Antonio Sicari

la sua misericordia di generazione in generazione

«Dominus a regalibus sedibus descendens,

 invisceravit se nobis in visceribus Verginis»

(Alberto Magno, In Mt. 16,16)

  

       «La sua Parola si è fatta carne e abita in mezzo a noi» (Gv. 1,14). Questa affermazione originale e fondante della nostra fede non può essere seriamente mantenuta se, contemporaneamente, non accade qualcosa anche alle nostre «parole»umane, soprattutto quando il mistero della Incarnazione si rende presente e agisce.

       L’esegesi biblica - che qui direttamente ci interessa - ha troppo sofferto, e soffre ancora, di una ostinata trascuratezza al riguardo. Le parole della Scrittura vengono esaminate nel rispetto di tutte le possibili leggi della interpretazione, ma stranamente ci si rifiuta a volte di considerare quella premessa che le rende salvifiche e interessanti: che tale parole siano cioè luogo di una incarnazione della Parola: che formino anch’esse - come diceva Origene  - «il corpo perfetto della Verità».

       Chi invece crede serenamente e completamente che il Verbo di Dio si sia incarnato anche nel corpo del Testo Sacro e nelle sue parole, come nel corpo di Maria, non può non accostarsi alla Scrittura con una diversa e totale attenzione:

       «Per ogni volta che il Verbo di Dio è stato rivolto a qualche profeta o patriarca, altrettante volte Sion a partorito il Verbo di Dio, non diverso da quello che la Beata Vergine concepì e partorì dandogli carne... La Scrittura (...) è stata creata prima ancora che Dio raccogliesse nell’utero della Vergine la totalità della Scrittura, tutto il suo Verbo. Perciò è falso dire che, prima di Maria, Cristo non esisteva. Infatti prima che ella partorisse la Sua carne, Sion beata partorì, per bocca dei profeti, lo stesso e identico Cristo, lo stesso e identico Verbo[1].

       Se questa «attenzione» - che non è solo atteggiamento spirituale, ma spirituale intelligenza - vale per tutte le «parole» della Scrittura (Ricordatevi - ammoniva S. Agostino - che è la stessa Parola di Dio che si dilata in tutta la Scrittura, e che è lo stesso Verbo a risuonare sulla bocca di tutti gli scrittori sacri» / In Ps 103, Sermo 41), essa vale a maggior ragione e con una intensità insospettata proprio per quelle parole che servirono più direttamente a raccontare il mistero stesso dell’Incarnazione.

       E’ con questo atteggiamento esegetico che ci accostiamo dunque a quelle espressioni con cui Maria canta, nel Magnificat, il miracolo della sua divina Maternità.

       E’ evidente che possiamo accettare subito tutto ciò che gli interpreti più documentati sanno dirci sulla composizione di questo Cantico. Ma - dopo tutte le analisi e le attribuzioni - qualunque serio esegeta dovrà convenire su questo: che, nel momento in cui la Scrittura intende rivolgersi proprio a noi, per la nostra salvezza, ci dice che il modo migliore di intendere quelle parole è quello di sentirle risuonare nella bocca e nel cuore di Maria, come espressione autentica del mistero da Lei esperimentato.

       Un esegeta che trascura o ritiene irrilevante quest’ultima esplicita determinazione in fondo non ha null’altro da comunicarci di interessante che i suoi esercizi archeologici sul testo.

       Meditiamo dunque questa espressione di Maria: «la sua misericordia si stende di generazione in generazione, su coloro che lo temono» (Lc 1,50).

       Troviamo applicati i principi esegetici che abbiamo esposto prima, al nostro tema, in questo passo della Dives in misericordia: «Cristo conferisce a tutta la tradizione veterotestamentaria della misericordia divina un significato decisivo. Non soltanto parla di essa e la spiega con l’uso di similitudini e di parabole, ma soprattutto Egli stesso la incarna e la personifica. Egli stesso è in un certo senso, la misericordia» (n.2).

       Si tratta dunque di prendere sul serio questo accostamento incandescente: c’è stato un tempo prezioso e unico nella storia in cui la parola «misericordia» - altrove attribuita a Dio con similitudini e parabole - Gli é stata attribuita secondo tutto il suo spessore «fisico», originale, proprio nel narrare l’incarnarsi e il personificarsi di questa stessa «parola».

       Narrando l’Incarnazione del Verbo di Dio, il testo evangelico di Luca, per quattro volte parla di un «avvenimento di misericordia».

       In greco il termine usato è sempre έλεος, quello che ancor oggi usiamo a volte nella liturgia per domandare a Dio che voglia essere pietoso con noi. Ma, a sua volta, questo termine greco è un po' troppo rigido per la calda ricchezza della sensibilità e della terminologia ebraica soggiacenti: sappiamo che sotto la stessa parola greca sono presenti altri due termini tecnici dell’esperienza spirituale raccontata nel Vecchio Testamento.

