Responsabilità personale tra colpa e perdono

Roberto Zavalloni

 

La personalità é un dato primo dell’esperienza, é un punto di riferimento di fondamentale importanza. La personalità può essere considerata come il fenomeno che abbraccia tutte le caratteristiche di una persona, come manifestazioni della medesima. «Personalità é una nozione empirica - scrive A. Gemelli - nella quale biologi e psicologi pongono l’accento sull’aspetto funzionale della vita umana».

La personalità appare, anche sulla base dell’esperienza psicologica, non come un insieme di attività, ma come un tutto, come una totalità funzionale, come una unità psicosomatica.

Chi cercasse di definire la natura di questa unità psicofisica, troverebbe in fondo alla «personalità» di un individuo la vera «persona» umana. Si può quindi dire che la condotta dell’uomo si esprime attraverso le manifestazioni della sua personalità, ma si realizza per un potere proprio della sua persona.

Parlando delle diverse attività umane, c’é il pericolo di dare l’impressione che la personalità sia la somma totale di questi fattori, attitudini, qualità, gesti, reazioni, disposizioni, abitudini, motivi, valori, principi. La personalità é ben più che la somma totale di queste caratteristiche; essa é una unità integrativa di tutti questi elementi. In conseguenza di questo carattere della personalità, ogni interpretazione che implichi segmentazione é nociva ad una adeguata concezione dell’uomo.

I dati dell’esperienza indicano che vi é un lato organico nella struttura della personalità umana; ma vi é anche un lato psichico delle effettive manifestazioni dell’uomo. Le sindromi con il loro complesso di manifestazioni psichiche e somatiche, tutte dovute ad una stessa ed unica causa, hanno un significato filosofico di estrema importanza.

L’uomo non é solamente un organismo fisico con stimoli e reazioni. Certamente non é neppure soltanto un essere psichico senza corpo. Egli non é una dualità di esseri individuali, completi e separati, come sarebbe un’anima che vive in un corpo. L’uomo é né puro spirito, né pura sostanza fisica, né due sostanze, una vivente nell’altra, ma un organismo unitario, vivente, psicosomatico.

Questo é l’essere umano la cui responsabilità personale costituisce il punto di arrivo di tutti il processo educativo.

Questa concezione personalistica dell’uomo ci porta a delineare una concezione personalistica della libertà come fondamento e presupposto della responsabilità personale; essa ci induce poi a considerare successivamente il rapporto tra senso di colpa e responsabilità personale, il significato cristiano della riconciliazione, la funzione educativa del perdono, cui faranno seguito alcune osservazioni di carattere operativo.

1. Carattere personalistico della libertà

Una concezione adeguata della personalità deve abbracciare l’aspetto fisico e l’aspetto psichico dell’individuo totale. Le funzioni psichiche sono in rapporto di reale dipendenza con le funzioni organiche: non vi é un solo atto interiore che non abbia il suo correlativo fisico, non un’idea senza un’immagine, non una volizione senza una emozione. Ma gli aspetti organici dell’attività dell’uomo sono rielaborati e rifusi nell’esperienza personale.

In una lotta di impulsi, come per esempio nella decisione da prendere tra il bene e il male, il materiale messo in gioco include le nostre virtù e i nostri vizi, tutto il nostro bagaglio etico, le decisioni precedenti di accettazione o di rifiuto dei valori morali; esso involve tutta la personalità di un individuo. L’atto decisionale appartiene all’uomo nella sua totalità. La libertà personale é molto di è più che la semplice espressione di un atto volitivo; essa è essenzialmente una proprietà dell’uomo, che si autodetermina in favore di un valore preferenziale. «La questione della libertà della volontà - scrive giustamente R. Allers - é in qualche modo unilaterale. Non é la volontà come funzione psicologica, ma tutta la persona che é libera».

Ne consegue che una concezione personalistica dell’uomo implica una concezione personalistica della libertà umana.

In quanto proprietà di una natura intelligente, la libertà comporta nel suo esercizio, ragione e volontà ad un tempo. L’atto libero si eleva sulla base della complessa motivazione umana come il grutto congiunto dell’intelletto e della volontà intimamente e vitalmente uniti. L’atto libero é l’espressione più tipica dell’uomo ed involve tutta la sua personalità.

Questa concezione tende a fare la sintesi di due posizioni, il volontarismo e l’intellettualismo, nelle loro espressioni più estremiste. Una tale sintesi é possibile nella misura in cui rinunciamo a qualsiasi idea di primato sia della volontà che dell’intelletto, e poniamo l’accento sul carattere personale dell’attività umana.

