Bruno Forte*

 UCCISO DAGLI UOMINI, CONSEGNATO DA DIOA VANTAGGIO DEI PECCATORI

Per una teologia della Croce come storia trinitaria dell’Amore

 

 

1.      Introduzione

         Il centro dell’economia della salvezza, il luogo sempre vivo della dispensazione dell’amore trinitario per gli uomini, è il mistero pasquale: a partire dall’esperienza del Risorto, fatta dai primi testimoni della fede cristiana, è riletto il passato, è celebrato nel presente l’incontro col Vivente nello Spirito, è annunciato il futuro del Regno. L’evento della resurrezione di Gesù dai morti è il punto di partenza del movimento cristiano, il nuovo inizio che contiene in sé tutto ciò che è specifico della fede in Cristo, nella sua inaudita singolarita[1]. La confessione trinitaria, che di questa fede è il contenuto assolutamente proprio e originale, non è che l’esplicitazione di ciò che è dato nel mistero pasquale[2]: l’evento della morte e resurrezione del Signore è il luogo della fede trinitaria, il vissuto che essa veicola, il denso compendio della gloria, sempre più grande, fattasi presente nella storia a noi accessibile. Nella prospettiva dell’economia salvifica si può dire perciò che la Trinità, prima di essere una confessione esplicita, è un evento: è per comunicare l’evento fondamentale, che è la storia di Pasqua, che la fede cristiana formulerà la confessione trinitaria e rileggerà nella memoria e nella speranza l’inera vicenda umana alla luce di essa. Si delineano così le tappe dell’offrirsi della Trinità nella storia: alla vicenda trinitaria di Pasqua si collega la rilettura trinitaria della storia da partire a Pasqua, e quindi lo sviluppo della confessione della fede trinitaria nel tempo. La teologia trinitaria si configura in tal modo anzitutto come il racconto, narrativo insieme e argomentativi, di queste tappe. E poiché «narrare le gesta del Signore significa lodarlo» (Cassiano), essa si offre, proprio nel suo genere narrativo, come dossologia, teologia di risposta e di celebrazione…

 

 

 

 

2.      La storia trinitaria di Pasqua[3]

a)      L’esperienza pasquale

         All’inizio vi fu l’esperienza di un incontro[4]: ai pavidi fuggiaschi del Venerdì Santo, Gesù si mostrò vivente (cf At 1,3). Quest’incontro fu talmente decisivo per loro, che la loro esistenza ne venne totalmente trasformata: alla paura succede il coraggio; all’abbandono l’invio; i fuggitivi divengono i testimoni, per esserlo ormai fino alla morte, in una vita donata senza riserve a Colui, che pure avevano tradito nell’”ora delle tenebre”. Che cosa era avvenuto Uno iato sta fra il tramonto del Venerdì Santo e l’alba di Pasqua: uno spazio vuoto, in cui è accaduto qualcosa di talmente importante, da dare origine di fatto al movimento cristiano della storia. Dove lo storico profano non può che constatare questo “nuovo inizio”, rinunciando a spiegarne le cause dopo il fallimento delle varie interpretazioni “liberali” della nascita della fede pasquale, che tendevano a farne un’esperienza puramente soggettiva dei discepoli[5], l’annuncio cristiano, registrato dei testi del Nuovo Testamento, confessa l’incontro col Risorto come esperienza di grazia: e a questa esperienza ci dà accesso specialmente attraverso i racconti delle apparizioni. I cinque gruppi di racconti (la tradizione paolina: 1 Cor 15,5-8; quella di Marco: Mc 16,9-20; quella di Matteo: Mt 28,9-10. 16-20; quella lucana: Lc 24,13-53; e quella giovannea Gv 20,14-229 e 21)[6] non si lasciano fra loro armonizzare nei dati “bruti”: essi, tuttavia, sono costruiti tutti su una medesima struttura, che lascia trasparire le caratteristiche fondamentali dell’esperienza di cui parlano. Vi si trova sempre l’iniziativa del Risorto, il processo di riconoscimento da parte dei discepoli, la missione, che fa di essi i testimoni di ciò che hanno «udito e visto con i loro occhi e contemplato e toccato con le loro mani» (cf. 1Gv 1,1). L’iniziativa del Risorto, il fatto che sia Lui a mostrarsi vivente (cf. At 1,3), ad “apparire” (cf. il verbo ophthê, usato in Cor 15,3-8 e Lc 24,34, che nell’Antico Testamento in greco è adoperato per descrivere le teofanie: cf. Gen 12,7; 17,1; 18,1; 26,2), dice che l’esperienza degli uomini delle origini cristiane ebbe un carattere di “oggettivita”: fu qualcosa che capitò a loro, qualcosa che “venne” a loro, non qualcosa che “divenne” in loro. Non fu la commozione della fede e dell’amore a creare il suo oggetto, ma fu il Vivente a suscitare in modo nuovo la fede e l’amore. Ciò non esclude, tuttavia, il processo spirituale, che è stato necessario ai primi credenti per “credere ai loro occhi”, per aprirsi interiormente a quanto avvenuto in Gesù Signore: è quanto assicura l’itinerario progressivo – sottolineato spesso con cura nel Nuovo Testamento, forse contro possibili tentazioni “entusiastiche” – che porta dallo stupore e dal dubbio al riconoscimento del Risorto: «Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero» (Lc 24,31).

