanto in termini di affascinazione, non soltanto come tecnica per ottenere che l'altro voglia ciò che io voglio (perché allora se l'amore deve essere reciproco, o fallisce, o si gira a vuoto), ma come volontà del bene oggettivo, se non c'è quest'educazione costante della volontà giorno per giorno? Per questo, insisto abbiamo il coraggio di recuperare parole come quella di virtù, riconoscendo che proprio nella prospettiva cristiana, che è una prospettiva personalistica, ciò che conta è anzitutto il rapporto con l'altra persona nella sua concretezza puntuale, momento per momento. Non cerchiamo alibi nella fuga nella dimensione universale (che, ovviamente, pur deve essere anch'essa cercata). Soprattutto, se abbiamo la fede cristiana, che è una concezione teistica, e cioè che crede nel Bene in sé, nel bene oggettivo, persuadiamoci che è bello che ovunque ci sia del bene in sé, che questo si affermi in se stesso, anche là dove non c'è un uomo a fruirne. Visto che l'ha ricordata anche Fratel Ettore, ricordo anch'io la dolorosa realtà dell'aborto: nel caso dell'amore tra l'uomo e la donna si deve cercare che l'amore si traduca in un terzo, frutto della volontà dei due, visto e sentito come persona che è fatta essere perché sia libera, autonoma.

Qui il discorso deve proseguire, perché ovviamente non si tratta più semplicemente di analizzare delle realtà di fatto, si tratta di vedere determinatamente il quid agendum; il compito mio era quello dell'analisi: ci sono altri che dovranno proporre costruttivamente; uno, don Caffarra è al mio fianco; a lui perciò ora passo la parola.

NOTE:

1) MATTEO MUREDDU, Il Quirinale del Re, Milano 1977.

2) ID, op. cit., pp. 9-11.

3) GABRIELE CALVI, Comportamenti e valori: interpretazione provvisoria del decennio 1970/80, in AA.VV., Società italiana e coscienza giovanile verso gli anni ottanta, Milano 1980, pp. 9-35.

4) Esser liberi significa poter dire: "voglio perché voglio" assolutamente; se dicessi che voglio perché son determinato da qualcos'altro non sarei più libero.

5) L'uomo è capace di comunicare in modo disinteressato non solamente con il suo "entourage" immediato, ma anche con dei simili che sono lontani da lui nello spazio e nel tempo; e questo non avrebbe senso se non ci fosse nell'uomo un'interesse per il lontano, per il passato, per l'avvenire. E' un fatto che la comprensione va più in là della semplice comunicazione, perché noi possiamo comprendere degli uomini con i quali ci è impossibile comunicare, che sono i popoli antichi scomparsi, ciò che è impossibile che accada quando si tratta della coscienza animale. L'uomo è un essere che vuole comunicare la propria realtà, e non soltanto far agire in un certo modo il prossimo.