Xavier Léon Dufour*

GESÙ DINANZI ALLA MORTE

 

          Sono stato invitato a parlarvi di Gesù dinanzi alla morte e più generalmente dell’uomo dinanzi alla morte. Di fatto, la nostra generazione sembra subire il fascino di ciò che vent’anni fa era ancora uno spettro da cui si rifuggiva; si tenta di riparlare della morte, come per ridurne lo scandalo, per renderla più familiare. Ma la ragione principale che mi ha spinto ad affrontare il mistero della morte sono le deformazioni del linguaggio religioso in argomento. Penso che voi tutti desideriate verificare il valore del linguaggio al quale – almeno per la maggioranza di voi – il catechismo vi ha abituati.

          Il modo di parlare abituale, quello usato, per esempio, da un uomo, pur di grande cultura, che dichiara alla radio: «Come è possibile accettare una religione la quale presenta un Dio che manda suo Figlio alla morte per salvarci? È onesto oggi credere in questo Dio crudele, di cui Abramo, che sacrifica il figlio amatissimo, sarebbe una prefigurazione?». Il modo di parlare abituale è, per fare un altro esempio, quello che si rivela in America Latina, attraverso i Cristos de los dolores, i quali mettono in mostra le loro piaghe sanguinanti per invitare i poveri a sopportare con pazienza l’oppressione che li mantiene nella miseria, oppure quello del predicatore che presenta le sofferenze di Gesù come il mezzo con il quale si è attuata la Redenzione.

          Questo modo di comprendere la morte di Gesù proviene da una data teologia e da una dato catechismo. Se nel mondo esiste la morte, si dice, è in conseguenza del peccato. E l’ordine della giustizia distrutto dal peccato può essere ristabilito soltanto con una sanzione. Per riparare l’offesa fatta a Dio, era necessario che un Dio in persona soffrisse e espiasse. Nella prospettiva detta della “soddisfazione”, il Padre esigeva quindi la morte di un Figlio che si presentava allora come mediatore. Del resto anche San Luca sembra dirlo: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze?» (24,26). La nostra morte avrebbe acquisito un significato dal fatto che Gesù, il Figlio di Dio, l’avrebbe accettata come il mezzo necessario per redimere l’umanità. «Ci ha salvato mediante la sua morte»: con la sua morte e spargendo il proprio sangue, egli avrebbe placato la collera di Dio e ristabilito l’ordine della giustizia. Così quando l’uomo unisce la propria morte a quella di Cristo, ne scopre un significato. Perciò dovrebbe accogliere la sofferenza e la morte come veri doni di Dio. Notiamo che questo invito ha il suo senso. Tuttavia rischia di occultare la verità e di condurre a degli eccessi.

          A quali conseguenze hanno portato spiegazioni del genere? Certamente a dei comportamenti eroici che bisogna ammirare, ma anche a dei cedimenti inaccettabili di fronte all’ingiustizia del mondo. Pur senza volerlo, ma con la complicità dell’istinto di passività tipico dell’uomo, una simile interpretazione concorreva a un comportamento di rassegnazione di fronte alla fatalità del male, tanto nei possidenti che negli sprovveduti.

Di fronte a questi risultati, chi non capirebbe la ribellione degli animi sensibili? Così si apre la strada a una rivoluzione che vorrebbe mandar per aria tutto, non solo l’ordine sociale ingiusto, ma anche la religione che ne era stata a sostegno. Come non rifiutare l’immagine di un Dio che sembra compiacersi della sofferenza del proprio Figlio e che sembra incoraggiare le vittime della cupidigia umana ad amare la loro oppressione, facendo balenare un futuro felice nell’aldilà: il dolore, si dice, non è forse meritorio per il cielo?

          Vorremmo considerare più da vicino i dati della Bibbia, non fosse che per correggere, eventualmente, il nostro modo di esprimerci e per giungere a una migliore comprensione del mistero della morte di Gesù e della nostra propria morte. mi presento a voi come esegeta, cioè come un uomo che ha per compito di precisare il significato dei testi ispirati servendosi dei mezzi scientifici attuali. Precisiamo un po’. Un esegeta degno di questo nome non si accontenta di stabilire ciò che è realmente accaduto, né di determinare quali parole Gesù stesso ha potuto pronunciare, ma deve anche rendere conto dell’insieme del Nuovo Testamento, di quello che dice Marco non meno di quello che San Paolo e Giovanni hanno esplicitato. Il significato non sta né in un determinato fatto preso in sé, né nell’interpretazione datane da un particolare autore sacro, ma sta nel rapporto che unisce indissolubilmente l’avvenimento in causa con l’insieme delle interpretazioni che ne furono date.

          Vi invito a procedere in tre tappe successive: 1) in che modo Gesù a compreso la morte in generale, persuaso com’era che la vita trionfa; 2) in che modo a situato la propria morte, a mano a mano che ne ha percepito la terribile minaccia; 3) come ha affrontato la sua morte effettiva in croce?

 

 

I.       La morte compresa

          Di fronte alla morte altrui, Gesù ha reagito come un Ebreo erede della tradizione dei suoi antenati e ha preso posizione senza paura dinanzi alla realtà la più comune di questo mondo.

 

1.      Gesù erede della tradizione ebraica

          Un buon Israelita è anzitutto un uomo che apprezza la vita, e la intende come un dono, che Dio gli concede per un tempo limitato. Perciò la morte gli appare un fenomeno normale: quando si muore, si va “a riunirsi agli antenati”, se possibile “sazio di giorni”, dopo una “vecchiaia felice”: è la sorte ordinaria dell’uomo. In questa prospettiva, la morte ha un volto familiare e si tratta di accoglierla nel modo migliore.

          D’altra parte, la morte presenta anche un volto orribile, quando colpisce anzitempo, per motivi di guerra o di malattia. Come non ribellarsi quando la morte abbatte un uomo che è ancora nel pieno delle sue forze?