Questo processo dice la dimensione soggettiva e spirituale dell’esperienza fontale della fede cristiana, e garantisce lo spazio della libertà e della gratuità dell’assenso credente. Si compie così l’esperienza dell’incontro: in un rapporto di conoscenza diretta e rischiosa (esperienza, da ex-perior, connota il conoscere diretto del peritus e il rischio ad esso congiunto, il periculum), il Vivente si offre ai suoi e li rende viventi di vita nuova, la Sua, testimoni di Lui, quell’incontro con Lui che ha segnato per sempre la loro esistenza: «Andate in tutto il mondo, predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). «Dio lo ha risuscitato da morte, e di questo noi siamo testimoni» (At 3,15; cf 5,31s., come pure 1,22; 2,32; 10,40s.).

L’esperienza pasquale – oggettiva e soggettiva insieme – per la forza dell’incontro fra il Vivente e i suoi, si presenta dunque come esperienza trasformante: da essa ha origine la missione, in essa trae impulso il movimento che si dilaterà fino agli estremi confini della terra. Essa si offre allora come esperienza di una duplice identità nella contraddizione: la prima, fra Cristo risuscitato e l’umiliato della Croce; la seconda, fra i fuggiaschi del Venerdì Santo e i testimoni di Pasqua. Nel Risorto viene riconosciuto il Crocifisso: e questo riconoscimento, che lega la suprema esaltazione alla suprema vergogna, fa si che la paura dei discepoli si trasformi in coraggio ed essi divengano uomini nuovi, capaci di amare la dignità della vita ricevuta in dono più della vita stessa, pronti al martirio.

         Perché l’esperienza dell’incontro col Risorto cambia così profondamente l’esistenza dei discepoli? La risposta è possibile solo se ci si apre, con essi, all’approfondimento trinitario degli eventi pasquali: la resurrezione e la croce, momenti della storia del profeta Galileo, sono colti come atti in cui è intervenuto su di lui il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri» (At 3,13), che ha agito “con potenza secondo lo Spirito di santificazione” (Rm 1,4). Quello stesso Dio ci ha dimostrato in tutto questo il suo amore (cf. Rm 5,8), benedicendoci «con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo», riversando su di noi “la ricchezza della sua grazia”, suggellandoci in Cristo con lo Spirito Santo (cf. l’inno di Ef 1,3-14).

La presenza del Padre, la sua iniziativa nello Spirito, si offrono come il fondamento e l’origine ultima tanto dell’identità nella contraddizione fra il Crocifisso e il Risorto, quanto dell’identità nella contraddizione da questa scaturente fra gli uomini vecchi della paura e del rinnegamento e gli uomini nuovi della testimonianza fino al dono della vita. Secondo la fede delle origini, Pasqua diventa storia nostra, perché è storia trinitaria di Dio…

 

 

 

b)      La resurrezione come storia trinitaria[7]

