Maria Eletta Martini

maria, madre della misericordia, per una persona impegnata in politica

  

       Credo che farò delle riflessioni ad alta voce, perché su questo tema si possono dire tantissime cose e si potrebbero ridurre ad una sola.

       La misericordia di Dio, la misericordia che viene a noi attraverso la Madre di Dio, è un atteggiamento che può sembrare lontano o vicinissimo all’azione dei politici; si è fatto riferimento a paesi flagellati dalla guerra, dalle torture e dalle ingiustizie; se queste sono la conclusione o il frutto della politica, certamente la misericordia va chiesta solo a Dio, perché non pare che ci sia spazio, nel comportamento di chi fa la politica.

       Eppure non è così sicuro: questo nostro tempo è tempo di enormi contraddizioni; nessuna epoca quanto il mondo contemporaneo valorizza l’uomo; lo stesso progresso è teso non solo all’affermazione delle capacità dell’uomo, ma al suo servizio; e però noi sappiamo che lo stesso strumento può servire al progresso e all’annullamento dell’uomo.

       Pensiamo alle scoperte scientifiche di questi ultimi decenni: possono essere utilizzate vuoi per la vita che per la morte dell’uomo.

       Mai tanto aiuto la scienza può offrire alla vita umana, mai con tanto pericolo la stessa scienza può essere utilizzata. E così per l’ansia di giustizia, per l’eguale dignità di tutti gli uomini che sono contemporanee a squilibri sociali ed economici che fanno, invece, trionfare l’ingiustizia. Pensiamo quanto il tema della pace, che per noi è sinonimo di misericordia, ha presa in un mondo dominato dalla violenza; constatiamo che gli uomini, contraddittoriamente, oggi vivono esperienze diverse.

       E’ un tempo, il nostro, che non ha più, almeno in gran parte, il senso del peccato; è dominato dall’orgoglio dell’uomo; ma l’uomo dominatore cade nella disperazione che può sfociare nella autodistruzione. Credo che la contraddittorietà di questi elementi faccia sì che, nella sete di misericordia, sia preminente quella dei fratelli che non di Dio; non tutti arrivano a capire e a credere alla misericordia di Dio, però tutti invocano la misericordia dei fratelli.

       Forse occorre una riflessione più attenta sul termine stesso di «misericordia», la usiamo relativamente poco in questo termine, ma certamente parliamo spesso della fraternità, della pace; e se ne parla diffusamente anche in ambienti che di misericordia di Dio non parlano perché a Dio non credono.

       Di questa realtà noi dobbiamo tener conto, perché la fede è un dono di Dio e dei doni si ringrazia, ma non ci si esalta; nel rispetto della gente che non ha ricevuto questo dono, il nostro atteggiamento non può essere quello del giudizio ma di un servizio che faccia trasparire l’importanza esistenziale di questo dono. Noi cristiani che abbiamo il grande dono di Dio che è la fede nella sua parola e nella Chiesa, che possiamo gustare le cose che abbiamo ascoltato sia stamani che stasera, sappiamo per esperienza che non sono un alimento da poco per una persona che vive in un mondo che è fatto di contraddizioni, di bellezza ma anche di sofferenza, di ingiustizia. E credo che - permettetemi solo questo riferimento perché poi ho visto che delle donne si parlerà altrove - questa variabile al femminile della fedeltà maschile a Dio misericordioso (che proprio nella «Dives in Misericordia» si mette in rilievo, citando testi dell’Antico Testamento), spiega anche perché le poche donne impegnate in politica dimostrano una maggiore sensibilità nei confronti dei problemi della pace, della emarginazione, a favore della misericordia intesa nel senso più ampio del termine.

       Mi è sempre piaciuto il tratto di Isaia: «si dimentica forse, una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non mi dimenticherò mai» (Is 49,15), così come mi piace molto leggere Osea che dopo aver fatto l’elenco dei peccati e delle colpe di Israele, quasi diritto al castigo, conclude! «Il mio popolo è duro da convertirsi, chiamato a guardare in alto; nessuno sa sollevare lo sguardo... ma non darò sfogo all’ardore della mia ira, e non tornerò a distruggere Efraim perché sono Dio e non uomo» (Os 11,1-11).