«O morte, com’è amaro il tuo pensiero

per l’uomo che vive sereno nella sua agiatezza,

per l’uomo senza assilli e a cui tutto va bene,

e ancora in grado di gustare il piacere!» (Sir. 41,1)

 

          Gesù ha certamente risposto allo scandalo della morte prematura col proclamare, insieme al salmista, l’onnipotenza dell’amore del Dio fedele, ma ha espresso chiaramente il proprio pensiero in una circostanza particolare:

«…Si presentarono alcuni per riferirgli di quei Galilei di cui Pilato aveva mescolato il sangue a quello dei loro sacrifici… Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori degli altri per aver subito tale sorte? No, vi dico; ma se non vi convertite, perirete (apoleisthe) allo stesso modo. O quei diciotto su cui è caduta la torre di Siloè e li uccise (apekteinen), credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico; ma se non vi convertite, perirete (apoleisthe) tutti allo stesso modo». (Lc. 13, 1-5)

 

          In questo testo, Gesù contesta il principio, detto della retribuzione, che stabilisce una relazione di causa a effetto, cioè: ogni disgrazia che sopravviene è una punizione divina che sanziona una colpa: se è avvenuta, vuol dire che c’è stato peccato o colpevolezza. Capita anche a noi di essere presi da un sentimento di colpa quando succede una disgrazia subitanea e inesplicabile. Ma Gesù rifiuta la correlazione immediata tra una data disgrazia e un dato peccato: i Galilei venuti al Tempio non erano più peccatori dei loro compatrioti che la catastrofe aveva risparmiato.

          Ma Gesù non si limita a una negazione. Egli rovescia il punto di vista e invita i suoi interlocutori ad applicare a se stessi il giudizio che facevano sugli altri. Non si tratta di valutare la responsabilità di quegli sventurati e di compiacersi di sé dicendo: «Io, almeno, sono indenne»; si tratta al contrario di mettere in discussione proprio se stessi. Gesù infatti invita queste persone a “convertirsi”, cioè a riconoscere la gravità, l’importanza del tempo presente in cui vivono, quello del regno di Dio ormai annunciato. Se la disgrazia non consegue direttamente a un peccato individuale, essa proviene tuttavia dal fatto che il mondo in cui siamo è un mondo “spaccato” (“cassé”, G, Marcel). Le calamità che si abbattono sugli uomini possono indicarne appunto la profonda spaccatura. È come se Gesù dicesse: «Se voi non vi liberate dall’influenza del peccato del mondo, ne sarete vittime, e le calamità continueranno»… Gesù vuol fare capire che la morte violenta simboleggia la perdizione alla quale è avviata l’umanità a causa di uno stato universale di peccato nel mondo.

          Se la morte fisica fa parte della condizione umana, la morte violenta simboleggia dunque un altro tipo di morte, quella definitiva. E qui Gesù svela il segreto del suo comportamento dinnanzi alla morte: non si deve temere la morte fisica (l’“essere ucciso”), ma la morte definitiva (la perdizione):

«Non temete coloro che uccidono il corpo (apoktennontôn),

ma non hanno il potere di uccidere l’anima (apoktenal);

temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire (apolesai)

e l’anima e il corpo nella Geénna» (Mt. 10,28).

 

          Gli uomini possono privare qualcuno della vita temporale, ma non della vita eterna; in questo testo la prima è indicata dal “corpo” e la seconda dall’“anima”. Se Gesù evoca qui la morte definitiva, non è per far paura, ma per attirare i suoi uditori al Dio vivente che ha ogni potere sull’anima e sul corpo. Fiducia dunque, come lo precisa il versetto che subito segue:

«Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure

neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro

intervenga» (Mt. 10,29).

 

          Essendo circondato dalla presenza paterna del Dio vivente, il fedele non ha più motivo di temere la morte temporale, nemmeno se è violenta: Dio è Colui che dispensa la vita alle sue creature anche di là della morte.

 

2.      Gesù in lotta per la vita contro la morte

          Gesù non si è limitato a rivelare il doppio volto della morte, fenomeno normale e/o mostro dalle fauci spalancate e insaziabili. Mostrandosi l’erede di Dio stesso, Gesù ha continuato il duello che, secondo la Bibbia, Dio combatte contro la morte. L’Ebreo credente sa che un giorno Dio “distruggerà la morte per sempre” (Is. 25,8). Ora, ciò che gli Ebrei attendevano per la fine dei tempi, Gesù lo prefigura quando libera certe persone dalla malattia o dalla morte.

          Quando Gesù “resuscita” un morto, non lo fa semplicemente per consolare coloro che lo piangono, ma simboleggia la risurrezione futura, cioè la vittoria della vita sulla morte. Ecco perché non vuole pianti, né agitazioni intorno ai morti, come se non vi fosse più speranza. Certo, Gesù stesso “si turba” dinanzi a Lazzaro morto, ma il primo motivo è la mancanza di vera fede: come è possibile misconoscere la potenza di Dio sulla morte? Poi Gesù piange; probabilmente le sue lacrime non esprimono solo il suo dolore, per la perdita di un essere caro: dato che l’amore di Gesù per Lazzaro proviene dall’amore del Padre, le sue lacrime simboleggiamo quelle di Dio stesso davanti alla morte che in questo mondo separa le persone. Nello stesso tempo, data la sua unione al Padre, Gesù sente fremere in sé la forza di una vita più forte della morte.

          È arduo per noi, mantenere viva questa tensione fra l’accettazione serena della morte e la lotta vigorosa contro di essa. Per progredire in questa direzione, può essere utile considerare le parole di Gesù sulla “vita attraverso la morte”, parole che non hanno niente da invidiare alle scoperte contemporanee della psicologia.

«Chi vuol salvaguardare la sua psykhé la perderà,

e chi perde la sua psyché la salverà» (Lc 17,33).

 

          Con questo paradosso, Gesù situa la morte non al termine della vita, ma nel suo centro. Il tempo ci manca purtroppo per esaminare le sei recensioni che la tradizione evangelica ha conservato di questa parola di Gesù. L’interpretazione che ne dà Giovanni permette di attualizzare il paradosso di Gesù. Non è solo dinanzi al martirio eventuale (Mt.), né a motivo della tensione escatologica finale (Lc.), ma è in ogni momento e radicalmente che il discepolo di Gesù è impegnato a optare pro o contro un certo modo di gestire la propria vita.

