Folloni Guido*

LIMITE, SOFFERENZA, MORTE CON O SENZA IL CROCIFISSO

 

 

          Mi sia consentito introdurre i lavori di questa tavola rotonda che ha per tema “Limite, sofferenza, morte, con o senza il Crocifisso”, ricordando una frase di Giovanni Paolo II che mi aveva particolarmente colpito l’udienza concessa quest’anno, durante l’Anno Santo, ai giornalisti.

          “Di fronte alle tante croci del mondo sta la Croce di Cristo”.

          Per un giornalista le tante croci del mondo sono una materia di lavoro quotidiano. Quante crocifissioni dell’uomo ci offre la cronaca? E per un cristiano la Croce di Cristo è il punto genetico della propria fede. In quell’espressione mi colpiva particolarmente l’immagine che essa evoca. Quello “sta”, che immaginavo dolente, silente eppure carico di interlocuzione. Quasi un urlo del creato al Creatore. In quell’immagine mi sembra contenuto l’approccio cristiano al problema della sofferenza. Esso non si distingue dal fatto di dire cose diverse da quelle proprie di altre religioni o filosofie, bensì il cristianesimo cambia i termini del rapporto fra l’uomo che soffre ed il Dio a cui esso rivolge la propria protesta. “L’uomo – la spiegazione che segue l’ho trovata nella “Salvificis doloris” (la lettera apostolica che Quinzio dichiarò di aver letto con particolare interesse perché l’autore, il Papa Giovanni Paolo II, aveva “versato il suo sangue e patito in un ospedale” La Stampa 25.2.84) non può non notare che colui al quale pone la sua domanda soffre lui stesso e vuole rispondergli dalla Croce, dal centro stesso della sua propria sofferenza”.

          Il professor Pieretti ci ha spiegato l’atteggiamento della cultura contemporanea (forse potremmo dire di diverse, ma non di tutte le culture contemporanee) di fronte alla morte, divenute l’innominabile. Ci ha spiegato perché attorno ad essa si vuole stendere un velo di silenzio, perché essa, la morte tende ad essere rimossa. Ma ci ha invitato a considerare l’impossibilità di questa rimozione e dunque il rinnovato interesse di etnologi, antropologi, sociologi, psicologi, filosofi e teologi. Concludendo poi con un invito a “guardare in faccia alla grande nemica” a chiamarla con Francesco d’Assisi, sorella morte.

          Un po’ per competenza professionale, un po’ per iniziale provocazione, a questa tavola rotonda farò io dunque il mestiere di cronista, raccontando alcuni episodi di cronaca di quest’ultimo anno nei quali Lei, “sorella morte” ci si presenta. Lasciando poi ai quattro interlocutori di tentare, per così dire, di “abbracciarla”.

          Un nota bene: ho parlato della morte, ma avrei potuto parlare del dolore, della sofferenza, o del limite, della limitatezza dell’uomo (e della nostra consapevolezza di tutto questo).

          Il primo episodio accadde negli Stati Uniti, circa un anno fa. I giornali italiani non ne hanno dato notizia, ma essa è stata riportata in Europa da un autorevole quotidiano francese.

          Un uomo decide di darsi la morte e sceglie per questo suo estremo gesto una forma, diciamo così, spettacolare: si darà fuoco a si lascerà bruciare pubblicamente. Non solo. Avendo maturato questa decisione, scrive ad una stazione televisiva ed annuncia il giorno, il luogo e l’ora del suicidio. Egli ha compreso il ruolo dei mass media e, volendo “vivere” in quell’atto tragico, convoca la troupe televisiva all’appuntamento. Or bene, l’emittente televisiva decide di accogliere la sua richiesta e si reca sul posto con le telecamere e lì, in diretta, riprende la scena.

          Milioni di telespettatori assistono così al “suicidio in Tv”. L’uomo si cosparge di benzina, poi, estratti da una tasca i fiammiferi, ripetutamente sfrega le capocchie bagnate. Inzuppati come sono, i fiammiferi stentano a sprigionare la scintilla. Un tempo lunghissimo trascorre nelle immagini prima che, dopo, l’ennesimi tentativo, il fuoco avvampi.

          Finalmente, ecco, l’uomo diviene, davanti all’occhio della telecamera, una torcia ardente. Solo allora, mentre ormai l’uomo brucia, i cameramen intervengono, e accorrendo con panni e teli, si adoperano a spegnere il rogo. Così soccorso, l’uomo viene trasportato in ospedale, dove, dopo una lunga degenza al reparto ustionati, i medici riusciranno a salvarlo.

          Ecco allora che in questo primo fatto, Lei, la morte, ci appare come protagonista della nostra comunicazione. E ci si chiede cosa ne è di noi, se le immagini del darsi la morte riempiono di sé, in diretta per milioni di spettatori, il video. La Tv è oggi lo strumento più potente della comunicazione, parola, questa che a noi cristiani evoca, in radice, la parola comunione. Eccolo dunque questo strumento, ammirabile, riprendere l’uomo nell’atto silenzioso e muto i darsi disperatamente la morte.

