Giorgio Campanini e Gianna Agostinucci[1]

ricchezza e povertà della famiglia contemporanea

 

       Interrogarsi sulla «crisi della famiglia» - nel suo senso per così dire «neutrale», di accelerato processo di mutamento, piuttosto che nel suo senso «catastrofico», di caduta dei valori - significa in qualche modo interrogarsi su quali siano oggi, le sue «ricchezze» e le sue «povertà».

Si ha l’impressione, talvolta, di essere di fronte ad una sorta di «smarrimento» della famiglia contemporanea: il quadro dei valori sui quali, anche in Italia la famiglia si era fondata appare in larga misura ormai superato e non più proponibile, senza una profonda revisione che, senza abbandonare le grandi linee portanti dell’esistenza coniugale, le riproponga tuttavia in una prospettiva più corrispondente alle esigenze ed alle attese dell’uomo contemporaneo. Sullo sfondo si intravede in vaste componenti della società, forse e soprattutto fra le nuove generazioni, una segreta povertà di amore, che non riescono a mascherare né il ritorno neo-romantico a questo sentimento né la riduzione dell’amore ad erotismo così largamente presente nella attuale cultura.

       Intento di queste riflessioni è cercare di esplorare, a grandi linee, le ricchezze (vecchie e nuove) e le povertà (esse pure vecchie e nuove) della famiglia, in una prospettiva dichiaratamente antropologica. Il discorso di fede, qui non è escluso ma presupposto: con la preoccupazione dominante di aiutare a cogliere il senso delle trasformazioni in atto, nella consapevolezza ― ormai matura, soprattutto dopo l’esemplare lezione metodologica fornita dal Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes ― che ogni mutamento sociologico pone alla coscienza dei credenti anche un problema teologico. Dio si rivela nella storia attraverso quei «segni dei tempi» che spetta all’uomo leggere e scrutare in profondità. Anche il mutamento della famiglia nei suoi vari aspetti (dal nuovo rapporto fra uomo e donna al diverso atteggiamento nei confronti della fecondità) può essere letto come un «segno dei tempi». Cogliere il significato e il valore di questi mutamenti ― per aiutare le famiglie cristiane ad essere se stesse e a realizzare compiutamente la propria vocazione ― è certo frutto di una matura sapienza cristiana; di una sapienza, tuttavia, che per essere tale non si sottrae alla sollecitudine che le può provenire dalle scienze umane e dal contributo che esse possono offrire anche alla migliore comprensione della realtà della famiglia.

       Di qui il taglio decisamente antropologico di queste riflessioni che muoveranno da un’essenziale ricognizione di ciò che è cambiato ed ancora sta cambiando, nella famiglia contemporanea, per soffermarsi poi su alcuni dei «nodi» problematici del cambiamento: il nuovo rapporto fra uomo e donna da un lato e la nuova percezione che, dall’altro, la donna ha del suo rapporto con la famiglia e la maternità. Emergeranno di qui, ci si augura, le potenzialità ma anche i limiti della famiglia odierna, appunto le sue «ricchezze» e le sue «povertà».

 

1.    La realtà della famiglia contemporanea

       La famiglia del nostro tempo (e cioè della stagione che si è iniziata circa un secolo addietro, con l’avvio anche in Italia del processo di industrializzazione) ha rivelato e sta ancora rivelando una serie di potenzialità che ne fanno una sorta di unicum nella storia fino ad oggi vissuta dall’uomo. Coloro che continuano a lodare la famiglia del passato si riferiscono certo al «passato prossimo», non già al «passato remoto», e mostrano di difettare di una sufficiente prospettiva storica: del passato si idealizzano alcuni aspetti e se ne dimenticano o se ne trascurano altri.

       Sono soprattutto tre gli ambiti in cui si sono verificati, e tendenzialmente in positivo, i mutamenti più significativi: la libertà di scelta del coniuge, le migliori opportunità di vita familiare, una maggiore attenzione educativa.

       Il riconoscimento ormai largamente diffuso (anche se nemmeno oggi ovunque effettivo) del diritto alla libera scelta del coniuge rappresenta una delle vere e proprie «rivoluzioni silenziose» che l’ultimo secolo della storia dell’Occidente ha conosciuto. Per molti millenni, ed ancora oggi in altre parti del mondo, le scelte coniugali sono state determinate, e dominate da aspettative, desideri, interessi pressoché estranei ai diretti interessati. Si «era sposati» (generalmente dai genitori), non «ci si sposava». E’ possibile che quelle unioni fossero più stabili, perché circondate di una serie di garanzie, e di controlli spesso assai rigidi, da parte del gruppo sociale; ma difficilmente il rapporto tra uomo e donna poteva svilupparsi in profondità, perché mancava la condizione preliminare della reciproca conoscenza, del reciproco apprezzamento, della reciproca scelta. Il matrimonio di amore è certo più fragile, come si vedrà, ma anche potenzialmente, assai più ricco del matrimonio combinato, nel quale la «funzione sociale» ― in particolare quella di consentire a uomini e donne di avere uno status pubblicamente riconosciuto e legittimato ― prevale decisamente sulla dimensione individuale del rapporto di coppia. La realizzazione di sé è un aspetto decisamente secondario nel matrimonio pre-moderno e tende ad essere sacrificata rispetto ad altri valori, primo fra tutti quello di garantire attraverso la procreazione la continuità del gruppo sociale.