          L’esistenza non si riduce allo spazio di tempo che precede la morte fisica, essa ha la sua sorgente altrove e trova il suo termine e il suo significato altrove. Certo essa può essere considerata come “mia” e mi ci posso attaccare, amarla intensamente, tenerla stretta, conservarla, come se di per sé fosse tutto, il bene unico che devo difendere a ogni costo, una proprietà che dipende solo da me. In questo modo però essa mi sfugge, come l’acqua che vorrei trattenere avidamente nelle mani, mentre non ne posso possedere la sorgente, ed essa continuamente mi scivola via. Se invece non mi aggrappo a questa esistenza, se accetto di perderla, se accolgo la legge della morte che altro non è se non l’“estasi” da me stesso, allora la mia esistenza si salva sul serio e simboleggia la vita eterna che di fatto inaugura. Allora, secondo la parola di Gesù che il Vangelo riferisce giusto prima, il chicco di grano che muore nella terra produrrà frutto. In definitiva, la mia esistenza non è mia, ma di un Altro. Essa è cominciata molto prima che io ne fossi consapevole, e continua dopo la mia corsa su questa terra, poiché Colui dal quale la ricevo è il Signore.

          Quando si cerca di sintetizzare i dati del Vangelo, si trova una realtà unica: Dio è presente qui e ora. Gesù è presente alla terra: se l’ama intensamente, se si rivela un poeta della creazione attraverso le sue parabole, non è perché sogni un mondo ideale che ignorerebbe il dolore e la morte, ma è perché percepisce l’irruzione costante della vita e del regno di Dio nel tempo presente. Una sola cosa conta: la fedeltà a Dio che è la Sorgente e il custode della vita. Davanti al dolore degli uomini colpiti dalla scomparsa di una persona cara, Gesù fa intravedere la potenza sovrana della vita, mediante delle guarigioni o delle rianimazioni stupefacenti: questi suoi gesti simboleggiano che il regno di Dio è all’opera, ormai, su questa terra.

          Infine, nell’intimo di questa esperienza di un presente in cui tutto converge, bisogna porre Colui che Gesù chiama Abbà. Il presente vale per la presenza di Dio. La morte cessa di essere una fine pura e semplice per colui che è in comunione col Dio vivente e vivificante, sempre presente, anche se attraverso l’assenza.

II.      Gesù situa la morte che lo minaccia

          Parlare della morte degli altri è relativamente facile, per lo meno quando, come Gesù in forza della sua cultura ancestrale, ci si lascia compenetrare dalla presenza di Dio più forte della morte. Invece far fronte a una minaccia personale di morte è ben altra cosa, tanto più quando sembra dissolversi il sogno meraviglioso di un regno celeste instaurato sulla terra. La morte minaccia Gesù. Quale sarà la sua reazione?

          La risposta non è facile. Infatti se, dopo l’esame dei testi, affermo che Gesù non solo ha previsto ma ha addirittura cercato la morte in vista del Regno, rischio di far di lui un essere sovraumano che, come diceva un romanziere, «attraversa le battaglie della vita con una rosa in mano». Se viceversa, e sempre dopo l’analisi dei testi, ammetto che Gesù non abbia desiderato la morte ma l’abbia subita come meglio poteva, non finisco col negare un elemento fondamentale della coscienza di Gesù, fondamentale per la sua missione di Redentore? Bultmann tuttavia ha affermato proprio questo: “storicamente parlando”, la morte di Gesù sarebbe secondo lui “un destino senza senso”, cioè sarebbe stata causata unicamente da un interpretazione politica della sua attività. Di fronte a queste esagerazioni della critica pseudo-storica, i credenti hanno continuato a sostenere coi primi cristiani che «Dio ha consegnato suo Figlio», che Gesù è andato volontariamente sulla croce, e che, prendendo su di sé il peccato universale, sapeva di riconciliare gli uomini con Dio. Gesù quindi avrebbe conferito alla sua morte un valore di redenzione. Egli è il Redentore ed è cosciente di esserlo.

          Benissimo! Tuttavia oggi questo modo di parlare conserva ancora lo stesso significato di una volta? Ascoltiamo un uomo che si afferma non credente: «Se per due anni mi fossi sentito capace di guarire gli ammalati per semplice imposizione delle mani e persino di risuscitare i morti proferendo poche parole, penso che non affronterei il supplizio finale con le stesse disposizioni di un qualsiasi cliente, per esempio, delle camere a gas di Hitler». Questa affermazione fa il paio con la risposta ingenua di un bambino alla sua catechista che chiedeva che cosa aveva detto Gesù in croce fra i due ladroni: «Io me ne infischio!... Fra tre giorni, risorgo». Reagendo in questo modo, il ragazzo e il “non credente” immaginano, come nei vecchi miti, un superuomo, un dio racchiuso in un po’ di carne, che ha preso sembianze umane per consolare gli uomini, ma per ciò stesso incapace di prendere la morte sul serio.

          Per rispondere al problema posto in questi termini, dobbiamo risalire, dal linguaggio dogmatico che conosciamo, al linguaggio stesso di Gesù, quello delle sue parole e delle sue azioni. La difficoltà sta nel fatto che i testi evangelici sono stati redatti nella luce di Pasqua e attribuiscono a Cristo parole che spesso vanno ben oltre ciò che Gesù di Nazareth ha realmente detto. Tale difficoltà può essere superata grazie ai due criteri della differenza e della coerenza, che cercheremo di applicare.

          A un primo livello, il più semplice, bisogna chiedersi se, storicamente, si può affermare che Gesù si aspettasse veramente una morte violenta. Sarà il nostro primo punto. Poi, su questa base, cercheremo di dimostrare che Gesù ha dato un senso a questa morte, sia collocandola nell’economia divina (secondo punto), sia conferendole una portata universale (terzo).

 

1.      Gesù si aspettava una morte violenta

          Gesù si è presentato come il messaggero del regno di Dio, regno annunziato per tutti gli uomini, - prima di tutto per i poveri – che esige una conversione immediata. Una predicazione così radicale non poteva non sollevare contestazioni da parte delle autorità dell’epoca.

          Nei riguardi della Legge, Gesù appare contemporaneamente come un buon Ebreo praticante e come un rivoluzionario. Egli rispetta il tempio e quel che dicono gli scribi e i farisei… Eppure non si preoccupa minimamente delle impurità rituali contratte a contatto coi lebbrosi e con l’emorroissa, e viola deliberatamente le prescrizioni sul sabato. Basti ricordare le controversie all’inizio della sua vita pubblica. Gesù osa dichiarare che «il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!». Egli insorge di fronte a un’interpretazione del risposo sabbatico che giudica condannabile. Condannabile? Ma è proprio lui, Gesù, che merita la morte e una morte immediata.