         È storia trinitaria anzitutto la resurrezione del Crocifisso: la testimonianza ampia dei testi afferma che Cristo è stato resuscitato[8]. L’iniziativa è di Dio, il Padre[9]: «Dio lo ha resuscitato» (At 2,24; la formula ritorna continuamente negli Atti). La resurrezione è un’azione potente di Dio, “Padre della gloria”, che mostra in essa “la straordinaria grandezza della sua potenza”, “l’efficacia della sua forza” (Ef 1,19). In essa il Padre fa storia, perché prende posizione sul Crocifisso dichiarandolo Signore e Cristo: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36). Alla luce del duplice significato – teologico e soteriologico – di questi titoli[10], si comprende come l’atto del Padre autorizzi a riconoscere nel passato del Nazareno la storia del Figlio di Dio fra gli uomini, nel suo presente il Vivente vincitore della morte, e nel suo futuro il Signore che tornerà nella gloria. Nella resurrezione Dio si offre attivamente come Padre del Figlio incarnato, che è vivente per noi e verrà negli ultimi giorni. Al tempo stesso il Padre prende posizione a Pasqua sulla storia degli uomini: rispetto al passato egli giudica il trionfo dell’iniquità avvenuto sulla croce dell’Umiliato, pronunciando il suo “no” rispetto al peccato del mondo: «avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà, ne ha fatto pubblico spettacoli dietro al corteo trionfale di Cristo» (Col 2,15); rispetto al presente egli si offre come il Dio e Padre di misericordia, che nel “sì” al Crocifisso pronuncia il suo “sì” liberatore su tutti gli schiavi del peccato e della morte: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo… Con lui ci ha anche resuscitati» (Ef 2,4-6; cf. Rm 5,8; Col 2,13; ecc); rispetto al nostro futuro egli si presenta come il Dio della promessa, che ha adempiuto fedelmente «ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti» e garantisce i tempi della consolazione, quando manderà di nuovo il suo Unto Gesù (cf. At 3,18-20). La resurrezione, storia del Padre, è dunque il grande “sì” che il Dio della vita dice sul Figlio suo e in lui su di noi, prigionieri della morte: perciò essa è il tema dell’annuncio e il fondamento della fede, capace di dare senso e speranza alle nostre opere e ai giorni: «Se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede» (1 Cor15,14).

         Storia del Padre, la resurrezione è anche storia del Figlio: è ampiamente attestata la tradizione che afferma: “Cristo è risorto” (cf. Mc 16,6; Mt. 27,64; 28,67; Lc 24,6. 34; 1 Ts 4,14; 1 Cor 15,3-5; Rm 8,34; Gv 21,14; ecc). Il Gesù prepasquale dice: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere»; e l’evangelista commenta: «Egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,19 e 21). Questo ruolo attivo del Figlio nell’evento pasquale non contraddice in nulla l’iniziativa del Padre: «Se alla estrema obbedienza del Figlio conveniva che egli si lasciasse risuscitare dal Padre, appartiene, in misura non minore, al compimento di questa obbedienza che egli si lasci “dare” dal Padre “ di avere la vita in se stesso” (Gv 5,26)»[11]. La proclamazione che Gesù è il Signore è sempre “a gloria di Dio Padre” (Fil 2,11)! Cristo dunque risorge, prendendo attivamente posizione rispetto alla sua storia e a quella degli uomini per i quali si è offerto alla morte: se la sua croce è il trionfo del peccato, della Legge e del potere, perché egli è stato “consegnato” dall’infedeltà dell’amore (la “consegna” di Giuda: Mc 14,10), dall’odio dei rappresentanti della Legge (la “consegna” del Sinedrio: Mc 15,1), e dall’autorità del rappresentante di Cesare (la “consegna” di Pilato: Mc 15,11), la sua resurrezione è la sconfitta del potere, della Legge e del peccato, il trionfo della libertà, della grazia e dell’amore. In lui che risorge, la vita vince la morte: l’abbandonato, il bestemmiatore e il sovversivo è il Signore della vita (cf. Rm 5,12-7,25: la liberazione dal peccato, dalla morte e dalla Legge operata da Cristo). Rispetto al passato, il Risorto ha confermato la sua pretesa prepasquale confondendo la sapienza dei sapienti (cf. 1 Cor 1,23s.) e ha abbattuto il muro dell’inimicizia, frutto dell’iniquità (cf. Ef 2,14-18). Rispetto al presente, egli si offre Vivente (cf At 1,3) e datore di vita (cf. Gv 20,21); rispetto al futuro, egli è il Signore della gloria, la primizia dell’umanità nuova (cf. 1 Cor 15, 20-28). Pasqua è storia del Figlio e, proprio per questo, è anche storia nostra, perché per noi il Risorto ha vinto la morte e ha dato la vita.

         La resurrezione è infine storia dello Spirito: è nella sua forza che Cristo è stato resuscitato: «messo a morte nella carne, (è) reso vivo nello spirito» (1 Pt 3,18). Gesù è stato costituito dal Padre «Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dei morti» (Rm 1,4). Lo Spirito è anzitutto colui che è donato dal Padre al Figlio perché l’Umiliato venga esaltato, e il Crocifisso viva la vita nuova del Risorto: ed insieme è colui che il Signore Gesù dona secondo la promessa (cf. Gv 14,16; 15,26; 16,7): «Questo Gesù Dio l’ha resuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Pertanto innalzato alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso» (At 2,32s.).