       Anzitutto έλεος traduce hesed: significa «la responsabilità del proprio amore»: responsabilità derivante da un impegno preso, da una fedeltà a se stessi e, quindi, all’altro con cui si è liberamente impegnati. Nel nostro caso, è la responsabilità che il Dio dell’Alleanza ha del suo stesso amore offerto e pattuito. Responsabilità che richiede sì l’umana corrispondenza, ma va oltre la possibile infedeltà dell’uomo.

       Lo hesed è dunque assieme dono, fedeltà e perdono. Complessivamente potremmo anche tradurre con «grazia», in senso forte.

       Ma έλεος traduce anche il termine rahamîm: esso si riferisce direttamente alle viscere materne e «si commuovono per il loro frutto», per il figlio, che impediscono alla madre di dimenticare. Il testo di Isaia 49,15 («Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne dimenticassero, Io invece non ti dimenticherò mai») è quello più celebre, in cui un atteggiamento più che materno viene esplicitamente attribuito a Dio.

       Più generale, rahamîn indica «il luogo tenero di un essere umano». Esso significa dunque «sentirsi o sapersi una cosa sola con un altro; descrive soprattutto il senso di intima unione del padre e della madre col proprio figlio, dei fratelli, degli sposi tra loro».

       Secondo Bultmann - a cui dobbiamo Kittel quest’ultima definizione - la traduzione migliore sarebbe semplicemente la parola «amore». Con molti altri, io preferirei piuttosto la parola «tenerezza» perché mantiene in sé quel qualcosa di «fisico» che è presente nella etimologia.

       Per concludere, dunque, abbiamo il termine έλεος che nei testi che ci interessano ora (Lc 1,50; 1,54-55; 1,72-74; 1,78) viene normalmente tradotto con misericordia: questa «misericordia», a sua volta, rimanda sia alla grazia della Alleanza, sia alla tenerezza della paternità (materna) di Dio[2].

       Riportiamo esplicitamente i testi che ora ci interessano.

 

Nel cantico di Maria:

          Lc 1,50:           «La sua misericordia si estende di generazione

                                  in generazione su coloro che lo temono»

 

          Lc 1,54-55:      «Ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi

                                  della sua misericordia come aveva promesso

                                  ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre»

 

Nel Cantico di Zaccaria:

          Lc 1,72-74:     «Così Egli ha concesso misericordia ai nostri padri,

                                  e si é ricordato della sua Santa Alleanza, del giuramento

                                  fatto ai nostri padri, di concederci liberati dalla mani

                                 dei nemici, di servirlo senza timore in santità e giustizia,

                                 al suo cospetto per tutti i nostri giorni»;

       Lc 1,77-78:        «...Per dare salvezza al suo popolo la conoscenza

                                 salvezza, nella remissione dei suoi peccati, grazie

                                 alle viscere di misericordia della (σηλάγхα  έλέους) del nostro Dio,

                                 per cui viene a visitarci dall’alto un Sole che sorge»

 

       A una prima evidenza sembra chiaro che i primi tre testi si riferiscono alla Alleanza (quindi έλεος come hesed), mentre l’ultimo testo si riferisce in modo molto marcato all’amore materno di Dio (έλεος come rahamîn). Cosi é detto anche nella nota 61 della Dives in misericordia. Ma tale distinzione é solo approssimativa e non tiene conto di tutto il contesto biblico veterotestamentario, né del contesto esistenziale immediato, del concreto avvenimento incarnatorio di cui si sta parlando.

       Il testo di Lc 1,50 è evidentemente una citazione del Salmo 103, considerato uno dei più belli del V.T., e addirittura la più forte e precisa anticipazione della grande definizione neotestamentaria, quella che dirà con assolutezza «Dio é amore».

       Tale Salmo è interamente strutturato secondo un preciso incrociarsi di termini e di descrizioni il cui scopo é proprio quello di legare assieme lo hesed dell’Alleanza e i rahamîn, l’affezione paterna-materna di Dio

       Come abbiamo già avvertito, traduciamo la differenza terminologica con le parole: «grazia» (hesed) e «tenerezza» (rahamîn).

 

E’ bene rileggere il Salmo, quasi per intero:

       v.    1:      Benedici Jahvè, o anima mia,

                        Il mio intimo benedica il suo santo Nome!

       v.    2:      Benedici Jahvè, o anima mia,

                        Non dimenticare tanti suoi benefici.

       v.    3:      Egli é colui che perdona tutte le nostre colpe,

                        Colui che guarisce tutte le nostre malattie.

       v.    4:       Colui che redime dalla fossa la tua vita

                        Colui che ti incorona di grazia e tenerezza.

       v.    5:      Colui che sazia di beni i tuoi giorni,

                        e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.   (...)

       v.    8:      Tenero e pietoso é Jahvé,

                        lento all’ira e ricco nella grazia   (...)

       v.    11:     Sì, come il cielo é alto sulla terra,

                        così domina la sua grazia su coloro che lo temono.   (...)

       v.    13:     Come un padre é tenero coi suoi figli

                        così Jahvè é tenero su coloro che lo temono;

       v.    14:     Infatti Egli sa di che siamo plasmati

                        ricorda che noi siamo polvere;

       v.    15:     Come erba sono i giorni dell’uomo,

                        come il fiore del campo così egli fiorisce;

       v.    16:     ecco lo investe il vento e non c’é più,

                        e il posto dov’era non lo riconosce.

       v.    17:     Ma la grazia di Jahvé perdura di eternità in

                        eternità su coloro che lo temono

                        la sua giustizia per i figli dei figli,

       v.    18:     per quanti custodiscono la sua alleanza

                        e ricordano di eseguire i suoi comandamenti.   (…)

       v.    22:     Benedici Jahvè, o anima mia!