          Su un altro punto Gesù si è trovato in aperto conflitto con le autorità: l’universalismo del Regno. Egli è l’amico di pubblicani e dei peccatori, osa sedersi alla loro tavola, un atto che, molto tempo dopo, Pietro non avrà il coraggio di imitare. Il fatto è che Dio ama i peccatori e li chiama al pentimento. Non ci si rivolge mai impunemente ai diseredati, assumendone la difesa contro i custodi dell’ordine stabilito.

          Ricordiamo infine che Gesù ha scacciato i mercanti dal Tempio. La cosa è chiara: come lo dice San Luca, Gesù disturba, “turba” l’ordine stabilito (Lc. 23,2). Visto dall’esterno, l’uomo era sospetto, fautore di sommosse.

          Perché Gesù ha agito in questo modo? A causa del suo messaggio, in forza della conoscenza che aveva di Dio. Il suo radicalismo non poteva tollerare nessun compromesso. Non sorprende perciò che abbia suscitato degli avversari ben decisi a eliminarlo. E Gesù lo sa: «Verranno dei giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, allora digiuneranno» (Mc. 2,19s).

          Storicamente, si può ammettere che il ministero di Gesù si sia svolto in due tappe, come lo mostrano i Sinottici. Prima della confessione di Pietro a Cesarea, Gesù annuncia che il Regno di Dio è ormai giunto e invita i suoi ascoltatori a seguirlo, o, al massimo, a essere pescatori d’uomini. È come se un vento impetuoso trascinasse tutti, anche se alcuni sembrano esitanti e se i capi religiosi si mostrano sospettosi: Gesù solleva un’ondata di entusiasmo, irresistibile. Ora, dopo la confessione di Pietro, non sono più le folle a essere invitate alla conversione, ma sono solo i discepoli che vengono sollecitati ad approfondire la loro adesione al giovane rabbi; e se vengono ancora chiamati a seguire Gesù, questa volta è per seguirlo nella prova e fino alla croce. È intervenuto un cambiamento nettissimo: c’è stato il fallimento. Gesù comincia ad annunziare che la morte è inevitabile per lui, come pure per i discepoli. Questa è la prospettiva che occorre ora precisare.

 

2.      Gesù ha situato il fatto (la sua morte) nell’economia divina

          Una caratteristica della mentalità religiosa ebraica è la sua percezione acuta della storia di Dio che ha fatto alleanza con Israele. Di conseguenza, il pio Ebreo era portato a interpretare gli avvenimenti che viveva inserendoli nel piano di Dio. È quanto ha fatto anche la Chiesa primitiva, affermando ad esempio che «ciò è avvenuto perché si compisse la Scrittura». È quanto ha fatto Gesù, di fronte alla morte minacciosa, sia intravedendo la propria sorte in quella di Giovanni Battista, sia evocando a più riprese ciò che si potrebbe chiamare la legge del profeta maltrattato e la legge del giusto perseguitato: avviene sempre così.

a)    Non è impossibile affermare l’esperienza di Gesù alla morte di Giovanni Battista. La sua decapitazione è un fatto storico sicuro, di cui parla lo storico ebreo Giuseppe Flavio. Gesù costata che Giovanni è stato ucciso e ha il presentimento che accadrà lo stesso per lui, secondo la tradizione della sorte tragica dei profeti. Era persino un detto popolare

«Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i

suoi parenti e in casa sua» (Mc. 6,4…)

          L’incomprensione è la legge normale del profeta. Peggio, è abbandonato all’odio, all’emarginazione, agli oltraggi, alle calunnie. Queste circostanze sempre ripetute sono state collocate dal giudaismo nel grande piano di Dio, secondo uno schema tradizionale che era ancora vivo nel I secolo dopo Cristo. Se ne trova un riassunto nella preghiera penitenziale del Libro di Neemia:

«Ma si sono ribellati contro di te, si sono gettati la tua legge

dietro le spalle, hanno ucciso i tuoi profeti che li scongiuravano

di tornare a te e ti hanno offeso gravemente…Hai

pazientato con loro molti anni; li hai scongiurati per mezzo

del tuo spirito, e per bocca dei tuoi profeti, ma essi non

hanno voluto prestare l’orecchio…» (Ne. 9,26-30)

 

          Proprio in questo modo si riprendeva e si rimeditava la storia passata del popolo eletto, utilizzando uno schema fisso. Se lungo i secoli sono capitate catastrofi, è dipeso dal fatto che non si sono ascoltati i profeti. È questa la constatazione evidente che, come ogni Ebreo del suo tempo, Gesù aveva in mente. Lo si vede da alcune sue parole che sono certamente autentiche:

«Guai a voi che costruite i sepolcri dei profeti…Così testimoniate

contro voi stessi: siete i figli degli uccisori dei profeti.

Per questo la sapienza di Dio dice: Manderò a loro dei saggi ed essi

li uccideranno e perseguiteranno, perché sia chiesto conto a questa

generazione del sangue d’Abele fino al sangue di Zaccaria che fu

ucciso tra l’altare e il santuario» (cf. Lc. 11,47ss).

«Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi

coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere

i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e

voi non avete voluto!» (Lc. 13,34).

 

          Di fronte alle minacce dei capi religiosi, Gesù volge il suo sguardo al passato d’Israele  e fa appello alla Sapienza di Dio che guida la storia. Per capire la sua sorte, Gesù si colloca nella discendenza dei profeti e ciò sarebbe uno dei motivi per cui dichiara: non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme! (cf. Lc. 12,33).

          C’è di più: Gesù si è collocato al di sopra di tutti i profeti, come lo suggerisce nella parabola dei vignaioli omicidi. Gesù, che aveva visto in Giovanni Battista “più che un profeta”, si sentiva in rapporto speciale con Dio e incaricato, come suo Figlio, di coronare la tradizione sulla sorte tragica dei profeti.

 

b)    Ritroviamo così un’altra tradizione biblica, quella del Giusto perseguitato. Infatti, dietro il triplice annuncio che Gesù, nella seconda parte della sua vita pubblica, ha fatto della propria sorte, lo storico può discernere due tradizioni venerabili che fanno supporre che Gesù ha equiparato il proprio destino a quello del Giusto perseguitato.

La prima tradizione, di forma impersonale, è la seguente:

«…bisogna che il Figlio dell’uomo soffra molto e sia riprovato» (Mc. 8,31…)

La seconda è una formula personale:

«Il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini» (Mc. 9,31).