       I credenti hanno capacità di sapere (si è detto stamani non si sa se prima nel cuore o nell’intelligenza) di capire un messaggio: esiste una fonte di misericordia consapevole e razionale non debole; la misericordia non è una virtù dei deboli se è la qualifica di Dio onnipotente; è una virtù forte.

       E’ ormai superata la distinzione tra virtù maschile e virtù femminile dopo quello che ha detto Paolo VI nella «Marialis Cultus»: che la Madonna è un modello non solo per le donne ma per tutti gli uomini, perché per la condizione di vita ella ha aderito totalmente e responsabilmente alla volontà di Dio, perché fu la prima e più perfetta seguace di Cristo, il che ha valore esemplare, universale e permanente. Paolo VI allora ha forse anche fatto giustizia di quella mariologia che almeno le generazioni più anziane, hanno visto come una figura proposta alle donne che convalidava la divisione in virtù maschili e virtù femminili; la dolcezza di fronte alla forza, la tenerezza di fronte all’energia.

       La «Marialis Cultus» ha anche riscattato e messo nella giuste luce una immagine della Vergine capace di essere non solo, come ha detto Max Thurian, madre della Chiesa, non solo forza di tutta la Chiesa, ma con un atteggiamento che, per le persone che fanno politica, che all’ispirazione cristiana, alla fede cristiana ricevuta si riferiscono, traccia una linea di azione. Essa è contenuta nelle frasi del Magnificat che abbiamo letto oggi! La Madonna ringrazia Dio perché ha innalzato l’umiltà della sua serva e annuncia che la misericordia di Dio «sarà di generazione in generazione»; ma il Dio di misericordia ha compiuto degli atti politici. Leggiamo il Magnificat che «ha disperso i superbi, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote». E’ misericordioso e, diremmo, un «agitatore» politico; è una figura forte; rovesciare i potenti dai troni è quasi un atto rivoluzionario; e poi conclude che «ha soccorso Israele suo servo ricordandosi della su Misericordia promessa ai nostri padri ed alla sua discendenza».

       Allora il messaggio politico è esemplare per un cristiano che voglia fare politica, che sia convinto che non c’è spazio nel mondo che non possa essere occupato da un cristiano; la dottrina insegnata da Cristo 2000 anni fa, è ancora contemporanea. Se c’è un cristiano che le annuncia usando lingua, immagini comprensive agli uomini del nostro tempo, il messaggio della lettera di Diogneto del 3° secolo, vale anche per noi: «i cristiani sono come tutti gli altri, vivono in case e vestono come gli altri uomini ai quali sono in tutto eguali, eccetto la colpa»; ci fa ricordare la figura di Gesù «uomo come tutti gli altri». Se l’unico luogo e gli unici atti che ci escludono sono «il peccato», concludiamo che c’è un enorme spazio di presenza per i cristiani nella «città degli uomini» e che si deve essere capaci di fare dovunque le nostre testimonianza della fede che ci è stata donata, ognuno secondo la propria vocazione individuale e personale.

       Ma non si può dire a nessuno che esiste uno spazio dell’attività umana preclusa a un cristiano; perché altrimenti ci si autolimiterebbe nella nostra capacità di diffondere il «Regno», l’affermazione di Diogneto nei primi secoli della Chiesa «essere cristiani l’anima del mondo»era vera allora, deve esserlo anche oggi. Si è citato il Vaticano II: credo che tutta la Chiesa, e i laici in particolare, devono essere grati alla dottrina sul laicato del Vaticano II, profondamente innovatrice nel suo «ritorno alle origini» particolarmente nei rapporti fra la Chiesa e il mondo.

       Io ho avuto un grande Vescovo, Mons. Bartoletti, il quale diceva che la Chiesa «è» il mondo, intendo che il mondo può essere, può diventare la Chiesa se i cristiani che sono la Chiesa, in questo mondo sanno essere attori e testimoni realizzando così la propria specifica vocazione di «animatori delle realtà temporali».