       Dobbiamo anzitutto riflettere su un fatto che rischia di sfuggirci facilmente: gli autori sacri del N.T. non citavano l’Antico come facciamo spesso noi che ci accontentiamo di rintracciare una frase che serve più o meno bene al nostro assunto. Per loro, citare anche una sola espressione di un salmo voleva dire avere nella mente e nel cuore tutto il contesto, e percepirne le molteplici vibrazioni, certamente più ricche di quanto noi oggi riusciamo a percepire.

       Il Salmo 103 dunque è anch’esso una sorta di Magnificat (é interamente incluso nella espressione «Benedici Jahavè o anima mia!» - (v.1 e v.22)

       Al centro - nel cuore del Salmo - c’é la citazione letterale della grande autodefinizione di Dio offerta dall’Esodo, quando Egli proclamò il proprio Nome davanti a Mosè. (Da notare soprattutto il v. 1b: «il mio intimo benedica il suo Santo Nome!» che dà il tema del Salmo e che ha un sotterraneo forte contatto col primo versetto (1b) del Magnificat: «Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore» - cioè «in Gesù».

       Ma torniamo alla grande definizione dell’Esodo:

       «Il Signore, il Signore, Dio tenero e pietoso

       lento all’ira e ricco nella grazia e nella fedeltà (Es. 34,6 e Sal. 103,8).

       Attorno a questa citazione il salmista sviluppa il tema della grazia della Alleanza e quello della tenerezza-materna di Jahvè.

       Ambedue (grazia e tenerezza) «si estendono su coloro che temono Dio» (vv. 11 e 13): la grazia si estende nello spazio grande e ampio come il manto protettivo del cielo sulla terra; si estende anche per tutto l’arco del tempo («di generazione in generazione», «verso i figli dei figli» v.17); la tenerezza si estende invece nel senso della intensità, della profondità, della «totalità» dell’uomo: infatti il padre «sa di che siamo plasmati»e «ricorda che noi siamo polvere» (v.14).

       Il fatto che Dio abbia deciso di colmare ogni distanza tra sé e l’uomo con l’infinita sua grazia e tenerezza (distanza nel tempo e nello spazio e nella «struttura» dell’essere creato) suscita nel salmista uno sguardo contemplativo, umile e pensoso, sull’immensa fragilità della creatura umana; la colpa, la malattia, la morte invocano perdono, guarigione, «redenzione dalla fossa» (vv. 3-4 e 9-10).

       Alla radice di tutto sta quell’essere «come erba… come il fiore del campo investito dal vento infuocato» (vv.15-16): nella mente dell’evangelista l’eco si moltiplica, ed è certamente presente anche il celebre inizio del Libro della consolazione, che egli sta per utilizzare proprio per raccontare l’iniziale predicazione del Battista («Una voce grida nel deserto... Ecco il vostro Dio viene!...» Is. 40,3-5 e Lc 3,4-6). Proprio secondo Isaia 40,6-8 il precursore dovrà gridare queste parole: «ogni creatura è come erba e tutta la sua gloria è come fiore del campo. Appassisce l’erba e cade il fiore... ma la Parola del Signore dura in eterno».

       Il gioco dei richiami - una sorta di eco spirituale -  riempie dunque l’espressione di Maria («la sua misericordia si stende di generazione in generazione su coloro che lo temono») di molteplici vibrazioni, il cui significato è quello di annunciare che siamo giunti a quella pienezza dei tempi in cui l’έλεος totale d Dio - secondo tutta la sua possibile intensità ed estensione, e la molteplicità dei sensi e delle esperienze - si riversa ora completamente sui figli di Dio («su coloro che lo temono»): figli conosciuti da Lui in tutta la loro abissale fragilità costituzionale, ma conosciuti appunto da «viscere paterne»

       Possiamo dire che come nel Salmo 103 hesed e rahamîn venivano intrecciati tra loro perché il Dio dell’Alleanza esodale veniva compreso anche come Dio dell’Alleanza creativa, così il Magnificat recupera questa unità nel momento in cui vuole annunciare sia il compimento dell’Alleanza, sia il manifestarsi definitivo della paternità di Dio che genera il proprio stesso Figlio.

       Siamo proprio nel momento in cui la «Parola che dura in eterno» si sta incontrando con una «carne fragile e come erba che appassisce», ma conosciuta creativamente e «paternamente» da Dio, come nessun’altra (cf Is 40,8 con Sal 03, 13-16 e più tardi con Gv. 1,1-3.14).