 

          Che Gesù sia l’oggetto della decisione divina (prima formula: bisogna che…) o che sia il soggetto della frase, è chiaro che Gesù ha compreso gli avvenimenti che lo concernevano assimilandoli con ciò che si era prodotto durante la storia di Dio con Israele. Se è così, si capiscono le parole in cui Gesù si mostra desideroso di compiere la volontà del Padre (per es. Lc. 12,49s):

«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra

e come vorrei che fosse già acceso!

C’è un battesimo che devo ricevere

e come sono angosciato finché non sia compiuto!».

 

3.      Gesù ha presentato la sua morte come redentrice?

          A questa domanda si risponde di solito affermativamente, e tuttavia ritengo che sia importante precisare i termini.

          Con la Chiesa, noi diciamo che la morte di Cristo ha riscattato il mondo dal peccato, e che l’alleanza di Dio con gli uomini è stata ristabilita, in una parola che ci ha salvati. Ridicendo così la convinzione dei primi cristiani, restiamo, in un certo senso, sul piano storico. Se invece dichiariamo che Gesù ha affrontato la morte per salvare il mondo, questa formulazione è storica solo in apparenza, poiché proietta su Gesù di Nazareth la luce di una certezza di fede. Certo si può parlare così dato che la fede autorizza a esplicitare il pensiero di Gesù, di cui confessa la divinità.

          È così che hanno proceduto gli evangelisti quando attribuiscono a Gesù delle precisazioni (anacronistiche per lo storico) sulla sua Passione e la sua futura resurrezione, oppure quando mostrano Gesù tutto preso dal desiderio di soffrire e di morire. La luce della fede può illuminare dei segreti del passato e precisare quale fu la “coscienza” profonda di Gesù di Nazareth. Ma lo storico non può fondarsi che sulle dichiarazioni di Gesù stesso che può considerare autentiche.

          Quali sono allora i testi che possono sostenere l’opinione che Gesù ha deliberatamente presentato la propria morte come redentrice? Uno si impone subito. Alla fine della vita pubblica, Gesù ha detto, secondo Mc. 10,45:

«Il Figlio dell’uomo è venuto…

per dare la sua vita in redenzione della moltitudine» (lytron anti pollôn).

 

          Secondo O. Cullmann, questo testo sarebbe una “ammirevole sintesi” della teologia del Figlio dell’uomo glorioso e di quella del Servo sofferente. Ciò è vero per la comunità primitiva, che con questa formula ha restaurato il pensiero profondo di Gesù di Nazareth. Ma non per lo storico, che vuol fondarsi sul solido, cioè su quello che Gesù ha certamente detto. Non posso in poche frasi farvi la dimostrazione per il nostro testo. Ma ve ne comunico l’essenziale.

          Il testo di Marco citato or ora viene al termine di un passaggio che riferisce una discussione tra i discepoli e Gesù a proposito dei primi posti nel Regno. «Se qualcuno vuol essere il primo tra voi, che si faccia vostro servo!». E Gesù aggiunge: «Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in redenzione per la moltitudine». Ora, Luca riferisce anche lui questa discussione, ma la situa più tardi, all’ultima Cena dopo l’istituzione dell’eucaristia.

«Che il più grande tra voi prenda il posto del più giovane, e

chi comanda il posto di colui che serve!

Chi è più grande: colui che sta a tavola o colui che serve?

Non è forse colui che sta a tavola?

Eppure io sto in mezzo a voi al posto di colui che serve» (Lc. 22,26s).

 

          Le ultime parole di questo testo corrispondono al passaggio di Marco sulla vita data “in redenzione”. Un esegeta serio non può supporre che Gesù abbia detto le due formule in due momenti diversi, perciò considera che uno dei due testi è più autentico dell’altro. Quale? Taluni pensano, probabilmente per routine teologica, che Gesù abbia, così, fatto la teoria della sua attività davanti ai suoi discepoli. Ma chi conosce il modo di fare di Gesù si stupisce di sentirlo pronunziare in questo caso una dichiarazione che non è in sintonia con il suo stile. Gesù non ha mai precisato chi era, non ha mai imprigionato la propria persona in un dato titolo (quale che sia), non si è mai definito espressamente Cristo e Figlio di Dio. Gesù fa saltare tutte le formule, tutti gli schemi. Si è accontentato di vivere davanti agli uomini, ma sollevando con la sua condotta una interrogazione sulla sua identità, senza pretendere di fissarla in una determinata categoria.

          Questo dato, di carattere generale, ha molto peso, ma vi si aggiungono delle considerazioni di critica letteraria che sono fuori di posto in una conferenza (ma che potrete trovare nei libri di esegesi).

          In breve, a mio parere e secondo moltissimi altri studiosi, il testo di Marco citato sopra non può essere stato pronunciato da Gesù in persona. E del pari, quando Marco, nelle parole della Cena: «Questo è il mio sangue», aggiunge “sangue versato per la moltitudine”, l’espressione “per la moltitudine” non può essere interpretata nel senso dell’”espiazione vicaria”. La preposizione per (hyper) non ha infatti necessariamente un senso cultuale, sacrificale, e indica abitualmente un atto posto “in favore di” qualcuno, per esempio: «dare la vita per i propri amici» (hyper).

          Gesù non ha situato la morte che lo minacciava in una prospettiva “sacrificale”. Non ne segue però che Gesù non abbia conferito un senso alla propria vita e alla propria morte nel piano di Dio. L’essenziale era per lui che Dio era veramente presente nella vita del popolo d’Israele. Di fronte alla morte imminente, Gesù ha continuato a proclamare il messaggio del Regno, del perdono, della vita divina. Il fallimento che incontrava, e che era sempre più evidente, non lo ha distolto dalla decisione di servire fedelmente Dio e gli uomini. Egli ha collocato nel grande piano di Dio il fallimento che subiva ponendo se stesso al culmine della serie di profeti e come il Giusto per eccellenza, perseguitato in quanto tale. Non a subito la morte in modo passivo, ma ha acconsentito a morire. La sua morte, per lui, acquistava significato in funzione della vita di fedeltà a una missione di cui costituiva il coronamento, e in relazione a Dio che la giustificherà risuscitando Gesù.

          La morte violenta di Gesù non è quindi un qualcosa di fatale, come se Dio l’avesse direttamente voluta, ma è la conseguenza della sua fedeltà assoluta a Dio e agli uomini: i profeti e i giusti sono sempre perseguitati. Comportandosi in tal modo, Gesù non si “rassegna” a un qualche “Così sta scritto”, ma ha la chiara percezione che il Padre gli chiede di perseverare sino alla fine nella missione che gli ha affidato, di rivelare il suo amore. La morte non sembra essere stata “voluta” e nemmeno “desiderata” da Gesù come un mezzo per salvare il mondo, ma è vista lucidamente come il cammino della fedeltà radicale.