Il fattore soggettivo dell’uomo é il principio unificatore e totalizzatore delle sue molteplici attività in una sintesi vitale. Tra le componenti di questa sintesi, gli elementi emozionali ed affettivi si rivelano di immensa importanza per la condotta dell’uomo. L’emozione non deve essere considerata come una semplice concomitante degli stati dinamici dell’organismo: in quanto fenomeno psicologico, l’emozione ha un contenuto interiore e sorge sulla struttura del comportamento, implicando processi dinamici e intellettivi. L’emozionalità può essere concepita come una capacità innata di risposta affettiva e di sviluppo, differenziandosi quantitativamente da persona a persona. Attraverso l’emozionalità l’individuo comunica ad ogni momento il suo mondo fenomenico.

L’esperienza emozionale e, più ancora, gli stati effettivi esercitano un grande influsso sulle percezioni e sui giudizi dell’uomo. Si comprende, allora, il compito dell’affettività nella vita umana. Ogni tendenza che cerca di essere soddisfatta, ogni attività in esercizio si accompagna in noi ad una vibrazione affettiva. L’affettività unisce l’io al mondo; essa rende presente a noi l’universo. Noi giudichiamo del bene e del male, degli uomini e delle cose, del nostro passato con la nostra personalità presente, con tutto noi stessi. Noi risolviamo i problemi della vita in una atmosfera affettiva, non mai nella chiarezza fredda dei principi esclusivamente intellettivi.

La libertà psicologica dell’uomo, in quanto fondamento della sua responsabilità personale, non esclude, anzi presuppone il vasto e complesso dinamismo degli istinti, delle tendenze delle tendenze, delle disposizioni psicofisiche, delle abitudini acquisite, dei fattori ereditari; ed é proprio su questa base che emerge il dinamismo umano nel mondo dello spirito, é su questa base che la libertà di scelta si esercita e la capacità di autodeterminazione si attua.

L’uomo é sempre condizionato nella sua esperienza esistenziale: persone e cose ci influenzano in tutti quei modi, siano essi fisiologici o psicologici, consci o inconsci, che ci permettono di venire a contatto col mondo esteriore.

Nella condotta dell’uomo l’elemento spirituale é sempre soltanto una componente: non vi é alcuna reazione puramente spirituale; vi sono delle reazioni umane. Essendo inserito in una situazione concreta, l’uomo non potrà mai raggiungere un grado assoluto di libertà, come se questa fosse una proprietà statica di certe sue azioni. L’agire umano é sempre caratterizzato da un certo grado di libertà, vale a dire, da un grado variabile di elaborazione spirituale.

La personalità si sviluppa dal di dentro che dal di fuori.

Quando l’individuo é capace di regolare la sua condotta, tutte le determinanti «oggettive» della personalità sono già in azione: l’eredità, lo sviluppo, la costituzione fisica, l’ambiente, la cultura, l’esercizio, l’esperienza e l’educazione. Ma queste determinanti oggettive possono condurre ad una concezione distorta dello sviluppo della personalità se manchiamo di prendere in considerazione l’influenza delle determinanti «soggettive». In realtà, i fattori fisici e ambientali sono sempre controbilanciati dai fattori psichici.

Tutti i fattori sopramenzionati hanno, senza dubbio, somma importanza per lo sviluppo della personalità. Ma l’evidenza richiede che si riconosca l’esistenza di un fattore addizionale irrinunciabile: la capacità di autoderminazione dell’individuo. L’essere umano é, in parte, l’espressione complessa di molteplici influenze interne ed esterne; ma vi é anche, in grande misura, ciò che egli fa di se stesso.

Vi è nell’individuo la capacità innata di compiere scelte preferenziali, di autodeterminarsi in una linea di condotta, di tracciare da se stesso il proprio destino. Se é vero che i tratti della personalità, le attitudini, le caratteristiche di un individuo non sono materia di opzione, é pur vero che i fattori personali possono essere influenzati grandemente dal processo di autocontrollo. Ogni metodo di psicoterapia che mira a portare l’individuo all’integrazione della propria personalità, e parimenti ogni metodo di educazione che tende alla formazione della personalità in fase di sviluppo deve presumere l’esistenza di questa fondamentale e insostituibile capacità di ogni essere umano: capacità, che potrà essere a volte in qualche modo menomata o anche fuorviata, ma che costituisce in ogni caso la caratteristica più significativa dell’uomo.

Nelle situazioni personali più disparate, siano esse normali o patologiche, si pone sempre il quesito non tanto se l’uomo sia libero e responsabile in senso generale, quanto piuttosto in che misura sia libero e responsabile nel caso specifico.

A questo proposito, con un senso di modestia per i limiti della scienza psicologica, e con un senso di rispetto per la profondità e complessità della persona umana, credo che valga la pena ricordare questo pensiero do Pio XII: «Né la psicologia né la morale - egli diceva - hanno mezzi tali da saper valutare adeguatamente la responsabilità personale dell’uomo». Comunque, alcune affermazioni sembrano possibili anche sul piano scientifico.