          Il secondo fatto si è verificato, anche questo negli Stati Uniti. Se vogliamo dargli un titolo potremmo chiamarlo: la morte dell’innocente.

          Una donna non poteva avere figli, ma desiderando fare l’esperienza della maternità chiede aiuto alla scienza. Così, dopo un periodo di cure, la gravidanza arriva. E’ una gravidanza a lungo desiderata, ma che si annuncia non priva di problemi. Ben presto i medici, cha la seguono costantemente, la informano che ha concepito due gemelli e, poco dopo, le fanno sapere che dei due figli uno è sano e ben formato, l’altro no. Ecco, allora, affacciarsi il quesito. Lei intende proseguire ugualmente quella gravidanza, così intensamente desiderata, oppure, a fronte della nuova situazione, soffocherà la sua aspirazione alla maternità, sapendo che l’aborto in quelle condizioni significherà la caduta di ogni ragionevole speranza di maternità?

          Quale è la scelta della donna? Essa chiede ai medici d’intervenire affinché il figlio malformato sia ucciso e solo l’altro, quello sano, sopravviva. La scienza ha fatto passi da gigante, ed è pronta ad assumersi un tale mandato. Ecco dunque i medici pronti all’intervento. L’operazione viene tentata con una siringa per svuotare del sangue il cuoricino. Un fatto meccanico che non crea problemi sanitari. Il cuore del piccolo si arresta. Ma di lì a poco e con grande sorpresa di tutti, il cuore si rianima e, nonostante l’intervento, il piccolo riprende a vivere. Più volte i medici tentano, inutilmente, con questo sistema. Alla fine cambiano programma e il bambino malformato viene ucciso con una iniezione letale. Il feto privo di vita resta nel grembo assieme al fratello sano per il quale la gravidanza prosegue. Al momento del parto riesplode la tragedia. Il bimbo nasce, vivo. Ma la sua vita è breve. La morte a cui era già stato consegnato il fratello disgraziato s’impossessa anche di lui, legando nuovamente i due gemelli nel medesimo destino. E’ facile immaginare il tormento della madre. Difficile, una volta entrati nella logica insita nel quesito posto dai medici alla donna (Desidera proseguire la gravidanza?”), rispondere umanamente all’angoscia di lei e cercare una ragionevole uscita di sicurezza al dramma della morte degli’innocenti (dell’uno e dell’altro).

          Terzo appunto di cronaca, questa volta dalla Francia. E’ sorta, ed è già attivamente operante con 11 mila soci, un’associazione di cittadini propugnatori dell’“eutanasia”. Essi rivendicano all’uomo il diritto a possedere la morte. La propria (e quella altrui). Così come per nascere, anche il morire sta dunque per diventare “cosa”, oggetto di possedimento? Tornano i miti antichi. Se non vinta, la morte sia almeno posseduta, se non tolta (eliminata), possa essere data.

          Ultimo episodio, il fatto è accaduto a Milano pochi giorni fa. Un barbone entrato in una canonica, dove si era già recato a chiedere ed a ricevere aiuto ed elemosina, ha violentato ed ucciso una signora che accudiva agli archivi parrocchiali. L’uomo, che in passato era stato protagonista di altri episodi violenti ed aveva trascorso un periodo di cure in ospedale psichiatrico, è una di quelle persone che vivono ai margini delle grandi città. Dimesso dall’ospedale in base alla legge 180, conduceva, come accade in questi casi, una vita solitaria e randagia, appoggiandosi, per il dormire ed il mangiare, alla carità di Fratel Ettore, che sotto la stazione di Milano presta soccorso a ciò che la città rifiuta del nostro essere uomini.

          Del resto la carità era anche il motivo che aveva spinto tante volte (ed ancora quella volta) l’uomo alla parrocchia dove si è consumato il delitto. Là era andato, perché là si esercitava la carità.

          Questa volta la morte ci si presenta come segno di contraddizione.

Essa esplode, violenta, nel luogo dove si accoglie la vita. Lungo sarebbe discutere sull’emarginazione, sulla follia, sulla legge manicomiale. Sociologia e politica e scienza sarebbero convocate da questo episodio a severe riflessioni. Ma qui, per l’economia dei nostri lavori, questo episodio ci manifesta Lei, la morte, all’apparire, inspiegata, “folle”. Il bene è ripagato con il male, e la vita con la morte.

          Ecco dunque quattro fatti di oggi: il comunicare la morte, la morte dell’innocente, il possedere la morte, la carità ripagata con la morte.

          Servono ad aprire questo incontro. Da cronista li ho proposti e rimarrò fedele alle intenzioni iniziali, lasciando aperti i mille quesiti che si affollano alla mente.

          Mi sia consentito solo un “nota bene”. Nello scenario descritto dalle parole del Papa (le croci del mondo e la Croce di Cristo) l’uomo è colui che pone la domanda. La sua libertà? Conoscere Colui al quale essa deve (può) essere rivolta.


*     Folloni dott. Guido, Direttore responsabile di "Avvenire", è stato il moderatore della tavola rotonda alla quale hanno partecipato Sergio Quinzio, Fausto Santeusanio, Gertrud Stickler, Giancarlo Finazzo i cui interventi sono stati riportati in seguito