          Resta una domanda: come possiamo affermare che Gesù ha salvato il mondo dal peccato? Di nuovo, bisogna ben valutare i termini che usiamo. Gesù non ha donato la salvezza a un mondo estraneo a lui, come si dà una medicina a un malato: lo ha salvato donando se stesso. In lui Dio ha assunto la realtà umana, e ormai la grazia di Dio si trova al cuore dell’umanità. Partecipando integralmente alla condizione umana, senza tuttavia consentire al male, Gesù ha reso possibile alla potenza di Dio di liberare il mondo dal peccato. Per colui che ha affidato tutto l’avvenire nelle mani del Dio vivo, una cosa sola è necessaria: non di dichiarare le proprie “intenzioni”, ma di mantenere sino all’ultimo l’alleanza con Dio.

          Ci resta ora da vedere come Gesù abbia affrontato la morte reale.

 

 

III.    Gesù affronta la morte

          Una cosa è parlare della morte altrui, altra cosa è presentire che la propria morte sarà violenta, altra cosa infine trovarsi di fronte a questa morte. I racconti della Passione ci dicono qual è stato l’atteggiamento di Gesù nei suoi ultimi momenti.

          All’ultima Cena, Gesù afferma la sua totale fiducia in Dio ed esprime l’intenzione di fondare la comunità dei discepoli grazie alla sua presenza che continuerà. Per giustificare tutto questo, Gesù ha ricapitolato davanti ai discepoli la propria vita come “un servizio”. Di conseguenza la sua morte, coerente con la sua vita e frutto di essa, conclude un’esistenza totalmente votata a Dio e agli uomini, come lo indicano le parole “(il mio corpo) per voi” e “per la moltitudine”. Secondo lo storico, Gesù non ha usato in questa occasione un linguaggio sacrificale. Ciò parrà strano e dispiacerà solo a chi vorrebbe che Gesù si sia espresso come Paolo o i teologi classici. In compenso, come non vedere in questa omissione un comportamento che è pienamente coerente con quanto sappiamo di Gesù di Nazareth? Il profeta Gesù non sembra essersi preoccupato dei sacrifici rituali che non per stigmatizzarne l’abuso. E si vorrebbe che per caratterizzare la propria vita e la propria morte, fosse ricorso a categorie che sono del tutto assenti dal suo messaggio?

          È la Chiesa primitiva che ha visto nella condotta di Gesù di Nazareth il sacrificio di gradito odore che l’umanità aveva atteso da sempre. Essa era convinta che la sua particolare liturgia rendeva presente l’atto del passato, la Cena, con cui Gesù aveva portato a perfezione la sua vita di servizio. Se dunque la Chiesa ha ripreso il gesto col quale Gesù aveva anticipato simbolicamente il dono di sé che stava per fare sulla croce, è per invitare i credenti a “servire” come Gesù fino all’ultimo respiro.

          Ora, Gesù non si è limitato a “simboleggiare” il dono di sé che stava per fare: egli ha vissuto dolorosamente la morte. I racconti del Getsemani e del Calvario ci descrivono appunto questo. Un breve studio dell’atteggiamento di Gesù potrà aiutarci a penetrare più a fondo nel mistero della sua morte e nel mistero della nostra.

 

1.      Gesù al Getsemani

          L’episodio è noto. Dopo la Cena, Gesù si reca coi suoi discepoli all’orto degli Ulivi, e chiede loro di vegliare con lui e di pregare, mentre lui si distacca da loro per breve tempo. Ma i discepoli si addormentano, mentre lui, dopo aver supplicato Dio di risparmiargli la morte, finisce col consentire alla volontà del Padre. Questo racconto ci mette, in modo ammirevole, in presenza di una persona che assume il proprio “morire”. Perché Gesù si è comportato così?

          Come mai quest’uomo, che fronteggiava coraggiosamente la morte, è improvvisamente crollato e si è poi rapidamente ripreso? Come mai quest’uomo, che la fede riconosce Figlio di Dio, è potuto giungere a contestare la volontà del Padre? Molto spesso ci si preoccupa di colmare le lacune del testo, ritenuto troppo succinto per rispondere a tali questioni. Ora, la risposta non deve venire né dalla psicologia né da una certa teologia, ma unicamente dai dati evangelici.

          Tuttavia, non sono mancati scrittori che hanno cercato di spiegare lo smarrimento momentaneo di Gesù immaginando che fosse in preda a una forte febbre, avendo preso freddo nel traversare di notte il torrente Cédron. Anche se non inverosimile, è chiaro che questa ipotesi non rende conto di un testo così complesso, ancor meno dell’atteggiamento misterioso di Gesù.

          In compenso, certi teologi fanno intervenire le loro convinzioni dogmatiche per giustificare la cosa. L’Uomo-Dio conosceva tutto in anticipo e quindi prevedeva che il suo sangue versato non avrebbe impedito a molti uomini di dannarsi, di qui la sua tristezza.

          Questa spiegazione è profonda, ma si bassa su un metodo teologico che può avere un suo valore e giungere a risultati interessanti, ma che non soddisfa chi rimane strettamente aderente al testo e costata che esso presenta la piena umanità di Gesù e non l’atteggiamento sicuro di un individuo che conoscesse in anticipo la storia di tutti i secoli futuri. Secondo me, Gesù ha sentito pesare su di sé il fallimento della sua missione in un modo ben diverso.

          D’altra parte, dei mistici vedono in Gesù agonizzante l’esemplare perfetto di coloro che sperimentano il terribile abbandono di Dio. Come dice Taulero, l’anima sofferente si sente «nell’inferno dell’abbandono, l’abbandono delle creature e più ancora, l’abbandono perfino di Dio». Anche se fondata su un assioma teologico (Gesù ha ricapitolato in sé tutte le sofferenze dell’umanità), questa interpretazione va oltre i dati del testo, suggerendo che non solo Dio abbandona Gesù in balia dei nemici, ma che lui stesso lo abbandona. Certo, non si vuol dire che Dio “si separa” dal Figlio – sarebbe esattamente l’inferno – ma si vuol tradurre il sentimento, l’esperienza terribile della derelizione interiore. «Questo abbandono di Dio è in un certo senso la pena della dannazione…, la perdita di tutte le luci spirituali della fede, della speranza e della carità». Ma così dicendo si dà alla frase del Calvario «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?» un senso che non è affatto evidente. Gesù è stato abbandonato da Dio in balia dei nemici che lo uccidono, ma non si può parlare di abbandono da parte di Dio stesso.