       Ricordiamo ancora la Madonna; a Nazareth faceva le cose che facevano tutte le donne del suo tempo; Paolo VI nella «Marialis Cultus»specifica molto bene che il lavoro di casa della Madonna non è «il modello» del lavoro specifico delle donne (ce lo siamo sentito dire per secoli!) la Madonna agiva come le donne del suo tempo; se fosse stata oggi avrebbe fatto quello che fanno le donne di questo tempo; non possiamo dimenticare che c’è una dimensione storica che fa sì che non si «consacri» come importante un’attività che cambia secondo i tempi. La Madonna non è stata solo in casa; i Vangeli ce la ricordano da Elisabetta, durante la predicazione di Gesù, sotto la Croce, nella deposizione e durante la Pentecoste; la collaborazione all’opera della redenzione fa sì che la misericordia che è virtù dell’Onnipotente diventa anche virtù della Madre di Dio che appunto nel termine «misericordia» ce lo ripropone.

       Mi sembra interessante che proprio nelle pagine che la Enciclica «Dives in Misericordia» dedica alla Madonna si dica che Ella è stata chiamata ad avvicinare agli uomini quell’amore che Gesù era venuto a rivelare; amore che trova la più completa espressione nei confronti di coloro che soffrono, dei poveri, di coloro che sono privi della propria libertà, dei non vedenti, degli oppressi, dei peccatori; cioè anche nell’enciclica si ripetono sostanzialmente quelle frasi che ho prima ricordato dal canto del Magnificat; sono insieme esempio di questa grande misericordia e dell’impegno ad esercitarla per gli altri.

       E’ un impegno che va ben oltre il tradizionale ruolo familiare femminile, ed è comune ad uomini e donne; l’invito è a tutte le persone che costituiscono la società.

       Dove esercitare questa «misericordia?». C’è un’azione dei singoli: se uno ha fame, il mio impegno è trovare e dargli da mangiare; c’è un impegno della società che mira a rimuovere i motivi di quella fame; la Chiesa in quanto tale, come comunità di credenti, ha sempre avuto una sua presenza nella società per i più bisognosi; pensiamo alle grandi opere di carità della Chiesa sorte in epoche in cui la società abbandonava i più deboli: non a caso moltissimi ospedali si chiamano con un nome di santo; sono le opere della testimonianza cristiana della carità.

       C’è anche, di fronte alla miseria ed alla sofferenza, l’impegno politico che non elimina la mia sensibilità e spontaneità personale a dar da mangiare a chi ha fame. Posso costruire un’opera sociale, un ambiente dove aiutare chi soffre; ma se riuscissi a individuare e rimuovere le ragioni per cui questa persona ha fame, potessi metterla in condizione di procurarsi il cibo da sola, farei qualcosa di risolutivo, non solo per la singola persona ma per tutti quelli come lei in difficoltà; e questa è la politica non è altra cosa, è la risoluzione (meglio il tentativo di soluzione, perché molte volte non si riesce), dei problemi alla radice, i problemi che hanno gli uomini (sono citati nell’enciclica) che hanno coloro che soffrono, sono poveri, coloro che non hanno libertà, gli oppressi. Non a caso S. Agostino e S. Tommaso parlavano della politica come della più alta delle espressioni di carità umana.

       E recentemente noi abbiamo avuto delle indicazioni anche significative ad operare. Ricordo il messaggio dei vescovi italiani dell’82, per quanto riguarda il nostro paese. Era l’invito a non chiudersi nelle sacrestie delle chiese, ma a testimoniare nel mondo la verità dei cristiani operatori di giustizia. Non perché, anche per un laico, la preghiera non sia fondamentale ed essenziale, è già stato detto e mi sembra che si debba ripetere: non si può diffondere qualche cosa che non si ha; come uno deve mangiare per vivere, uno deve alimentarsi alle fonti dello Spirito, se vuole diffondere questo Spirito, altrimenti non ne è capace, è costretto a fermarsi.