         Lo Spirito si situa dunque nell’evento pasquale in quanto costituisce il duplice legame fra Dio e il Cristo e fra il Risorto e noi: egli congiunge il Padre al Figlio, risuscitando Gesù dai morti, e gli uomini al Risorto, rendendoli vivi di vita nuova. Egli garantisce la duplice identità nella contraddizione sperimentata da coloro che hanno vissuto l’esperienza pasquale: fa del Crocifisso il Vivente, e dei prigionieri della paura e della morte i testimoni liberi e coraggiosi della vita e dell’amore. Non è il Padre, perché è dato da Lui; non è il Figlio, perché il Risorto lo riceve e lo dona: è Qualcuno che, mai separato da loro, è distinto e autonomo nella sua azione, come attesta ad esempio il mandato missionario di battezzare “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19), o il saluto probabilmente di origine liturgica: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito (siano) con tutti voi» (2 Cor 13,13).

         Storia del Padre, del Figlio e dello Spirito la resurrezione di Gesù da morte è dunque evento della storia trinitaria del Dio: in esso la Trinità si offre come l’unità del Risuscitante, del Risuscitato e dello Spirito di resurrezione e di vita, donato e ricevuto, l’unità di Dio dei padri, che dà vita nel suo Spirito al Crocifisso, proclamandolo Signore e Cristo, Figlio di Dio, e il Risorto, che accogliendo lo Spirito dal Padre lo dona agli uomini perché abbiano parte alla comunione di vita nello Spirito con Lui e col Padre. Nella resurrezione la Trinità si presenta nell’unità del duplice movimento dal Padre nello Spirito al Figlio, e dal Padre per il Figlio nello Spirito agli uomini, nell’unità cioè della resurrezione di Cristo e della nostra vita nuova in Lui: l’evento pasquale rivela l’unità della Trinità aperta a noi nell’amore, e perciò è offerta di salvezza nella partecipazione alla vita del Padre, del Figlio e dello Spirito. La Trinità, storia trinitaria di Dio rivelata a Pasqua, è storia di salvezza, storia nostra…

 

c)      La croce come storia trinitaria[12]

         La resurrezione è presa di posizione del Dio vivo sul suo Cristo, nello Spirito, rispetto al passato della croce: senza la croce, l’evento del risuscitamento del Crocifisso è inconcepibile. Si può dire che senza la croce la resurrezione è vuota; come, peraltro senza la resurrezione la croce è cieca, priva di futuro e di speranza. Se allora la resurrezione è evento della storia trinitaria, non di meno lo è la croce: anche la croce è storia trinitaria di Dio! La comunità nascente ha intuito molto presto la verità della croce come storia trinitaria: lo dimostra non solo il grande spazio dato al racconto della passione del Nazareno nell’annuncio della chiesa delle origini (non sono i Vangeli “storie della passione con una introduzione particolareggiata”, secondo la fortunata espressione di M. Kähler?), ma anche la precisa strutturazione teologica che soggiace alle narrazioni della passione. Questa struttura può essere colta attraverso il ritorno constante, certamente non casuale, del verbo “consegnare” (paradidonai)[13]: è possibile distinguere due gruppi di consegne. Il primo è costituito dal succedersi delle “consegne” umane del Profeta galileo: il tradimento dell’amore lo consegna agli avversari: «Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai sommi sacerdoti, per consegnare loro Gesù» (Mc 14,10). Il sinedrio, custode e rappresentante della Legge, consegna il bestemmiatore al rappresentante di Cesare: «Al mattino i sommi sacerdoti, misero in catene Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato» (Mc 15,1). Questi, pur convinto della sua innocenza – “Che male ha fatto?” (Mc 15,14) – cede alla pressione della folla, sobillata dai suoi capi (cf 15,11): «Dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso» (Mc 15,15). Abbandonato dai suoi, ritenuto un bestemmiatore dai signori della Legge e un sovversivo dal rappresentante del potere, Gesù va incontro alla sua fine: se tutto si fermasse qui, la sua sarebbe una delle tante morti ingiuste della storia, dove un innocente rantola nel suo fallimento di fronte all’ingiustizia del mondo.

Ma la comunità nascente – segnata dall’esperienza pasquale – sa che non è così: per questo essa ci parla di altre tre misteriose consegne. La prima è quella che il Figlio fa di se stesso: l’ha espressa con evidenza Paolo: «Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20: cf. 1,4; 1 Tm 2,6; Tt2,14); «Camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha consegnato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2; cf 5,25). Si sente in queste espressioni la corrispondenza con la testimonianza evangelica: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!» (Lc 23,46: citazione del Sal. 31,6). «E chinato il capo consegnò lo Spirito» (Gv 19,30). Il Figlio si consegna al Dio e Padre suo per amore nostro e al nostro posto: e la consegna ha tutto lo spessore della dolorosa offerta. In essa si consuma nella forma suprema la dedizione di Gesù al Padre e – nella luce di Pasqua – si lascia intravedere nel tempo della finitudine la relazione eterna del dono infinito di sé, che il Figlio vive con Dio suo Padre. Il cammino del Figlio verso l’alterità, il suo “consegnarsi” alla morte è la proiezione nell’economia di ciò che avviene nell’immanenza del mistero… Attraverso questa consegna il Crocifisso fa storia: egli prende su di sé il carico del dolore e del passato, presente e futuro del mondo, entra fino in fondo nell’esilio da Dio per assumere quest’esilio dei peccatori nell’offerta e nella riconciliazione pasquale: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: «Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede» (Gal 3,13s.). Non è il grido di Gesù morente il segno dell’abisso di dolore e di esilio che il Figlio ha voluto assumere per entrare nel più profondo della sofferenza del mondo e portarla alla riconciliazione col Padre? «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; cf. Mt 27,46)[14].