È pericoloso proiettare su Gesù una data esperienza religiosa, anche se profonda.

          Infine, molti interpreti attribuiscono il dolore di Gesù al mistero della condanna del peccato. Essi vedono ora l’Agnello di Dio schiacciato dal “peccato del mondo” che deve togliere, ora il Cristo che «si è fatto peccato per noi»; Gesù “espierebbe” per i peccati degli uomini, subendo il castigo riservato da Dio ai peccatori. Calvino dichiara per esempio che «Gesù ha sopportato i tormenti spaventosi che devono provare i dannati». Questa intuizione religiosa ebbe grande risonanza, soprattutto negli oratori, sia cattolici che protestanti. Un gesuita ben noto del diciassettesimo secolo, Bourdaloue, pur temendo che si confondesse il suo pensiero con quello di Calvino, vocifera allo stesso modo:

«Ora, colpite, Signore, colpite, egli è preparato a ricevere i

colpi vostri e, dimenticando che è il vostro Cristo, non

guardatelo più se non per ricordarvi… che solo immolando

darete soddisfazione all’odio divino con cui odiate il peccato».

 

          È inutile ripetere qui tali tirate oratorie, delle quali purtroppo catechismi e predicazione hanno portato i segni per molto tempo. Chi le sopporterebbe oggi?

          Alla base di tale interpretazione si invoca la teologia di Paolo, che permette di aggiungere al testo, dal quale è assente, le nozioni di peccato, di collera di Dio e di castigo, alle quali non fa assolutamente allusione. In effetti, il “calice” che Gesù vuole allontanare non simboleggia qui in nessun modo la collera divina che colpisce gli empi, ma indica la sorte dolorosa che Gesù sa imminente e che il Padre non impedisce con qualche intervento spettacolare.

          Insomma, se vogliamo far luce sulla scena del Getsemani, occorre prendere il testo nel suo insieme. L’uomo che viene a pregare è lo stesso che ha proclamato la venuta del Regno di Dio e che ne ha manifestata la presenza con i suoi gesti simbolici. Quest’uomo è lo stesso che ha lasciato intravedere l’intimità della sua relazione con Dio suo Padre e la propria incrollabile fedeltà di fronte agli avversari.

Quest’uomo infine ha osato affermare che bisognava non temere la morte, ma «colui che può far perire e l’anima e il corpo». È lo stesso uomo che, poco prima, ha volutamente affidato ai discepoli il testamento del suo amore e la certezza del rivedersi al convito finale.

          Ed ecco che quest’uomo si mette a tremare e a supplicare che gli venga risparmiato il suo destino. Un simile cambiamento può trovare una spiegazione a diversi livelli di profondità.

          Anzitutto, Gesù confessa angosciosamente il desiderio più profondo della natura umana quello di non morire e soprattutto di non morire di una morte prematura e crudele. Manifestando un desiderio contrario a quello del Padre che lo lascia in balia dei suoi avversari, Gesù fa capire lo strappo che produce in lui il conflitto tra l’istinto vitale e la volontà di restare fedele fino all’ultimo: «Pur essendo il Figlio, dice la lettera agli Ebrei, imparò l’obbedienza tramite le sue sofferenze» (5,8). Questa preghiera dolorosa è stata tradotta da San Giovanni in una domanda positiva di «passare sano e salvo attraverso l’ora», indicando così un altro aspetto della preghiera che affronta la morte di croce.

          A un livello più profondo, la tristezza di Gesù si radica nella missione ricevuta dal Padre. Assumendo totalmente questa missione, Gesù vi si è identificato: guarendo gli ammalati e accogliendo i peccatori, Gesù ha in un certo senso “incarnato” il Regno di Dio sulla terra, lo ha simboleggiato in modo incomparabile. Certo, l’agonia di Gesù ha punti di somiglianza con quella di Elia, il profeta che dispera della propria vita ritenendo di essere rimasto l’unico a non cedere davanti a Baal; ma mentre Elia s’inganna (settemila persone sono rimaste fedele a YHWH!), Gesù si trova veramente solo a Testimoniare il Regno di Dio nella sua autenticità. Ed ecco che sta per morire, senza aver potuto stabilire effettivamente questo regno sulla terra. Peggio, ha provocato un rifiuto del Regno; ed è questo che San Giovanni ha probabilmente inteso esprimere quando Gesù dichiara: «Se non fossi venuto, non avrebbe peccato» (15,22). Non sarebbe questo uno dei significati più profondi dell’agonia di Gesù? Colui che è venuto per la riconciliazione con Dio ha ottenuto il risultato opposto, la divisione da Dio. Quanto più strettamente Gesù ha legato la sua vita e la sua persona al regno di Dio, tanto più la frattura è dolorosa: la volontà di Dio, il “calice”, è incomprensibile, poiché sembra ridurre a zero il regno che Gesù era venuto a stabilire. Ecco che ora la necessità della croce per giungere alla gloria, necessità che Gesù aveva annunciato durante il successo provvisorio della vita pubblica, diventa una realtà esperienziale. Nessun ragionamento è più possibile, resta soltanto la sottomissione apparentemente senza luce.

          Immerso in una solitudine spaventosa per il rifiuto opposto dagli uomini al Regno di Dio, Gesù può vedere nella condotta dei suoi propri discepoli fin dove va il suo fallimento. Tutta la vita aveva cercato di riunire intorno a sé un piccolo gruppo, simbolo delle dodici tribù d’Israele rimaste fedeli al Dio dell’Alleanza. Ed ecco che uno di loro lo tradisce e gli altri lo abbandonano dormendo; incapaci di resistere quando sopraggiunge la prova; scapperanno e lo lasceranno solo… Gesù, che ha la missione di riunire simbolicamente l’Israele di Dio, proprio lui, per il fatto che rifiuta di opporre resistenza (per esempio fuggendo o provocando una qualche azione clamorosa) proprio lui, provocherà la dispersione dei discepoli.