1) l’uomo é tanto più libero e responsabile quanto più é normale: quindi l’azione educativa deve favorire nel miglior modo possibile lo sviluppo integrativo della sua personalità;

2) l’uomo é fortemente condizionato da molteplici fattori di natura cosciente e incosciente, di origine biologica, psichica e sociale, ma resta pur sempre fondamentalmente libero e responsabile;

3) l’uomo é responsabile anche nei termini e nei modi richiesti dalle condizioni essenziali per il peccato grave; resta però assai difficile determinare il grado di responsabilità personale nei singoli casi;

4) in via generale, sembra giusta l’espressione secondo la quale l’uomo é meno libero di quanto pensano i filosofi con la teoria del libero arbitrio, e lo é di più di quanto pretendono gli psicologi con la teoria del determinismo psichico.

2. Senso di colpa e responsabilità personale

Conviene richiamare subito alla mente una distinzione fondamentale: la distinzione tra il sentimento di colpa per un’azione morale qualificata e il sentimento di colpa vago e indeterminato, che cerca di fissarsi sotto ogni specie di espressioni della personalità del soggetto. Il primo tipo, di ordine morale, si richiama alla coscienza, comprende i giudizi di valore ed evolve dal rimorso al pentimento e alla espiazione, in un tentativo costante di liberazione. Esso é quindi molto più limpido nel suo significato che non il secondo tipo: questo stato incosciente e patologico di colpevolezza che afferra tutta la psiche.

Vi é conflitto tra la colpevolezza biologica primitiva e quella che suscitano gli ordini e le proibizioni degli adulti; vi é opposizione tra i valori dell’io, che accentua il punto di vista giudizioso del realismo e della logica, e i valori del super-io, che può esigere un’obbedienza passiva, una vera servitù. Nella misura che gli elementi inconciliabili tendono a reprimersi l’un l’altro, si costituisce il campo della colpevolezza incosciente, la cui sfera d’azione appare ognora più invadente.

Non é facile conciliare i termini di «colpevolezza» e di «incosciente», perché si ha l’impressione che non vi sia, né vi possa essere, vera colpevolezza se non accettata, e quindi cosciente. Nondimeno la colpevolezza incosciente, comunque la si chiami, é un fatto psicologico di primaria importanza, che resta in qualche modo contraddittorio. Se non vi é vera colpevolezza se non cosciente, bisogna concludere che questo campo così vasto ed inquietante della «colpevolezza incosciente» coinciderà con quello della «pseudo-colpevolezza», e non sarà lontano da quello della «colpevolezza nevrotica».

Il senso normale di colpa varia, nello stesso individuo, secondo il tempo e le circostanze interiori ed esteriori. Nelle sue manifestazioni, esso é ancorato ed influenzato in misura assai rilevante da fattori pscicofisiologici e psicosociali.

L’angoscia é l’espressione immediata della situazione personale che consegue al senso di colpa; essa rappresenta uno stato di inquietudine e di incertezza interiore, che sarà tanto maggiore quanto più lontana é la possibilità di cancellare la colpa. La presenza di questa angoscia corrisponde alla rottura di un automatismo o almeno di una regolarità. In certi soggetti e in certi gruppi, il senso di colpa riveste le caratteristiche dell’angoscia che deriva dalle infrazioni al costume stabilito; ad un più alto livello é l’angoscia che deriva dalla rottura di comunione con persone amate, in particolare con la madre.

Poiché il senso di colpa pesa sulla coscienza, questo peso dev’essere tolto; ma non può essere tolto in genere, se non per mezzo di una effettiva riparazione. Ora, se deve esservi riparazione, significa che qualche cosa é stato guastato, danneggiato. La colpevolezza é il senso della perturbazione di un ordine, congiunto alla coscienza di essere l’autore di questa perturbazione.

Il senso di colpa, che sorge dalla coscienza e si impone implacabile, presenta un carattere ambivalente: fa una parte, spinge a «fuggire» dal misfatto e da ciò che é in rapporto col medesimo; dall’altra spinge la coscienza a «tornare» continuamente sul punto dolorante, a ritornare in se stessa. Vi é dunque una reazione ambivalente: fuga dal misfatto e ritorno col pensiero al medesimo. La prima reazione potrebbe annullare la colpa sottraendovisi, ma solo la seconda reazione é in grado di condurre alla liberazione dal male commesso.

La «fuga» dopo la é la reazione primitiva e più comune. Con la fuga il colpevole mira ad allontanarsi materialmente e moralmente dal misfatto, in forza di una tendenza istintiva a rendere il misfatto come non avvenuto: non vuole più saperne, non vuole riconoscerlo come opera propria. Con una tale reazione, però, non avviene la liberazione dal senso di colpa.