       L’animazione delle realtà temporali è un compito specifico dei laici. Si animano le realtà temporali con la cultura, con un lavoro manuale e intellettuale, con le opere sociali ma anche esercitando la politica; anzi, in qualche caso, la politica ha tale forza che o si contribuisce a determinarla o la si subisce; certo condiziona la vita degli uomini: ricordo le citazioni fatte poco fa per i paesi del Medio Oriente e per l’Etiopia; molto più in piccolo, quando il Sindaco dispone un divieto di transito, siamo costretti a non passare da quella strada. Ecco perché dico che la politica o la si fa o la si subisce, nel senso che le persone ne sono condizionate: perché è un atto politico la pace o la guerra, ma lo sono anche l’apertura o la chiusura di una strada, la decisione di costruire o no un acquedotto in un determinato paese. Bisogna stare nella città degli uomini con questo atteggiamento che ci suggerisce la lettera di Diogneto: vestire come tutti, abitare come tutti, sottostare alle leggi (noi diremmo fare le leggi) di tutti; il che significa con consapevolezza, con responsabilità che non possono essere sottovalutate.

       Noi abbiamo avuto, nella nostra esperienza momenti difficili, della guerra diffusa, della ricostruzione materiale e morale del nostro paese. Le opere di misericordia, che nell’esperienza personale sono la grande motivazione dell’impegno politico: dar da mangiare, dar da bere, vestire gli ignudi; e nella ricerca di come risolverle alla radice, le soluzioni possono essere tra loro differenziate. Nel fare politica ci sono dei rischi: ne parla il vescovo brasiliano Mons. Camara: «Se reco sollievo alla fame dei poveri mi dicono che sono un santo, se analizzo le cause di questa fame mi accusano di essere un sovversivo». Perché quando si analizzano le cause si pestano i piedi a qualcuno, si danno dei giudizi sulle strutture esistenti, si fa sempre un’analisi critica su persone e situazioni; la politica non si fa nella pace universale. Se c’è il rischio di cui parla Mons. Camara anche solo ad analizzare le cause dei mali, la politica deve andare oltre, cercare di risolvere i problemi partendo dall’analisi, e mettere in atto strumenti per impedire la povertà; e la impedisco se riesco a mettere in condizione di lavorare, avere una casa, avere di che vestirsi. Non posso pensare, io cristiano, che la mia aspirazione, la fede che Dio mi ha dato, siano di per se sufficienti a costruire una seria politica. La fede non è una specie di gettone che si mette in una macchina e fa venire fuori la soluzione di un problema. Si fa seriamente politica se studiamo l’economia, la tecnica del lavoro, come si strutturano le istituzioni, come si può stare dentro di esse e insieme costruire la società civile.

       Se si devono prendere questi impegni occorre più tempo e fatica che non il gesto spontaneo del dare un pezzo di pane, che, diciamolo fra di noi, qualche volta è anche gratificante; fa dire: ecco, ho fatto qualche cosa di positivo.

       In politica invece si può lavorare intorno a un problema degli anni, e poi ci si rende conto che non siamo riusciti a risolverlo, che non ce l’abbiamo fatta. Il sorriso di una persona che fino a poco prima soffriva mi da qualche gratificazione; posso lavorare per degli anni e avere non solo non la gratificazione ma la contestazione.

       Il problema per chi fa politica è quello di acquistare una qualificazione che potremmo dire «professionale» per tutti i cristiani e no ed è propria dei laici; il politico cristiano dalla ispirazione prende motivo per la sua operosità, ma deve esercitarla usando tutti gli strumenti «laici» in totale autonomia.