       Su tutto questo ritorneremo. Per ora ci basti ricordare il bel commento di S. Agostino che sintetizza perfettamente tutti questi elementi.

       «Sì, l’uomo non è che erba, ma un’erba cara a Dio, tanto è vero che il suo Verbo è diventato quest’erba: ogni carne è erba, ma il Verbo si è fatto carne! Quale speranza per questa erba, dato che il Verbo si è fatto carne! Egli non ha disdegnato di farsi erba, perché l’erba non disperasse di se stessa» (PL 37, 1333).

       La seconda citazione del Magnificat (Lc 1,54-55) parla anche essa di un έλεος di cui Dio si ricorda «secondo le promesse fatte ai padri». Ed anche in questo caso si tratta di una grazia capace di estendersi είς τόυ αίώυα, per sempre. Il primo riferimento è dunque alla indistruttibilità della Alleanza. E tuttavia anche il suo retroterra biblico è tutto impregnato di attesa del mistero paterno-materno della Incarnazione.

       E’ molto interessante notare che il Salmo citato da Maria é il Sal 98 al v. 3, in cui si dice: «Dio si é ricordato del suo hesed e della sua fedeltà verso la casa di Israele».

       Innanzitutto riflettiamo ancora al fatto che i Salmi vengono citati secondo tutto il loro spessore evocativo, e allora non possono sfuggirci che proprio in questo salmo si verifica uno di questi casi il cui termine hesed viene legato strettamente al termine Ješû˛α (salvezza). Addirittura nel nostro caso, i primi tre versetti del salmo contengono una triplice ripetizione di questo «nome»:

       98,1:      Cantate al Signore una canto nuovo

                     perché cose mirabili ha fatto,

                     salvezza ha dato la sua destra

                     e il suo braccio santo.

       98,2:      Il signore ha mostrato la sua salvezza

                     ha rivelato la sua giustizia in faccia alle nazioni.

       98,3a:    Si é ricordato del suo hesed

                     e della sua fedeltà alla casa di Israele.

       98,3b     Tutti i confini della terra hanno veduto

                     la salvezza del nostro Dio.

       Il richiamo non e certamente occasionale se si tiene conto dell’insistenza con cui Luca allude al significato del nome di Gesù (Cf Lc 1,32. 47. 69. 77; 2,11.30).

       Allo stesso modo non è difficile notare l’affinità che il v.1 del Salmo ha con Lc. 1,49; l’affinità tra il v. 2 e Lc. 2,30-31; soprattutto l’importanza che il versetto 3b ha per tutta l’architettura dell’opera lucana: il tema della salvezza che deve riempire la terra e raggiungere le sue «estremità»per manifestarsi a tutte le genti é tematizzato da Luca all’inizio e alla fine del suo Vangelo e all’inizio e alla fine degli atti[3].

       Ugualmente pensiamo non vada trascurato il fatto che «il canto nuovo» annunciato dal Salmo, si concretizza (al versetto 8 e 9) nel grido: «Egli viene».

       Un altro riferimento certamente cristologico, proprio in senso fisico, é dato dalla sottolineatura con cui si dice che «Dio si é ricordato della sua misericordia, come aveva promesso ai Padri, ad Abramo e alla sua discendenza»: letteralmente, «al suo sperma» (Lc 1,55). Certamente non poteva sfuggire all’autore del Cantico quanto significato del termine «misericordia» diventasse pregnante nel momento in cui il «seme di Abramo»si concretizzava nella fisica generazione di Gesù che la tradizione, fin dalle origini, chiamerà proprio così: «le promesse furono fatte ad Abramo e al suo discendente: non si dice: “ai discendenti” come se si trattasse di molti, ma di uno solo: “e al tuo discendente” che é cristo» (Gal 3,15-16).

       Tutto ciò conferma ancora una volta questa semplice annotazione esegetica: se il termine greco έλεος contiene già in sé sia il riferimento all’alleanza (hesed) che il riferimento alla tenerezza paterna-materna di Dio (rahamîn) questo duplice riferimento é rafforzato e indissolubilmente unito dal fatto che all’inizio del Nuovo Testamento tutti i termini vengono riferiti a un’alleanza definitiva che consiste nella fisica esistenza del vero Figlio di Dio. Il discorso sulle viscere paterne-materne di Dio esce irresistibilmente dal simbolismo e dalla sfera della semplice analogia.

       Inoltre Lc 1,54 ha un esplicito riferimento anche al Salmo 105 il cui potenziale evocativo non é certamente minore. Basta ascoltarne alcuni versetti:

       v.    1:      Lodate il Signore e invocate il suo Nome...

       v.    5:      Annunciate alle genti le sue opere

                        Ricordatevi delle meraviglie che Egli ha fatto...

       v.    6:      o seme di Abramo suo servo!

       v.    8:       Egli ricorda il suo patto nei secoli (είς τόυ αίώυα)

                        la parola che ha pronunciato per mille generazioni,

                        la promessa che fece ad Abramo...

                        (segue il racconto dell’Esodo)

 

       v.    42:     perché si ricordò della sua santa Parola

                        data ad Abramo suo servo...