La reazione contraria, cioè il «ritorno» sul misfatto, impegna e quasi costringe il soggetto a liberarsi della colpa, riconoscendola propria ed affrontando le conseguenze che ne possono derivare. E’ questo il volto positivo del senso di colpa: visto sotto questo aspetto, corrisponde al rimorso, cioè al tormento interiore, che è la molla più potente verso la liberazione dal peso della coscienza. Quando poi il rimorso é accettato, quando é riconosciuto come giusto e assecondato, diventa pentimento in forma autentica.

Il senso di colpa può risolversi in atti di scrupolo, di compunzione, di rimorso e di pentimento: queste specie di comportamento portano tutte, sia pure in diversa maniera, verso la riparazione. Nel pentimento, il soggetto si sente già in modo effettivo sul cammino della riparazione; nel rimorso, invece, non ha ancora trovato questo cammino, e perciò più doloroso é l’effetto della colpevolezza. In realtà, questa non può essere tolta senza un effettivo riferimento alla riparazione.

Non é superfluo ricordare che si possono avere diverse forme di riparazione. La forma più elementare sembra essere della natura del taglione. In base alla quale la perturbazione dell’ordine viene riparata per mezzo di un’azione uguale e reciproca: come occhio per occhio, dente per dente. Ad un livello più cosciente, sotto forme più evolute, la riparazione risponde alla colpevolezza secondo uno schema meno rigido, ma che conserva le tracce dell’uguaglianza, quale si aveva nella legge del taglione. si può dire che questo concetto di uguaglianza si trasforma nel concetto di equivalenza, ma si tratta pur sempre di pagare il giusto prezzo.

Una novità decisiva e del tutto rivoluzionaria é portata dal precetto evangelico del «porgere l’altra guancia». Comandamento paradossale quello dell’amore fraterno! Vi é ancora una certa forma di corrispondenza tra l’offesa e la risposta, ma in senso opposto. Abbiamo un capovolgimento completo: nel perdono, in senso autenticamente cristiano, vi é l’inaugurazione di una nuova forma di riparazione, che caratterizza veramente l’inizio di un’era nuova. Il principio dell’uguaglianza porta qui, per così dire, all’assurdo: la riparazione non si misura più, ma sovrabbonda. E’ la grande novità del cristianesimo; ed é la piena realizzazione di quell’evento salvifico così largamente illustrato nella «Divise in misericordia» di Giovanni Paolo II.

Il senso di colpa resta un fatto umano d’importanza fondamentale. Il solo mezzo per liberarsene é quello anzitutto di assumere la responsabilità, per condurlo al suo compimento logico negli atti di riparazione che esso richiama: il rimorso si sviluppa in angoscia; la libera accettazione della riparazione, invece, quale risulta dal pentimento, dissolve ogni traccia di angoscia e restituisce la serenità dello spirito. Il vero senso di colpa - quello normale naturalmente, non quello patologico - si esprime essenzialmente in un rapporto di persone, e trova di conseguenza la sua piena espressione soltanto nel rapporto personale tra l’uomo e Dio.

3. Significato cristiano della riconciliazione

Il 29 settembre 1983 si riuniva a Roma, per la sesta volta dalla sua istituzione, il Sinodo dei Vescovi, che aveva per tema: «La riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa». Il tema prescelto si armonizzava in singolare sintonia con la celebrazione dell’anno giubilare per il 1950° anniversario della redenzione cristiana.

Il termine «riconciliazione» esprime in primo luogo l’iniziativa di Dio che interpella l’uomo sul piano della salvezza; ma esso ha un significato molto più ampio, avendo dei riflessi di grande rilievo sulle condizioni esistenziali in cui l’uomo viene a trovarsi.

Di qui l’importanza della tematica presa in esame nel documento di lavoro: «Il mondo e l’uomo in cerca di riconciliazione». A tale proposito si intende richiamare l’attenzione sulle situazioni di squilibrio nel mondo circostante e nel cuore dell’uomo, dalle quali appare che il rinnovamento interiore, da conseguire mediante la riconciliazione; è assolutamente necessario e risponde ad un’intima e profonda aspirazione di ogni uomo.

La riflessione sulla riconciliazione, in una prospettiva cristiana, non può non coinvolgere il discorso sul senso di Dio e nel senso del peccato. Si deve partire dal peccato per capirne la natura profonda di azione propriamente umana, che si rivela in definitiva come «rifiuto di Dio», come «rifiuto degli altri», e in fondo come «rifiuto di se stesso». Il peccato dice riferimento, sia pure in senso negativo, ai valori autentici dell’uomo e alle norme etiche che ne derivano.