       Se devo subire un intervento chirurgico, non vado da un medico in ragione della sua fede religiosa: voglio che sia un bravo medico; meglio se è anche cristiano; questo discorso è vero anche per chi fa politica. Il fatto che il politico sia cristiano è importante, perché mi dovrebbe dare garanzie di serietà, di correttezza, di onestà, virtù non trascurabili. Ma il giudizio su di lui è sulla sia capacità, la preparazione culturale, su quanto sappia mettersi a confronto con gli altri, accentando i limiti del consenso e i limiti del dissenso. Per fare politica occorre avere gli strumenti idonei: ho detto lo studio, il lavoro, stare tra la gente, capire cosa la gente vuole, non per seguirla passivamente ma per capire che cosa si muove nella mentalità delle persone.

       Insieme a chi i cristiani fanno politica? Credo che mai, come stando in politica, si ricordano le parole del Vangelo; «Voi siete un piccolo gregge»; bisogna avere la capacità di convivere - spesso per anni - con persone che non hanno la nostra stessa esperienza religiosa, che non hanno la nostra stessa visione dell’uomo, della storia, del mondo e tanto meno la linea politica. Essere capaci di convivere non vuol dire assolutamente cedimento o passività; si tratta di vedere se c’è un pezzo di strada da fare insieme; e quando c’è, dobbiamo garantirci la possibilità di conservare la propria identità personale, anche quando si è piccolo o piccolissimo gregge; ma non ci è consentito ritirarci.

       De Gasperi, che era un grande cristiano e un grande politico, diceva che in minoranza si va perché qualcuno ti costringe non per scelta: vai in minoranza se non hai il consenso della gente, o delle altre forze politiche nelle istituzioni; ma la scelta deve essere quella, per quanto possibile, di influire positivamente sulla realtà con i doni che Dio ti ha dato, con l’esperienza che ti sei fatto, con la cultura che hai coltivato, con gli strumenti che hai acquisito.

       Ma parlando di politica si parla di potere. E’ vero che il potere è il maligno (penso alla Scrittura), è vero che è diffusa l’idea che il potere sia l’antitesi della misericordia; vorrei dire che il potere, come la politica in genere, è uno strumento: gli strumenti non sono né buoni né cattivi; l’importante è come li si usano e perché li si utilizzano. Ecco la necessità della presenza di cristiani che utilizzano gli strumenti di tutti, dimostrando di avere la capacità di farlo in modo ineccepibile ed eticamente corretto, usando gli strumenti del potere per fare servizio agli uomini.

       Consiglierei a tutti di leggere il libro sul «potere» di Guardini; non un termine da demonizzare, ma una realtà da studiare e interpretare in modo originale.

       E’ esercizio del potere ed atto politico quella «deposizione dei potenti dai troni» che abbiamo letto nel Magnificat; può essere necessario quando il potere è utilizzato generando oppressione e distruzione (gli esempi citati dell’Etiopia mi sembrano abbastanza eloquenti); anche «deporre i potenti dai troni»può essere un atto doveroso; e devono essere utilizzati gli strumenti propri della politica; ma un cristiano sa che ha anche altri strumenti da utilizzare; quelli dello spirito, dell’aiuto di Dio; i non cristiani non lo sospettano; penso a La Pira che coinvolgeva al suo far politica la preghiera delle suore di clausura. C’é una spiritualità propria dei politici; ed è loro indispensabile se non si vuol creare un vuoto esistenziale.

       Mi sono chiesta poco fa se nella politica ci sia posto per la misericordia anche nel senso del perdono. Io credo di sì. E intanto deve essere il nostro comportamento personale a far credere a questa realtà; sarebbe già molto se riuscisse ad instaurare e garantire la giustizia che, noi sappiamo, per un cristiano dev’essere una tappa per passare all’amore.