         Alla consegna che il Figlio fa di sé, corrisponde la consegna del Padre: essa è già indicata dalle formule del cosiddetto “passivo divino”: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno» (Mc 9,31 e par.; cf. 10,33. 45 e par.; Mc 14,41s. = Mt 26,45b-46). A consegnarlo non saranno gli uomini, nelle cui mani sarà consegnato, né sarà egli stesso, perché il verbo è passivo. Chi lo consegnerà sarà Dio, suo Padre: «Dio infatti a tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede il lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32). È in questa consegna che il Padre fa del proprio Figlio per noi, che si rivela la profondità del suo amore per gli uomini: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10; cf. Rm 5,6-11). Anche il Padre fa storia nell’ora della croce: egli, sacrificando il proprio Figlio, giudica la gravità del peccato del mondo, passato, presente e futuro, ma mostra anche la grandezza del suo amore misericordioso per noi. Alla consegna dell’ira - «Dio li ha consegnati all’impurità» (Rm 1,18ss.) – succede la consegna dell’amore! L’offerta della croce indica nel Padre sofferente la sorgente del dono più grande, nel tempo e nell’eternità: la croce rivela che «Dio (il Padre) è amore» (1 Gv 4,8.16)! La sofferenza del Padre - che corrisponde a quella del Figlio crocifisso come dono e offerta sacrificale di Lui, e che è evocata da quella di Abramo nell’offerta di Isacco suo figlio “unigenito” (cf. Gen 22,12; Gv 3,16 e 1 Gv 4,9) – non è che l’altro nome del suo amore infinito: la suprema, dolorosa consegna è, nel Figlio, come nel Padre, il segno del supremo amore che cambia la storia: «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i proprio amici. Voi siete miei amici… Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,13).

         Storia del Figlio, storia del Padre, la croce è parimenti storia dello Spirito: l’atto supremo della consegna è l’offerta sacrificale dello Spirito, come ha colto l’evangelista Giovanni: «Chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30). È “con uno Spirito eterno” che il Cristo «offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb 9,14). Colui che si è offerto sulla croce è peraltro l’Unto del Padre: «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret… Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo giorno» (At 10,38.40). Il Crocifisso consegna al Padre nell’ora della croce lo Spirito che il Padre gli aveva donato, e che gli sarà dato in pienezza nel giorno della resurrezione: il Venerdì Santo, giorno della consegna che il Figlio fa di sé al Padre e che il Padre fa del Figlio alla morte per i peccatori, è il giorno in cui lo Spirito è consegnato dal Figlio al Padre suo, perché il Crocifisso resti solo, nella lontananza da Dio, nella compagnia con i peccatori[15]. È l’ora della morte in Dio, dell’avvenimento della separazione fra il Padre e il Figlio, nella loro pur sempre più grande comunione nello Spirito Santo, evento che si consuma nella consegna dello stesso Spirito al Padre, e che rende possibile il supremo esilio del Figlio nell’alterità del mondo, il suo divenire “maledizione” nella terra dei maledetti da Dio, perché questi insieme con lui possano entrare nella gioia della riconciliazione pasquale. Senza la consegna dello Spirito la croce non apparirebbe in tutta la sua radicalità di evento trinitario e salvifico: se lo Spirito non si lasciasse consegnare nel silenzio della morte, con tutta la lacerazione che essa porta con sé, l’ora delle tenebre potrebbe essere equivocata come quella di una oscura morte di Dio[16], dell’incomprensibile spegnersi dell’Assoluto, e non verrebbe intesa, come è, come l’atto che si svolge in Dio, l’evento della storia dell’amore del Dio immortale, per il quale il Figlio entra nel più profondo dell’alterità dal Padre in obbedienza a Lui, lì dove incontra i peccatori, e il Padre consegna per amore il Figlio a questo supremo esilio, perché nel giorno escatologico di Pasqua (“il terzo giorno”) gli esiliati da Dio tornino col Figlio, in lui e per lui alla comunione col Padre: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2 Cor 5,21; cf. Rm 8,3). «Qualunque sia la lontananza dell’uomo peccatore nei riguardi di Dio, essa è sempre meno profonda del distanziarsi del Figlio rispetto al Padre nel suo svuotamento chenotico (cf. Fil 2,7) e della miseria dell’“abbandono” (Mt 27,46). Questo è l’aspetto proprio dell’economia della redenzione della distinzioni delle Persone della Santa Trinità, che peraltro sono perfettamente unite nell’identità d’una stessa natura e di un amore infinito»[17]. La consegna dello Spirito dice l’esilio del Figlio in obbedienza alla consegna del Padre, e quindi la salvezza resa possibile ai lontani nella compagnia del Crocifisso. Nell’ora della croce, allora, lo Spirito stesso fa storia: storia in Dio, perché consegnato al Padre rende possibile l’alterità del Figlio da Lui nella solidarietà con i peccatori, pur nell’infinita comunione espressa dall’obbedienza sacrificale del Crocifisso; storia nostra, perché in tal modo rende il Figlio vicino a noi, consentendo ai lontani di aprirsi nell’esilio la via col Figlio verso la patria della comunione trinitaria di Pasqua.