Come presupposto al processo interiore della riconciliazione, il senso del peccato é una presa di posizione cosciente e libera della persona; essa fa sì che il modo attuale di esistere le appartenga realmente e responsabilmente. In quanto presa di posizione, frutto di una scelta, il senso del peccato, inteso come azione umana, é un impegno nell’autocostruzione della persona. Mediante la sua azione libera, la persona ceca di proiettarsi verso il suo dover essere, cerca di diventare ciò che non é ancora.

Questo si pone in una prospettiva personalistica, esemplarmente presente e chiaramente insegnata nel documento di lavoro sinodale. E’ l’intenzione, l’opzione o progetto fondamentale della persona ciò che dà un senso alle singole azioni, infatti, con le sue azioni libere, la persona può e vuole svilupparsi e costruirsi in questa o in quella direzione, secondo questo o quel progetto fondamentale. Ed é precisamente in questa prospettiva personalistica che si può cogliere il significato autentico della riconciliazione cristiana.

Nel compiere un atto di giustizia, di obbedienza, di misericordia, ecc., l’uomo si rivolge liberamente, in modo esplicito, verso una scelta concreta particolare; ma ogni singolo atto non é come un «oggetto», ma come una «espressione» della persona, che in tal modo si autoafferma nella sua vita spirituale. La persona esercita la sua libertà attraverso ogni singola scelta ma tali scelte si collegano e si influenzano a vicenda in senso positivo e negativo.

L’ultima parte del documento di lavoro sinodale, cui abbiamo fatto riferimento, parla in modo eloquente della «testimonianza di una vita riconciliata», sottolinea l’importanza della «promozione della riconciliazione nelle varie sfere della vita personale e sociale». Inseriti in un mondo che ignora il messaggio evangelico ed é dominato dal materialismo, dall’edonismo, dal permissivismo, i cristiani tutti, sia i giovani che gli adulti, hanno bisogno di una formazione permanente al mistero e alla prassi della riconciliazione.

Questa formazione permanente dovrà svilupparsi in modo particolare e integrare alcuni punti fondamentali.

- il senso della riconciliazione, con richiami espliciti al messaggio evangelico e al costante insegnamento ecclesiale;

- il senso della penitenza, come elemento interdipendente e come risposta dell’uomo alle esigenze proprie della riconciliazione;

- la verità fondamentale che «senza conversione a Cristo», l’uomo non può risolvere i gravi problemi della sua esistenza, né superare gli ostacoli che impediscono la manifestazione del dinamismo della vita riconciliata;

- i principali settori nei quali é urgente una profonda riconciliazione: l’esistenza personale, la vita familiare, la vita sociale.

Ispirandosi al significato profondo della riconciliazione, i cristiani «potranno essere nel mondo, insieme con tutti gli uomini di buona volontà, operatori di giustizia e di pace». Da qui si vede come il documento di lavoro sinodale abbia una portata che va ben oltre il limite della sfera ecclesiale.

La ritrovata riconciliazione tra gli uomini ridonerà al mondo la pace, minacciata dalla guerra nucleare e da crudeli conflitti locali. La pace, dono di Dio in Cristo, é l’altro nome della riconciliazione: «Egli é la nostra pace, colui che ha fatto di due popoli un popolo solo». Questo é il vero significato cristiano della riconciliazione!

Questo significato é chiaramente espresso nell’esortazione post-sinodale «Reconciliatio et paenitentia», resa pubblica il 12 dicembre 1984, nella quale si fa rilevare che «il peccato dell’uomo sarebbe vincente e alla fine distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o, addirittura sconfitto, se questo mysterium lietatis non si fosse inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato dell’uomo (n.19).

Il Papa sottolinea che «nel solco dell’insegnamento paolino, noi possiamo affermare che questo medesimo mistero dell’infinita pietà di Dio verso di noi é capace di penetrare fino alle nascoste radici della nostra iniquità, per suscitare nell’anima un movimento di conversione, per redimerla e scioglierne le vele verso la riconciliazione» (n.20).

Ma c’é nel mysterium pietatis un altro versante: la pietà di Dio verso il cristiano deve aver corrispondenza nella pietà del cristiano verso Dio. In questa seconda accezione, la pietà significa il comportamento del cristiano, che alla pietà paterna di Dio, risponde con la sua pietà filiale. «Così la Parola della Scrittura, nel rivelarci il mistero della pietà, apre l’intelligenza umana alla conversione e alla riconciliazione, intese non come alte astrazioni, ma come valori cristiani da conquistare nella nostra quotidianità» (n.22).

Il mistero della pietà é la via aperta dalla divina misericordia alla vita riconciliata. Ne consegue l’esigenza di una catechesi sulla coscienza e la sua formazione, perché «nei sussulti a cui é soggetta la cultura del nostro tempo, viene troppo spesso aggredito, messo a prova, sconvolto, ottenebrato questo santuario interiore, cioè l’io più intimo dell’uomo: la sua coscienza» (n.26).