       Ma non è facile: chi fa politica ha il problema di coniugare l’imperativo evangelico «non giudicare» con l’esercizio dei suoi compiti istituzionali verso chi ha violato la giustizia. Ogni ordinamento civile moderno ha tribunali, carceri che sono strumenti del potere della giustizia. Come si coniuga l’aspirazione generalizzata alla pace dei nostri tempi e l’ossequio all’imperativo «non uccidere» con l’uso delle armi sia pure utilizzate come difesa? Questi punti interrogativi inquietanti che stanno nella coscienza dei cristiani devono trovare sempre una mediazione politica non priva di sofferenza e di rischio; quando parlo di mediazione non intendo la ricerca di una via mediana tra profezia e azione, ma la mediazione culturale e storicamente collocata ad un messaggio eterno e universale che, proprio perché tale, non può essere immediatamente un messaggio di azione politica che si caratterizza per essere contingente. La richiesta sui nostri comportamenti culturali-politici, sulla gestione degli spazi occupati e la individuazione di quelli da occupare, sulla nostra esemplarità per una condotta «comune» può portare a risposte non soddisfacenti; ma il potere è una grossa tentazione se il Signore l’ha posto tra le tre tentazioni che egli subì nel deserto, insieme alla fame ed alla superbia: «il diavolo lo porta su una montagna molto alta, gli fece vedere tutti i regni del mondo e il loro splendore, poi disse: io ti darò tutto quanto se in ginocchio mi adorerai» (MT 4,8).

       Si è parlato dell’importanza del sostegno ai politici attraverso la preghiera; devo dire che, in questo senso, noi qualche volta sentiamo distante la comunità cristiana. Sono testimone di quanto abbiamo insistito e, finalmente la CEI lo ha fatto, perché si introducessero preghiere nella liturgia oltre il Venerdì santo qualche altra volta per questa Repubblica, per il suo Presidente, per i governanti; si è fatto il 2 giugno: è stata una cosa molto importante. Noi sappiamo infatti che, per il nuovo Concordato, ne mancavano le motivazioni giuridiche, non essendo più la religione cattolica la religione dello stato italiano; è stato un desiderio a lungo preparato dal Sen. Cossiga prima che diventasse Presidente della Repubblica.

       La politica in sé viene oggi largamente contestata anche tra i cristiani. Il dibattito è aperto anche sul fatto se ci sia o non un progetto cristiano per la politica; noi sappiamo, ed è largamente consultabile nella storia e nella realtà che i cristiani fanno politica anche in assenza di partiti di ispirazione cristiana. Penso ai cristiani che operano in schieramenti politici diversi in Inghilterra, negli Stati Uniti d’America, in Francia, in Svizzera e in molti altri paesi del mondo; anzi, possiamo dire che i paesi che hanno partiti a ispirazione cristiana sono minoritari nel mondo, e che, comunque, operare in essi è anche una grossa responsabilità. Il nostro paese ha in questo senso una storia che sarebbe erroneo trascurare; ma si impone una purificazione, un aggiornamento, una maggiore vitalità.

       Ma la fuga dei cristiani dalla politica quante volte ha fatto cadere o appannare ideali per i cristiani irrinunciabili (la tutela della vita umana, la famiglia, la libertà della scuola) almeno nella legislazione! Perché se la politica è fatta di programmi e di leggi per attuarli, in questi anni abbiamo visto in Italia che, pur essendosi cristiani in tutte la forze politiche, quelli che si qualificano per tali anche in sede politica - intendo i dc - sono rimasti soli a sostenerle (ad esempio il diritto alla vita e la unità della famiglia) in sede parlamentare.

       Il giudizio sui cristiani in politica è anche sul loro comportamento; non sempre si è stati esemplari; ma quanto è vero che l’assenza dei cristiani più impegnati religiosamente dalla scena politica ha contribuito al decadimento generale! Perché le assenze pesano, e i posti vengono riempiti: chi non c’è non c’è; se un cristiano non è in un ambiente non lo si sostituisce; e nemmeno è possibile improvvisare un cristiano.