         Storia del Figlio, del Padre e dello Spirito, la croce è storia trinitaria di Dio: «Nella croce eretta sul Golgota si è manifestato il cuore eterno della Trinità»[18]. «La teologia della consegna può essere compresa fino in fondo solo in senso trinitario»[19]: «ciò che tradizionalmente veniva chiamato “espiazione vicaria” deve venir compreso, trasformato ed esaltato come avvenimento trinitaro»[20]. La figura trinitaria si offre sulla croce nell’unità del Figlio, che si consegna, del Padre, che lo consegna, dello Spirito, consegnato dal Figlio e accolto dal Padre: «Se si comprende la croce di Gesù come avvenimento di Dio, come avvenimento che coinvolge tanto Gesù come il suo Dio e Padre, si sarà costretti a parlare trinitariamente del Figlio, del Padre e dello Spirito. La dottrina trinitaria non è quindi una speculazione su Dio, gratuita e priva di ogni incidenza pratica, ma solo il compendio della storia della passione di Cristo nel significato che essa riveste per la libertà escatologica della fede e della vita della natura oppressa… Il contenuto della dottrina trinitaria è la croce reale di Cristo. La forma del Crocifisso è la Trinità»[21]. La croce dice dunque che la Trinità fa suo l’esilio del mondo sottoposto al peccato, perché questo esilio entri a Pasqua nella patria della comunione trinitaria. La croce è storia nostra perché è storia trinitaria di Dio: essa non proclama la bestemmia di una morte di Dio, che faccia spazio alla vita dell’uomo prigioniero della sua autosufficienza[22], ma la buona novella della morte in Dio, perché l’uomo viva della vita del Dio immortale, nella partecipazione alla comunione trinitaria, resa possibile grazie a quella morte. Sulla croce la “patria” entra nell’esilio, perché l’esilio entri nella “patria”: in essa è offerta la chiave della storia! «La “storia di Dio”, concreta nella morte di croce di Gesù sul Golgota, contiene tutte le profondità e gli abissi della storia umana e potrà essere compresa come la storia della storia. Ogni storia umana, per quanto contrassegnata dalla colpa e dalla morte, è assunta in questa “storia di Dio”, cioè nella Trinità, e integrata nel futuro della “storia di Dio”»[23]. La croce rinvia così alla Pasqua: l’ora dello iato rimanda a quella della riconciliazione, l’impero della morte al trionfo della vita! L’alterità del Figlio dal Padre nel Venerdì Santo, che si consuma nella dolorosa consegna dello Spirito, il suo “discendere agli inferi” nella solidarietà con tutti quelli che furono, sono e saranno prigionieri del peccato e della morte, è orientata, nell’unità del mistero pasquale, alla riconciliazione del Figlio col Padre, compiutasi al “terzo giorno”, mediante il dono che il Padre fa dello Spirito al Figlio in lui e per lui agli uomini lontani, così riconciliati: «In Cristo Gesù voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al suo sangue. Egli è la nostra pace… Per mezzo di lui possiamo presentarci al Padre in un solo Spirito» (Ef. 2,13s. 18). Alla lontananza della croce segue la comunione della resurrezione: e ciò in Dio e per il mondo!«Solo se si riconosce fin dal principio la dimensione trinitaria dell’evento si può parlare in maniera adeguata del “pro nobis” e del “pro mundo”. Da una parte, nella contrapposizione delle due volontà del Padre e del Figlio nell’orto degli ulivi e nell’abbandono da parte di Dio del Figlio sulla croce, si è resa visibile l’opposizione economica più alta fra le persone divine, dall’altra parte, per colui che riflette in profondità, è proprio questa opposizione a costituire l’ultima manifestazione dell’intero unitario agire salvifico di Dio, la cui consequenzialità intrinseca si manifesta a sua volta nell’unità inscindibile della morte di croce e della resurrezione»[24]. La morte di Dio per il mondo del Venerdì Santo passa a Pasqua nella vita in Dio del mondo: proprio perché essa non è la morte del peccato, ma la morte nell’amore, essa è la morte della morte, che non lacera, ma riconcilia, non nega l’unità divina, ma sommamente l’afferma in sé e per il mondo. L’unità nella forte alterità dei due momenti è peraltro densamente veicolata dalle formule pasquali, che confessano Signore e Cristo quel Gesù, umiliato nella vergogna della croce: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At. 2,36; cf. pure 10,36; 1 Cor 12,3; 2 Cor 4,5; 1 Gv 2,22; ecc.). Queste formule, di origine catechetica (cf. 1 Cor 15,3-8; Lc 24,34; Rm 1, 3-5) o liturgica (cf. Fil 2,6-11; Ef 5,14; 1 Tm 3,16), narrando i due stadi della vicenda pasquale – l’umiliazione e l’esaltazione – come propri dell’unico soggetto, mostrano l’identità nell’alterità del Crocifisso e del Risorto, della croce e della resurrezione, come eventi dell’unica storia trinitaria di Dio.