Sulle orme di Paolo VI, anche Giovanni Paolo II non tralascia nessuna occasione per far luce su questa altissima componente della grandezza e dignità dell’uomo, su questa «sorta di senso morale, che ci porta a discernere ciò che é bene da ciò che é male... come un occhio interiore, una capacità visiva dello spirito, in grado di guidare i nostri passi sulla via del bene» (n.26).

Dalla rivelazione del valore di questo mistero di pietà e dal potere di rimettere i peccati, da Cristo conferito agli apostoli e ai loro successori, si é sviluppata nella Chiesa la coscienza del segno del perdono, conferito mediante il sacramento della riconciliazione.

4. Funzione educativa del perdono

Il perdono rappresenta l’espressione più sublime e più avvincente del precetto cristiano dell’amore. E’ precisamente dall’amore, in quanto si esprime in termini di perdono, che si riconosce la vera identità del cristiano. Nessuna concezione religiosa, all’infuori del cristianesimo, ha potuto offrire ai suoi seguaci una «regula vitae quale si riscontra nella pedagogia evangelica del perdono, rivolto non solo agli amici, ma anche ai nemici. E’ questa, in realtà, la più grande rivoluzione di tutti i tempi!

La tematica del perdono potrebbe avere un’incidenza di grande rilievo nell’ambito sia scolastico che extrascolastico, se i responsabili dell’azione educativa ne prendessero coscienza come si conviene. Ciò perché essa richiama l’uomo all’origine della sua redenzione personale, come pure di quella dell’intera umanità, e lo riporta all’esigenza dell’amore anche verso i nemici, che si esprime precisamente nel perdono.

L’esempio di Cristo che perdona ai suoi crocifissori perché non sanno quello che fanno, ha un’eco di autentica testimoniale che si ripete nei secoli. Ciò si verifica nelle espressioni ineguagliabili dei martiri, che testimoniano l’amore fino alla donazione totale della propria vita; ma si verifica anche in tante altre forme, sia pure modeste, di autentica fraternità cristiana.

Quell’esempio di Gesù crocifisso per amore degli uomini anche se non perfettamente imitabile da parte dell’uomo redento, rappresenta per i giovani d’oggi, forse più ancora che per i giovani di ieri, una forza incomparabile di attrazione, una ragion d’essere, una motivazione all’agire che li rende capaci di superare senza traumi anche gli aspetti più negativi di questa nostra società consumistica: in particolare, le manifestazioni tragiche ed aberranti della violenza e del terrorismo.

Tralasciando qui di analizzare gli aspetti teologici, morali e sociali della tematica del perdono, vogliamo coglierne alcuni elementi atti a favorire lo sviluppo maturativo della personalità umana e cristiana dei giovani d’oggi. Partendo da questa premessa, vogliamo trarre dal Vangelo alcuni semplici, ma fondamentali argomenti per educare i giovani alla prassi del perdono cristiano, ad una serena convivenza umana, ad un sincero rifiuto della violenza, e quindi ad un autentico desiderio di pace tra gli uomini.

Il primo argomento, sul quale vuol essere impostata tutta la problematica presa qui in esame, é quello stesso che dà il titolo alla ben nota enciclica di Giovanni Paolo II: Dives in misericordia, Dio ricco di misericordia, che é padre di tutti e per tutti: piccoli, grandi, poveri e ricchi, incolti e addottrinati e, diciamo pure, anche normali o no. Non va dimenticato che é propriamente la misericordia divina, che ci rende tutti uguali, con uguali diritti e uguali doveri, davanti agli uomini e davanti a Dio.

Vi é poi la figura e la funzione di Cristo nel mistero salvifico dell’Incarnazione, che ci ha rivelato il «mistero del Padre e del suo amore» per tutti gli uomini. In effetti, la rivelazione é di per sé un fatto pedagogico, in quanto implica l’intervento del Divino Pedagogo, come lo chiama Clemente Alessandrino, in mezzo agli uomini. La storia della salvezza é tutta centrata in Cristo.

Abbiamo già accennato alla centralità di Cristo nell’azione educativa odierna, alla sua immagine e funzione redentiva, come realizzazione e complemento dell’infinita misericordia del Padre. E qui, a proposito di Cristo redentore e maestro, vogliamo ricordare la figura di un grande pedagogista cattolico dei tempi nostri, Gesualdo Nosengo, che a «Gesù Maestro », amico dei giovani, ha dedicato tutta la sua vita di cristiano e di educatore. Richiamandoci a lui e facendo nostra la sua fede in Cristo, possiamo ben dire che le moderne esperienze pedagogiche racchiudono, pur senza volerlo, l’appassionata invocazione a Gesù cristo come unico e vero Maestro, quale si manifesta attraverso il Vangelo e nella testimonianza di quanti ne seguono le orme. O per combatterlo, o per difenderlo, il Vangelo sta al centro dell’agitazione pedagogica odierna.