       Anche in politica si può crescere religiosamente, ma l’esperienza insegna che è meno difficile per chi è arrivato alla politica con un bagaglio di esperienza e di vita religiosa dietro le spalle. La politica è, per chi la esercita, il luogo della propria santificazione; così come un medico si santifica facendo il medico, un genitore si santifica facendo il genitore, un monaco o un sacerdote facendo il monaco o il sacerdote. Ho detto dell’assenza fisica di cristiani dalla politica; alcuni non ce l’hanno fatta più, altri si sono stancati; conosco l’esperienza «di non farcela più» di chi è «tentato» di abbandonare la politica per impegnarsi in altra sede, magari con una accentuazione di esperienza religiosa; non è un atteggiamento eccezionale. Sguarnire di cristiani la politica, e anche il partito, forse non ha ripercussioni negative immediate per le indicazioni di carattere generale, per un certo tipo di legislazione; ma manca l’impegno della testimonianza che per i cristiani è essenziale.

       Vorrei concludere leggendo due passi: uno di Dag Hammarskyôld e uno del Cardinale Martini, arcivescovo di Milano.

       Forse non ce lo ricordiamo ma Dag Hammarskjôld fu segretario generale onu da prima dell’aprile 53 al settembre 1961 quando morì in un incidente aereo mentre andava nel Katanga in missione politica, per mettere pace in quella zona.

       Era un luterano, un uomo che nessuno sapeva avesse la ricchezza spirituale di cui questa poesia, che a me piace molto, è testimonianza; è scritta due mesi prima di morire.

              «Abbi pietà di noi

              Abbi pietà dei nostri sforzi,

              così che noi dinanzi a te,

              in amore e fede, giustizia e umiltà,

              possiamo seguirti, in disciplina, lealtà e coraggio,

              e incontrarti, nella quiete.

              Dacci

              sensi puri per vederti,

              sensi umili per udirti

              sensi d’amore per servirti

              sensi di fede per viverti.

              Tu

              che io non conosco ma a cui appartengo.

              Tu

              che io non intendo ma che hai votato me

              al mio destino.

              Tu...

        Chiudo leggendo un brano di una «lezione-meditazione» (non so come si può chiamare) che il Cardinale Martini ha pronunciato ricordando Vittorio Bachelet, il 12 febbraio 1982, nel 2° anniversario della morte.

       Vittorio Bachelet è stato ucciso dalle brigate rosse nel suo ruolo politico di vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, non di Presidente dell’Azione Cattolica, incarico che aveva lasciato qualche anno prima.

       Dice il Cardinale Martini: «Se la scelta religiosa dell’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet ci stimola a riflessione illuminanti riguardo alla «larghezza» della vocazione cristiana dei laici, il secondo capitolo quello della sua tragica morte, ci fa meditare sul mistero della sua “fortezza paziente e perseverante”». Con una metafora non fuori posto potremmo definire la morte di Bachelet come una sorta di «martirio laico», quasi simbolicamente evocatore (autentico «segno dei tempi») di valori che la parola deve enunciare, ma che solo in una fedeltà discreta possono essere compiutamente vissuti...

       Ad alcuni cristiani (laici o pastori di altri tempi e del nostro tempo) questo è chiesto dal Signore nella forma esplicita di un martirio in senso proprio. Quando, in odium fidei, gli uomini minacciano al credente la morte, come esito della sua fedeltà, il Signore si serve di questa minaccia per «interpellare il credente, e per chiedergli di raccogliere il tutto della sua vita per la suprema «scelta religiosa» di una testimonianza incondizionata di fede: Non questo però, fu riservato a Vittorio Bachelet. Né dal Signore né dagli uomini gli fu chiesto il permesso, né gli fu offerta alternativa: Se consenso gli fu chiesto dal Signore (non già dagli uomini) nell’istante supremo, fu solo i docilità a ciò che era avvenuto. Non fu colpito nell’esercizio delle sue responsabilità ecclesiali, né per esse fu ucciso, né in rapporto esplicito alla sua professione di fede, bensì nel cuore della sua professionalità e della sua fedeltà a servizio della città degli uomini. Anche qui c’è un mistero di pazienza forte e lungimirante...».

       Sono dunque anche questi i luoghi della testimonianza dei cristiani in politica. Più largamente diffusi, meno drammatici e incruenti sono naturalmente anche gli impegni e i sacrifici quotidiani. Ma nella stessa linea della testimonianza che in politica possono e debbono fare i laici cristiani.