         Se sulla croce il Figlio consegna lo Spirito al Padre entrando nell’abisso dell’alterità da Dio, nella resurrezione il Padre dona lo Spirito al Figlio, assumendo in lui e con lui il mondo nell’infinita comunione divina: uno è il Dio trinitario che agisce nella croce e nella resurrezione, una la storia trinitaria di Dio, uno il disegno di salvezza che si realizza nei due momenti. «Nel suo mistero pasquale Gesù ci offre l’immagine perfetta della vita trinitaria»[25]. L’alterità e la comunione dei Tre risplendono in pienezza negli eventi della croce e della resurrezione; la tragedia del peccato e la gioia della riconciliazione vi sono presenti nella storia trinitaria di separazione e di comunione per amore del mondo. Croce e resurrezione sono storia nostra, perché sono storia trinitaria di Dio! La confessione della Trinità nell’unità del mistero si offre allora come l’altro nome dell’evento pasquale di morte e di vita in Dio, e perciò come l’altro nome della nostra salvezza.


*     Forte prof. Bruno, docente di Cristologia nella Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, decano della stessa facoltà, responsabile per il Sud Italia dell’Associazione Teologica Italiana.

[1]     Cf. B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Roma 1984, 88ss. (“II punto di partenza: la resurrezione”).

[2]     Sul rapporto evento pasquale – Trinità nella teologia contemporanea cf. P. Coda, Evento pasquale, Trinità e storia, Roma 1984.

[3]     Cf. per quanto segue la proposta di teologia narrativa del mistero pasquale di H.U. v. Balthasar, Mysterium paschale, in Mysterium Salutis 6, Brescia 1971, 171-412.

[4]     Cf. E. Schillebeeckx, Gesù la storia di un vivente, Brescia 1976 e Il Cristo, la storia di una nuova prassi, ivi 1980.

[5]     Per la storia e la valutazione della ricerca “liberale” su Gesù cf. l’opera classica di A. Schweitzer, Geschichte der Leben – Jesù – Forschung, Tübingen 1913. Cf. pure B. Forte, Gesù di Nazaret…, op. cit., 97 e 103ss. («Il problema storico del rapporto fra il Gesù pre-pasquale e il Cristo post-pasquale»).

[6]     Cf. ib., 96-102.

[7]     Cf. tra l’altro: A. Ammassari, La resurrezione, 2 voll., Roma 1976; P. Benoit, Passione e resurrezione del Signore. Il mistero pasquale nei quattro evangeli, Torino 1967; Dibattito sulla risurrezione di Gesù, Brescia 1969; G. Giovini, La risurrezione di Gesù, Milano 1973; X. Léon – Dufour, Resurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Roma 1973; W. Marxsen, La resurrezione di Gesù di Nazaret, Bologna 1970; G. O’Collins, Il Gesù pasquale, Assisi 1975; La résurrection de Jésus et l’exégèse moderne, Paris 1969; Resurrexit. Actes du symposium international sur la Résurrection de Jesús (1970), Roma 1974; B. Rigaux, Dio l’ha risuscitato. Esegesi e teologia biblica, Milano 1976; P. Carrella, La risurrezione di Gesù. Storia e messaggio, Assisi 1973. Una lettura sistematica del rapporto resurrezione – Trinità è tentata in B. Forte, Gesù di Nazaret..., op. cit., pure W. Pannenberg, Cristologia. Lineamenti fondamentali, Brescia 1974.