 

Allo stesso gruppo appartiene anche il Salmo 106:

       v.    1:      Celebrate il Signore perché Egli é buono

                        perché per secoli è la sua pietà...

                        (είς τόυ αίώυα τό έλεος  αύτού)

       v.    4:      Ricordati di me Signore...

                        visitami col tuo salutare aiuto

                        (έυ τώ σωτερίω σου)

                        sì che io veda la felicità dei tuoi eletti

                        e mi rallegri della gioia del tuo popolo

                        e mi glori della tua eredità.

                        (...)

       v.    10:     Li salvò dalle mani di coloro che li odiano

                        li liberò dalle mani dei nemici...

                        credettero alle sue parole

                        e cantarono le sue lodi.

                        (...)

       v.    45:     Si ricordò della sia Santa  con loro

                        si mosse a pietà per l’abbondanza della sua grazia (hesed)

                        e fece sì che trovassero misericordia...(rahamîn)

                        Salvaci Signore nostro Dio!

       v.    48:     Benedetto il Signore di Israele!

       Che Luca abbia presente questo Salmo é provato sia dal fatto che lo sta per utilizzare nella composizione del Benedictus (Cf v.10 e v.48) sia dai molteplici riferimenti alla gioiosa esperienza credente (di Maria).

       Questo Salmo 106 é una sorta di sfondo comune tra il Magnificat e il Benedictus.

Nel cantico di Zaccaria ciò che più emergerà sarà appunto come si impregnano di pienezza incarnatoria tutte le più tradizionali espressioni bibliche.

       Espressioni come:

              «ha visitato e redento il suo popolo...» (Lc 1,68, cf Sal. 106,4);

              «ha suscitato per noi la salvezza...» (Lc 1,69);

              «stare al suo cospetto tutti i nostri giorni» (Lc 1,75);

              «andrai... innanzi alla faccia del Signore» (Lc 1,76);

              «la conoscenza della salvezza...» (Lc 1,77);

              «verrà a visitarci un Sole che sorge...» (Lc 1,78);

non possono essere esistenzialmente nè pronunciate nè udite senza un riferimento immediato all’avvenimento dell’Incarnazione che esige un linguaggio carnalmente pregnante.

       Non c’è da farsi nessuna meraviglia pertanto che, al termine dei suoi due Cantici, Luca formi una espressione inusuale per la lingua greca e inutile per il soggiacente uso veterotestamentario, ma utilissima e significativa per la forza con cui l’autore vuole sottolineare quanto ha lentamente preparato nella sapiente composizione di tutto il suo «Vangelo dell’infanzia»: Luca parla dunque di (σηλάγχα έλέους: esplicitamente di «viscere di έλέος », in senso pieno: «misericordia», con una sorta di reduplicazione.

       Potremmo ulteriormente sintetizzare le osservazioni fin qui fatte, utilizzando quall’unico testo del V.T., in cui il termine «misericordia» venne quasi ipostatizzato: nel Salmo 79,8 si prega Dio così:

«Ci venga incontro la tua Misericordia»,

perché siamo troppo infelici,

aiutaci, o Dio, nostro Salvatore!

       S. Gerolamo, giustamente commentava così con semplicità: «ci venga incontro, o Signore, la tua Misericordia che é il tuo Unigenito!» (PL 26,1055).

       Non é arbitrario dire che proprio questa progressiva ipostatizzazione, questa progressiva personificazione é l’intento profondo con cui Luca, nei suoi due Cantici, sottolinea l’avvento fisico della Misericordia (Cfr. anche Lc 1,58):

       Abbandoniamo ora il terreno strettamente esegetico per riflettere teologicamente sul mistero, in particolare dal punto di vista di Maria.

       Ogni interprete di Lc I - II non può non accorgersi di come la persona di Maria, nel fisico miracolo della sua divina maternità verginale, attragga a sé molteplici espressioni bibliche e tutto l’antico mondo teologico del V.T. come per riempirlo di questo stesso miracolo.

―    «Rallegrati, Figlia di Sion, Jahvè è in te, non temere! Jahvè tuo Dio é nel tuo seno, potente Salvatore»: così si esprimeva il profeta Sofonia (3,17).

―    «Non temere, o terra, rallegrati e gioiosi, poiché grandi cose ha fatto il Signore... e conoscerete che nel seno di Israele io sono il Signore vostro Dio»: così si esprimeva il profeta Gioele (2,21-27).

―    «Rallegrati Maria, che sei stata riempita di grazia, il Signore é con te, non temere, concepirai nel tuo seno un Figlio e lo chiamerai Gesù (cioè: Dio Salvatore)»: così si esprime Luca (1,38).

       Attraverso Maria, e in lei, le antiche promesse vengono finalmente verificate con un realismo impressionante: quello appunto di Dio che si fa uomo, si fa bambino di una donna. Ricordo velocemente il punto centrale di questo realismo, così come lo spiega il P. Lyonnet commentando le parole dell’angelo: «la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra»:

       «Il ventre di Maria è un Santo dei Santi vivente; quella presenza divina che ella[4] aveva imparato a venerare in un solo luogo della terra, là dove il Sommo Sacerdote entrava una volta sola all’anno, nel grande giorno dell’Espiazione, l’angelo Gabriele le insegna oggi che deve ormai adorarla in se stessa».