Il Vangelo offre un complesso di principi insostituibili e, allo stesso tempo, un ineguagliabile esempio di pratica attuazione. Basterebbero questi due punti per imporlo come sistema pedagogico: «Diligite alterutrum» sul piano della teoria e «Coepit facere et docere» sul piano della pratica. Basterebbero questi due capisaldi per definire il carattere unico e rivoluzionario della dottrina evangelica.

Possiamo e dobbiamo ricavare dal Vangelo gli elementi essenziali di una «pedagogia perenne», la cui pratica costante valga a salvarci da estenuanti oscillazioni e da perniciose incertezze. Il valore di questa pedagogia evangelica può essere chiaramente affermato sia in rapporto alla società sia in rapporto ai singoli individui. In rapporto alla società, per sostituire al semplice e inadeguato concetto di coesistenza, quello veramente efficace e costruttivo di convivenza fraterna. In rapporto ai singoli individui, in quanto il Vangelo presenta un’idea unitari, una gerarchia di valori e un ideale di vita, che costituiscono una guida sicura verso la perfezione dell’uomo.

La figura del Buon Pastore, quale ci viene proposta nella parabola evangelica, é l’immagine più aderente e più sublime di Gesù, redentore e maestro degli uomini: a lui deve ispirarsi ogni sana pedagogia, ogni azione educativa e pastorale. Il Maestro conosce le imperfezioni e i difetti dei suoi discepoli; sa bene che, nonostante i suoi ripetuti preavvisi, nella notte del tradimento essi rimarranno scandalizzati per causa sua (Mt 26,31); sa bene che non tutti raggiungeranno la salvezza, perché «stretta é la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano» (Mt 7,14). L’azione educativa di Gesù non sempre sortisce risultati positivi; a volte sembra anzi subire uno scacco totale, come del resto di Giuda che lo tradisce, nonostante la potenza salvifica del suo amore.

Gesù é il medico divino che ama i suoi malati, li cura con paziente premura; ai rigori della giustizia preferisce l’amore che avvince la anime. Sono numerosi i passi del Vangelo che dimostrano come Gesù sopporti benevolmente il colpevole; non solo lo sopporta, ma ne attende il ritorno alla casa del Padre. Quando i figli di Zebedeo volevano far discendere il fuoco dal cielo per incenerire il villaggio samaritano, che si era rifiutato di accogliere il Maestro, egli li rimprovera di questo loro atteggiamento (Lc 9,52). La parabola della zizzania in mezzo al grano richiama lo stesso concetto: abbiamo qui una stupenda lezione educativa alla tolleranza e al perdono.

Gesù perdona con grande amore quando il peccatore pentito a lui fa ritorno: Quando la pubblica peccatrice, piangendo comincia a rigargli di lacrime i piedi e ad asciugarli con i capelli del suo capo, Gesù dice a Simone scandalizzato: «Io ti dico che i suoi molti peccati le sono perdonati, perché molto ha amato» (Lc 7,37). Nella parabola dl figliol prodigo, così profondamente umana e così tipicamente cristiana, abbiamo forse l’espressione più significativa dell’amore che perdona: «Questo mio figlio era morto ed é ritornato in vita; era perduto ed é stato ritrovato» (Lc 15,24).

Sulla scia della pedagogia evangelica, l’educatore é esortato a fare in modo «di non infrangere del tutto la canna rotta e di non spegnere il lucignolo fumante» (Mt 12,20). Non é superfluo oggi, sottolineare il grande valore educativo di questa norma che invita alla moderazione, che esorta a sostenere il vacillante, che dissuade dal voler reprimere ogni sintomo di resistenza, che traduce veramente in termini educativi la prospettiva cristiana del perdono.

5. Osservazioni conclusive

Al giorno d’oggi si nota, anche senza voler essere eccessivamente pessimisti, una forte crisi di identità, e quindi anche una crisi di responsabilità personale. Assai diffusa é la pretesa di risolvere o dissolvere la responsabilità della colpa nelle condizioni psicopatologiche del presunto reo o nelle disfunzioni della società stessa. Non c’é delitto, anche il più orrendo tra quelli riportati dalla cronaca, che non trovi subito l’assolutore di turno, lo psicologo o il sociologo o il criminologo, il quale é pronto a scoprire l’alibi della responsabilità. Può certamente avvenire che l’antropologia scientifica scopra delle buone ragioni che spingono alla cautela critica dell’incriminazione del reo, ma è anche vero che un’indiscriminata imputazione alla società o alla classe dominante o al fattore edipico non consentirà di trovare mai il colpevole, o anzi finirà nell’abolire semplicemente il concetto di colpa.