[8]     Cf. At 2,24; 3,15; 4,10; 5,30; ecc. Cf. pure: 1Ts 1,10; 1 Cor 6,14; 15,15; 2 Cor 4,14; Gal. 1,1; Rm. 4,24; 10,9; 1 Pt. 1,21- Altrove si dice che Gesù risorge: cf. infra. Sembra che la forma più antica sia quella indicante il risuscitamento di Gesù da parte di Dio: c’è però chi sostiene che questa formulazione sarebbe stata assunta in un secondo momento per non contrastare il rigido monoteismo ebraico, che riconosceva in Dio l’esclusivo padrone della vita e della morte. Cf. ad esempio: X. Léon-Dufour, Resurrezione di Gesù e messaggio pasquale, op. cit., 37ss.

[9]     L’equivalenza fra “Dio” e “il Padre” nel Nuovo Testamento è praticamente totale: cf. K. Rahner, Theos nel Nuovo Testamento, in Saggi teologici, Roma 1965, 549ss.

[10]    Cf. B. Forte, Gesù di Nazaret…, op. cit., 37ss.

[11]    H.U. v. Balthasar, Mysterium paschale, op. cit., 346.

[12]    H.U. v. Balthasar, Mysterium paschale, op. cit., 284ss. (“Croce e Trinità”); M. Flick-Z. Alszeghy, Il mistero della Croce. Saggio di teologia sistematica, Brescia 1978; B. Forte, Gesù di Nazaret…, op. cit., 266ss. (“La Croce”); E. Jüngel, Dio, mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa fra teismo e ateismo, Brescia 1982; X. Léon-Dofour, Di fronte alla morte, Gesù e Paolo, Torino 1982; J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Brescia 1973; Id., Trinità e Regno di Dio, ivi 1983; 30ss. (“La passione di Dio”) e 86ss. (“La consegna del Figlio”); M. Salvati, Croce e Trinità. Saggio di lettura trinitaria della Croce come vertice di rivelazione, (datt.) Pont. Univ. S. Thoma Aq., Roma 1982; H. Schürmann, Jesu ureigener Tod, Leipzig 1975.

[13]    Cf. W. Popkes, Christus traditus. Eine Untersuchung zum Begriff der Dahingabe im Neuen Testament, Zürich 1967.

[14]    Cf. Il panorama esegetico e teologico tracciato da G. Rossé, Jesús Abandonné. Approches du mystère, Paris 1983.

[15]    Nei testi intertestamentari l’esilio è il tempo dell’assenza dello Spirito, percorso dall’attesa dell’effusione messianica dello Spirito stesso; cf. Salmi di Salomone 17,42; Henoch etiopico 49,2; 62,2; Testamento di Giuda 24,2; Testamento di Levi 18,7. Il racconto pasquale mostra un Messia che entra nell’esilio dell’assenza dello Spirito per riempire poi quest’esilio dell’effusione nuova del dono dello Spirito senza misura.

[16]    Cf. K. Rahner, in Sacramentum Mundi 4, brescia 1975, 215s. («La morte di Gesù come morte di Dio»).

[17]    Commissione Teologica Internazionale (CTI), Alcune questioni riguardanti la cristologia, in La Civiltà Cattolica 131 (1980) n. 3129, IV D. 8.

[18]    J. Moltmann, Trinità e Regno di Dio, op. cit., 41.

[19]    H.U. v. Balthasar, Mysterium paschale, op. cit., 258.

[20]    CTI, Alcune questioni…, op. cit., IV C. 3.5.

[21]    J. Moltmann, Il Dio crocifisso, op. cit., 287; cf. pure 281 e E. Jüngel, Dio, mistero del mondo, op. cit., 447: «Nel concetto del Dio trino» la fede pensa e professa la storia della croce del Signore.

[22]    Non sta il limite più grande della cosiddetta “teologia atea” o “teologia della morte di Dio” nell’assoluta carenza di pensiero trinitario? Il tema della “morte di Dio” può essere cristianamente inteso solo trinitariamente come “morte in Dio”: cf. E. Jüngel, ib., 288.

[23]    J. Moltmann, Il Dio crocifisso, op. cit., 288.

[24]    H.U. v. Balthasar, Mysterium paschale, op. cit., 341s.

[25]    G. Lafont, Peut – on connaître Dieu en Jésus-Christ?, Paris 1969, 261.