       Questo stesso movimento potentemente incarnatorio è percepibile in tutti i riferimenti che Luca trae dal V.T.

       Limitandoci al Magnificat, basta solo pensare alla espressione che introduce questo canto di gioia. Come non sentire nelle espressioni di Elisabetta, ad esempio, l’eco di queste grandi promesse del Deuteronomio: «Egli benedirà il frutto del tuo ventre...» (Dt 7,13); «Benedetto sarà il frutto del tuo ventre» (Dt 28,4). Ma un attento osservatore noterà anche che, nel ritmo binario della benedizione pronunciata dalla vecchia cugina all’arrivo di Maria, l’espressione «frutto del ventre» sostituisce di fatto il nome di Dio. E da ciò scaturisce quella espressione già allora così sconvolgente - già così vicina al termine «Teothokos» che farà discutere i primi Padri della Chiesa e li appassionerà - con cui Elisabetta si rivolge a Maria: «la Madre del mio Signore»: «Come mai mi é concesso che la Madre del mio Signore venga presso di me?» (Lc 1,43):

       Il Vangelo dell’infanzia elaborato da Luca, ci costringe a riconoscere che nessuna interpretazione delle citazioni ivi riferite può essere adeguata se il loro passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento non viene percepito in forza di quel «peso della carne», che le parole acquistano a motivo della concretissima incarnazione del Verbo.

       Ma se questo accade con evidenza per quasi tutta la terminologia del V.T., che cosa non accadrà mai proprio a quel termine «misericordia», che tra tutti, già per natura, include in sé il riferimento al «legame delle viscere»?

       Possiamo spiegarlo con un approfondimento teologico che riteniamo legittimo.

       L’A.T. aveva attribuito a Dio questo termine così profondamente antropomorfico, ma non aveva osato mai dire che l’uomo poteva aver misericordia di Dio: il soggetto del verbo rhm era sempre e soltanto Lui che, come una Madre, si protendeva teneramente sull’uomo. E’ proprio a questo punto che avviene il capovolgimento neotestamentario: con l’Incarnazione, la misericordia di Dio verso l’uomo si esprime col fatto che Lui concede ad una creatura di essergli Madre, di aver per Lui, in senso fisico, una attrazione viscerale, «misericordiosa».

       Ma come sarebbe possibile se Dio non fosse già in se stesso, da sempre anche «Figlio»? Dio non potrebbe subire questa materna misericordia, se da tutta l’eternità egli non fosse in un atteggiamento filiale.

       Incarnandosi come figlio nel seno della madre, egli rivela contemporaneamente quel mistero per cui come figlio era nascosto da sempre nel seno del Padre.

       In altre parole: la vita trinitaria custodiva in sé e nascondeva da sempre una «relazione misericordiosa». Nell’Antico Testamento dicevamo che Dio è misericordioso perché attribuivano a Dio, per analogia, viscere paterne e materne, perché il suo atteggiamento inverava eminentemente l’atteggiamento dei nostri padri e delle nostre madri terrene.

       Ma nel Nuovo Testamento, quando Dio invia il suo proprio Figlio e accetta che Egli abbia una vera madre terrena, ci si rivela che Dio ha veramente un Figlio a cui è totalmente e indissolubilmente legato e che Dio è veramente un Figlio che esperimenta su di sé questo assoluto legame.

       La misericordia divina, una volta che raggiunge il culmine della sua manifestazione e ci mostra un Dio fatto Bambino, con una vera Madre misericordiosa con Lui, dimostra anche che l’archetipo di questa relazione attiva/passiva (avere misericordia/ricevere misericordia) va collocata in Dio stesso, nel rapporto tra il Padre e il Figlio.

       La misericordia divina che si riversa sull’uomo è indistruttibile ed eterna perché essa esiste come dimensione intrinseca dell’essere divino. Nel Figlio, il Padre è eternamente misericordioso; e nel Padre il Figlio è eternamente «destinatario» di questa stessa misericordia. Ancor di più - a ben guardare - lo Spirito Santo è questa divina Misericordia.

       L’intera creazione nasce da questo divino abbraccio misericordioso, e dunque l’uomo viene creato come figlio nel Figlio e, come tale, destinatario di una misericordia che già prevede e «accoglie» anche ogni possibile allontanamento delle creature.

       Nella Icona natalizia della Madre (e con lei l’Umanità la Creazione intera) che può impensabilmente stringere tra le sue braccia il Figlio di Dio divenuto figlio dell’uomo, fatto bambino, si rivela il «mistero nascosto da secoli»: il Padre ricco di misericordia invia il suo proprio Figlio dentro la creazione fatta per Lui e in Lui.