In effetti, all’attribuzione personale della responsabilità si preferisce l’alibi della patologia dell’inconscio, la scusante di una biografia infelice o la tara anonima di una società malata. Tocca alla riflessione educativa spiegare le ragioni di verità dalle quali il fenomeno é nato, nel processo di trasformazione profonda operata dal sostituirsi di una morale della motivazione ad una morale dell’imperatività.

Un apporto di grande rilievo a questa riflessione educativa ci viene dalla lettera apostolica di Giovanni Paolo II ai giovani in occasione dell’anno internazionale della gioventù, resa pubblica in data 27 marzo 1985. Molti riferimenti a questa lettera meriterebbero di essere qui riportati, ma ci basti questo solo richiamo: «Cristo vi interroga circa lo stato della vostra consapevolezza morale, e vi interroga al tempo stesso, circa lo stato delle vostre coscienze. Questa é una domanda-chiave per l’uomo: é l’interrogativo fondamentale della vostra giovinezza valevole per tutto il progetto di vita, che appunto deve formarsi nella giovinezza. Il suo valore é quello più strettamente unito al rapporto che ognuno di voi ha nei confronti del bene e del male morale. Il valore di questo progetto dipende in modo essenziale dall’autenticità e dalla rettitudine della vostra coscienza».

E’ stato giustamente osservato che non c’é libertà del valore, e quindi non c’é assunzione di responsabilità personale, se non nel rapporto dell’uomo singolo con i propri simili. Ciò significa che la libertà consiste non astrattamente nell’autorealizzarsi del singolo, ma nel realizzarsi del nostro essere insieme.

Se la condizione della libertà è l’intersoggettività, bisogna dedurre che il rifiuto d’integrarci nella società é il rifiuto dell’essere morale, ossia del nostro essere autenticamente liberi.

La sanzione della colpa, individuale o collettiva, in una morale della motivazione assoluta - come é certamente la morale cristiana del messaggio di Giovanni : «Dio é amore - é essenzialmente un’autopunizione. Per la colpa, individuale o collettiva, il singolo si esclude dalla comunità in cui soltanto può realizzarsi. L’alternativa del bene o del male si interiorizza nello stesso porsi dell’atto libero come scelta dell’ordine della carità, oppure come rifiuto di quest’ordine, che finisce per essere una volontaria «excomunicatio», dove ogni effettivo comunicare si arresti in una specie di radicale impotenza.

Si comprende perciò il profondo valore educativo e medicinale del sacramento della riconciliazione nell’amore: quello precisamente di farci comprendere, secondo la massima di San Tommaso (Contra Gent. III, cap 122), che «il peccato non offende Dio, se non per il fatto che noi agiamo contro il nostro bene». In questa prospettiva, non può essere operata pienamente la riconciliazione con Dio, se essa non si riempie di questo senso concreto della riconciliazione con se stessi, con gli altri, con la natura.

Da quanto si é detto ci sembra che emerga con piena evidenza il significato della responsabilità personale nel rapporto tra un autentico senso di colpa e il senso cristiano del perdono.

nota bibliografica

Vengono qui indicate alcune pubblicazioni dello scrivente che hanno un più diretto riferimento alla tematica presa in esame, e dalle quali si potranno trarre ampie indicazioni bibliografiche:

- Il sentimento di colpevolezza alla luce della psicologia normale, in «La Scuola Cattolica», n.3 (1965), pp.239-254.

- Le strutture umane della vita spirituale, Brescia, Morcelliana, 1971, pp.430.

- La libertà personale: psicologia della condotta umana, Milano Vita e Pensiero, 3a ed.riv. e aggior. 1973, pp. 408.

- Angoscia e redenzione dell’uomo nel mondo moderno, in «Pedagogia e Vita», n. 5 (1982-83), pp.469-480.

- Significato di una psicopedagogia della speranza, in AA.VV., La speranza, vol 1; Studi filosofici pedagogici, Brescia-Roma, La Scuola-Ed. Antonianum, 1983,pp.193-245.

- La norma inscritta nello psichismo umano, «Pedagogia e Vita», n.5 (1983-84), pp.465-477.

- Valori e limiti dei nuovi metodi psicoterapeutici, in AA.VV., La mente umana, Roma, Ed.Orizzonte Medico, 1984, pp.240-261.

- ancilli e. - parozzi m. (Eds), Le strutture antropologiche e l’esperienza religiosa dell’uomo, in AA.VV., La mistica fenomenologia e riflessione teologica, Roma, Città Nuova, I, 1984, pp.41-72.