          Voleva essere il riunificatore, e diventa causa di disgregazione. A questo livello della sua missione, l’agonia di Gesù è infinitamente più profonda di quella di un uomo comune che, al momento della morte, sta per essere separato dai suoi. Tutti gli uomini, certo, entrano soli nella morte, ma c’è solitudine e solitudine.

          Nella notte oscura, un solo raggio di luce: l’invocazione “Abbà Padre!” che mantiene esplicitamente Gesù in relazione con Dio, senza tuttavia evitargli l’esperienza della mancanza di soccorso: «Ecco, il Figlio dell’uomo sarà consegnato in mano ai peccatori».

 

2.      Gesù muore sulla croce

          È assai difficile determinare quale fu l’ultima parola di Gesù al momento della morte. I Vangeli infatti non concordano. Secondo Marco e Matteo, Gesù avrebbe detto: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?», il che sarebbe un eco della preghiera del Getsemani. Con questo “Perché” Gesù esprime la situazione tragica in cui si trova. Questo grido, scaturito dal fondo della notte, resta tuttavia un grido di fedeltà a Dio, dato che Gesù mantiene il dialogo e dice ancora “Dio mio”.

          Secondo Luca, Gesù è morto pienamente fiducioso: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito». È chiaro qui che Gesù conta con assoluta certezza sul Dio che salva e che è più forte della morte.

          I due testi differenti (di Marco e di Luca) riflettono così i due volti della morte: quello odioso e quello del transito sereno. Essi ci invitano, secondo le circostanze in cui ci troviamo, a esprimere come Gesù la consegna di sé filiale oppure il “Perché” doloroso, rivolto al Dio fedele al quale ancora si ricorre.

          Nel Vangelo di Giovanni, Gesù morente dice: «Tutto è compiuto». Con questa frase, Giovanni recupera il senso profondo dell’ultimo grido di Gesù, quale lo storico può ricostituirlo. Gesù ha detto probabilmente: «Il mio Dio, sei Tu!». Gesù ha proclamato così che l’alleanza con Dio non ha ceduto, e di essere rimasto fedele fino all’ultimo.

 

 

Conclusione - Orientamenti

          Mi resta da concludere. Lo faccio proponendovi alcune riflessioni che servono da orientamento. Spero abbiate potuto intravedere il comportamento di Gesù dinanzi alla morte e alla sua propria morte. Abbiamo notato che Gesù, secondo ogni probabilità, non ha fatto dichiarazioni sul carattere “redentore” della sua morte, ma che si è limitato a suscitare un interrogativo capitale sulla sua persona: chi è quest’uomo che vive in modo assoluto la fedeltà al “servizio” di Dio (del Dio d’amore), e degli uomini? Ma dovrei ancora mostrarvi il modo con cui i primi cristiani hanno espresso il mistero della redenzione, usando dei termini che Gesù non aveva usati: sacrificio, riscatto, espiazione, eccetera. Ma sarebbe l’argomento di un’altra conferenza, e posso solo proporvi di leggere un libro in cui ho cercato di esporre il rapporto tra il linguaggio di Paolo, la sua esperienza, e Gesù.

          In compenso, vorrei, terminando, invitarvi a modificare il vostro sguardo su due punti. Anzitutto sull’evento della morte di Gesù. Troppo spesso lo si considera in sé, come un atto straordinario che procura da solo la salvezza dell’umanità. Ma, facendo così, si rischia di esaltarlo, come se la sua morte fosse un atto di tipo magico che si dovrebbe far nostro per essere salvati, e che Gesù avrebbe desiderato come il mezzo efficace per la riconciliazione universale. Allora la morte e il dolore diventerebbero delle realtà positive, e quasi da ricercare, per il frutto che producono.

          Se invece guardiamo vivere Gesù attraverso la complessità dei dati del Vangelo, costatiamo che non si può separare la sua morte né dalla sua vita intera né dalla risurrezione che ne ha manifestato il vero senso. Gesù non ha ricercato la morte in sé, anche se di fatto era salvifica. Ha semplicemente voluto essere fedele sino alla fine alla missione che aveva ricevuto. Il mistero della morte di Gesù è quello della fedeltà di un uomo che aveva con Dio una relazione unica: a Dio di fare il resto, cioè di fare trionfare la vita attraverso la morte. E, in Gesù, per tutti noi.

          Il secondo punto sul quale vorrei invitarvi a modificare il vostro modo di intendere, è il mistero della nostra propria morte. Se lo situiamo in rapporto col mistero della morte di Gesù, diventa luminoso, senza tuttavia perdere il duplice volto che ci mostra. Sarebbe infatti ingenuo pensare che, grazie alla fede, la morte diventa facile. No, essa conserva un lato terribile e non diventa “ipso facto” un dolce transito verso il Padre. Certo, un santo come Francesco d’Assisi si intratteneva con “sorella morte” o col fuoco che gli mettevano sugli occhi ammalati: «Sii buono con me, frate fuoco!». Un’accoglienza del genere alla morte o alla sofferenza presuppone che le stigmate gli fossero già state impresse sulla Verna, come segno di un amore straordinario. Solo l’amore può riconciliarci con tutto.

          Ma non tutti vivono come il Poverello! E la morte rimane terrificante come una leonessa ferita che continua a lottare e a minacciare coi suoi artigli chiunque le si avvicini. Tutti i dati dei testi sono concordi: la morte ha un volto duplice, e non si deve eliminare né l’uno né l’altro dei suoi due aspetti. Gesù li ha vissuti, insegnandoci a seguire il suo esempio.

          Seguire il suo esempio, sì. Ma non imitando Gesù dall’esterno, in modo puramente formale, ma identificandoci con lui.

          La sua morte non è solo un fatto del passato, essa domina il tempo poiché è unita alla risurrezione. Proprio questo dice Paolo quando afferma che la morte e la vita di Gesù continuano a ripercuotersi, a operare in lui, sotto forma di quello che chiama la “necrosi” di Gesù e la “potenza di vita” di Gesù. E’ un fatto che al momento della risurrezione, la personalità di Gesù esplode, per così dire, in tutti coloro che credono in lui. Questa sua presenza fonda realmente la vita “spirituale” del credente, ed è allora simultaneamente morte (mortificazione) (all’infedeltà) e vita. Parlando di Gesù dinanzi alla morte abbiamo descritto il cristiano dinanzi alla morte. Resta da mettere in pratica.


*     Leon-Dufour Xavier, biblista, docente al Institut Supérieur de Teologie et de Philosophiae, Centre Sévres, París