       In conclusione, l’annuncio evangelico che parla di una «misericordia che si estende di generazione in generazione» non parla tanto di una decisione di Dio che garantisce di permanere in un costante atteggiamento misericordioso verso di noi, nonostante ogni nostra possibile colpa (questa decisione, c’era già anche nell’V.T.!) , ma parla del nostro definitivo passaggio nella filialità del Figlio.

       Ad ogni generazione, «coloro che lo temono» (cioè biblicamente, coloro che accettano su di sé l’esigente paternità di Dio) apparterranno come evidentemente e totalmente gli appartiene il Figlio fatto uomo: gli uomini - con Cristo, in Cristo, per Cristo - come tali, sono strutturalmente immersi nella misericordia del Padre.

 

       La Madre che ha sentito le sue viscere umane legarsi al Figlio di Dio fatto uomo è l’icona vivente e l’eterna personificazione di questo misterioso scambio per cui ogni figlio dell’uomo viene accolto come figlio di Dio, nelle Sue «viscere di misericordia».

       Se Dio ha potuto avere una madre umana, ogni figlio umano può avere un Padre divino: la seconda affermazione è dentro la prima è inclusa nella sua stessa struttura. Infatti la prima affermazione («Se Dio ha potuto avere una Madre…») ne contiene già necessariamente un’altra: quella che rivela nella Divinità l’esistenza dell’eterno Figlio, e dunque dell’intera creazione nel Figlio.

       Dire dunque che Maria è Madre della Misericordia significa esattamente dire che Maria conosce come nessun altro, umanamente, visceralmente, il mistero della «filialità di Dio» (e delle «viscere del Padre») e quindi della «divinità» di ogni altro figlio, che il Padre ha conosciuto e amato da sempre, avendoli creati e predestinati in Cristo.

       Si potrebbe anche dire che la «verginità» di questa Madre di Dio è esattamente il miracolo che la innesta nella esperienza della paterna misericordia di Dio.

       E’ a partire dal suo «non conosco uomo», dal suo non-avere un padre terreno come origine del proprio figlio, che la divinità e l’umanità si amalgamano consostanzialmente e le viscere materne di Maria divengono il corrispettivo terreno delle viscere paterne del Dio trinitario.

       A partire dall’avvenimento natalizio, la misericordia divina è strettamente legata alla concreta esistenza storica di Gesù, Figlio di Maria, Figlio di Dio.

       Tale rivelazione raggiunge il suo culmine nel mistero pasquale[5].

       Molto brevemente, perciò, vorremmo ora contemplare Maria collocata in quel vertice della storia della salvezza, per percepire anche da quella definitiva altezza l’eco del suo canto di misericordia.

       A Natale, Maria ci ha assicurato che «la misericordia di Dio si stende di generazione in generazione», a partire dal miracolo della sua maternità.

       A Pasqua, Ella conferma tale certezza «col sacrificio del suo cuore», «col suo definitivo Fiat» - come si esprime la Dives in Misericordia.

       Ma come si legano i due Fiat, le due esperienze di misericordia, quella di Natale e quella di Pasqua?

       Tutti - esegeti e semplici lettori - ricordano quel certo imbarazzo che si prova a leggere nel Vangelo quei pochi testi che riguardano la Vergine: tutte le espressioni che Gesù le rivolge sembrano suonare troppo rigide, quasi scostanti, e in questo i Sinottici e Giovanni mostrano una sorprendente concordanza:

       ―    «Perché mi cercavate? Non sapevate che io mi devo occupare di quanto riguarda il Padre mio? » (Lc 2,49);

       ―    «Chi sono mia madre e i miei fratelli?...Chiunque fa la volontà del Padre mio é mio fratello, mia sorella e mia madre? (Mc 4,31-35);

       ―    «Beato seno che ti ha nutrito e il ventre che ti ha portato!... Dite piuttosto: Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 11,27-28);

       ―    «Che c’é tra me e te o Donna?» (Gv 2,4).

       Non possiamo qui farne una esegesi, ma é certo che ogni tentativo di addolcire e sfumare le espressioni é fuori luogo. E’ evidente invece che le espressioni che Gesù rivolge a Maria la rimandano costantemente ai discepoli (che Egli sembra preferire alla Madre), oppure al Padre il cui disegno é unicamente determinante e a cui Ella deve imparare a piegarsi.

       Solo alla fine, sotto la Croce, il mistero si chiarisce nell’«admirabile commercium» in cui il Figlio si fa sostituire, presso la Madre, dal discepolo.

       Maria diventerà allora «proprietà del discepolo».

       Nel momento della croce, le viscere paterne di Dio sembrano divenire stranamente insensibili verso il proprio stesso Figlio che grida a Lui («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato...?») e tutta la misericordia va invece proprio ai figli peccatori che uccidono il Figlio: in questa terribile e misteriosa assenza di commozione per il Figlio ferve la commozione per tutti i figli perduti: «per noi e per la nostra salvezza».

       Pensiamo alla contemplazione stupita dell’Apostolo Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma l’ha consegnato per tutti noi, come non ci darà ogni altra cosa insieme con Lui?... Chi ci condannerà?» (Rm 8,31-34).

       Il Figlio, lasciandosi andare nell’abisso della morte della lontananza e della maledizione, permette all’abbraccio misericordioso del Padre di estendersi fino a ritrovare i figli perduti: per questo è necessario che il Figlio venga inviato nel luogo stesso della perdizione.

       Lo scambio tra Gesù e Giovanni significa per Maria comprendere e accettare definitivamente ciò a cui tutti gli incontri col Figlio l’avevano lentamente preparata: anche lei - come il Padre - deve lasciare andare il Figlio e accettare il discepolo: deve commuoversi per un nuovo «frutto delle sue viscere», come il Padre si commuove (e il Figlio stesso lo prega per questo) per coloro che «non sanno quello che fanno».

       P. Ignace de la Potterie, indagando esegeticamente, ha dimostrato come l’evangelista Giovanni considera questa scena dello scambio, come conclusiva ed esemplare della perfezione d’amore rivelato nella passione.

       La lunga passione di Cristo è infatti introdotta dalla consapevolezza di Gesù che sa di dover «amare i suoi fino alla fine (e al compimento(Gv 13,1); inizia con la dichiarazione con cui Egli intende «rendere noto il nome del Padre... affinché l’amore col quale Tu hai amato me sia in loro, e io in loro» (17,26), e si chiude - dopo la scena dello scambio dei figli - con un «finalmente!»: «Dopo di ciò... sapendo Gesù che finalmente tutto era compiuto...» (Gv 19,28).

       La Vergine dunque che nel Natale è divenuta Madre del Figlio stesso di Dio - permettendo così alla misericordia paterna di Dio una inaudita incarnazione attraverso la sua materna misericordia verso lo stesso e unico Figlio - ora, sul Calvario, subisce pazientemente e generosamente nel suo umano strazio la stessa lacerante dilatazione della misericordia del Padre, e anche lei - con Lui - deve ricevere Giovanni come rappresentante di coloro che le uccidono il Figlio.

       La Vergine divenuta Madre per miracolo volere della paternità di Dio, continua sul Calvario - e per tutta l’estensione dei secoli - ad accogliere in sé la forza sconvolgente di questa stessa paternità.

       L’annuncio del Magnificat («la sua misericordia si stende di generazione in generazione») non è una notizia superficialmente affidata a Maria: è invece la certezza che ella dovrà trarre da tutta la sua sostanza «materna».

       Per questo, con fiducia invincibile, noi continuiamo ancora a pregare (come hanno fatto le primissime generazioni cristiane) proprio con queste parole: «sotto la tua misericordia (è così che va esattamente tradotto il «sub tuum praesidium») ci rifugiamo, Santa Madre di Dio».


[1]        RUPERTO DI DEUTZ, In Isaiam 1.2, c. 3.

[2]        La Dives in misericordia fa notare esplicitamente questa ricchezza terminologica con cui si apre il Nuovo Testamento: «Già alle soglie del N.T. risuona nel Vangelo di Luca una singolare corrispondenza tra due voci sulla misericordia divina, in cui echeggia intensamente tutta la tradizione veterotestamentaria. Qui trovano espressone quei contenuti semantici legati alla terminologia differenziata dei Libri antichi. Ecco Maria che, entrata nella casa di Zaccaria, magnifica il Signore con tutta l’anima «per la sua misericordia» di cui «di generazione in generazione» divengono partecipi gli uomini che vivono nel timore di Dio. Poco dopo, commemorando l’elezione di Israele, ella proclama la misericordia della quale «si ricorda» da sempre Colui che l’ha scelta. Successivamente, alla nascita di Giovanni il Battista, nella stessa casa, suo padre Zaccaria, benedicendo il Dio di Israele, glorifica la misericordia che egli “ha concesso... ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza”» (n.5) E’ evidente per tanto che tutti e quattro i testi vanno considerati nel loro insieme.

[3]        In Lc 3,5 il vero e proprio «vangelo» si apre con l’annuncio di Giovanni il Battista (che riprende Is 40,5): «ogni uomo vedrà la salvezza di Dio» passa definitivamente «alle genti». Così pure al termine del Vangelo (Lc 24, 44-49) gli apostoli vengono inviati «a tutte le genti» e all’inizio degli Atti si annuncia il programma missionario che dovrà condurre i discepoli «fino all’estremità della terra» (At 1.8).

[4]        Il racconto dell’Annunciazione e la maternità della S. Vergine in La Scuola Cattolica, 82, 1954.

[5]        Nessuno ha esperimentato al pari della Madre del Crocifisso, il mistero della Croce, lo sconvolgente incontro della trascendente giustizia divina con l’amore: quel “bacio” dato dalla misericordia alla giustizia: Nessuno al pari di lei ha accolto col cuore quel mistero; quella dimensione veramente divina della redenzione che ebbe attuazione sul calvario mediante la morte del Figlio, insieme al sacrificio del suo cuore di Madre, insieme al suo definitivo Fiat» (DM n.9). Perché - come ha scritto S. Alberto Madgno - «omnia membra Filii, ut filios uteri, misericordiae et pietatis visceribus amplectitur» (De Natura boni).