       Per effetto della rivoluzione introdotta dalla concezione romantica dell’amore ― ci si sposa per amore e non ha più senso sposarsi senza amore ― il quadro muta profon­damente. Ogni persona sceglie liberamente l’altra e decide essa stessa del proprio destino; coloro che sono alla periferia della copia non ne possono mai costituire il «centro», e le loro attese e aspettative passano in secondo piano; il diritto alla libera scelta travalica ogni remora o condizionamento di ordine familiare e sociale.

       Quando al secondo ambito del cambiamento ― e cioè il miglioramento delle opportunità di vita familiare ― le trasformazioni avvenute nell’ultimo secolo, e in Italia soprattutto nell’ultimo quarantennio, sono sotto gli occhi di tutti e dunque vi si potrà rapidamente accennare. Basterà sottolineare ciò che troppo spesso si tende a dimenticare, e cioè che per una lunga stagione tali e tanti sono stati i condizionamenti negativi esercitatisi sulla vita di famiglia (dalla mancanza di abitazione decorose, alle lunghe migrazioni, alla brevità della vita, alla limitatezza e a volte alla totale mancanza di risorse materiali), che un’autentica vita di coppia è stata possibile, quando lo è stato, esclusivamente in limitatissimi strati sociali. L’enorme maggioranza degli uomini e delle donne è stata per così dire espropriata della famiglia, è stata costretta a vivere in condizioni tali da rendere di fatto impossibile la realizzazione di una famiglia intesa come «comunità di vita e di amore». Ancora oggi, in gran parte del mondo, la famiglia si trova a fare i conti con il peso, a volte insostenibile dei condizionamenti materiali.

       Oggi in Italia, per la grande maggioranza delle persone, questi condizionamenti negativi sono venuti meno; e quando ancora sussistono potrebbero essere rimossi grazie ad una più oculata politica sociale, di cui si avverte fortemente la carenza. Ciò non significa che altri rischi non incombano sulla famiglia contemporanea e sulla stessa coppia ― primo fra tutti quello dell’esasperazione del consumismo; ma il superamento di tali condizionamenti è sicuramente un fatto positivo perché, per la prima volta nella storia, la comunità familiare è posta in grado di esprimere tutte intere le proprie potenzialità.

       Quanto alla maggiore attenzione educativa, è sufficiente soffermarsi sulla famiglia del passato per constatare quanto poco in essa potesse realizzarsi un vero e proprio rapporto educativo. Spesso assenti i padri oberati di compiti materiali e le madri, brevissima la vita della coppia (quasi nessuno diventa adulto potendo ancora disporre dei propri genitori) precocemente sottratti gli stessi figli alla famiglia per servire, ancora bambini, come garzoni, come domestici, come apprendisti. Ben scarsi erano gli spazi che si aprivano ad una reale intimità fra genitori e figli anche per effetto dell’altissima mortalità infantile (come attaccarsi emozionalmente a bimbi che si sapeva essere in gran parte dei casi destinati a morire?) e insieme delle troppo ampie dimensioni della famiglia. La famiglia nucleare moderna tendenzialmente caratterizzata da un libero e stabile rapporto di coppia e dalla continuata presenza sotto lo stesso tetto tanto dei genitori quanto dei figli, esprime un’attenzione educativa (a volte assidua da diventare ossessiva) pressoché sconosciuta nella grandissima maggioranza delle famiglie del passato.

       Anche se una riflessione sulla implicazione che questo mutamento della famiglia ha avuto sul piano religioso è estranea al senso complessivo delle presenti notazioni, non si può fare a meno di sottolineare quasi per incidents, anche tale aspetto. La rivalutazione della famiglia come «chiesa domestica», la nascita dei movimenti di spiritualità coniugale e familiare, la sempre più consapevole assunzione da parte delle famiglie di compiti e responsabilità ecclesiali: tutto questo non avrebbe potuto essere possibile, e di fatto non si è verificato nella famiglia pre-moderna, perché ne mancavano le condizioni. Ciò non significa in alcun modo che i cristiani del passato non abbiano potuto santificarsi anche al di fuori della vita, ritenuta allora quella «maestra», della vita religiosa; ma era una santificazione che avveniva in qualche modo nonostante la famiglia, malgrado i pesi, i condizionamenti negativi, i limiti intrinseci di un rapporto di coppia spesso più subito che voluto; mentre la nuova stagione che ha preso avvio intorno agli anni ‘30, soprattutto dopo la Casti Connubii, ed ha colto i suoi frutti maturi negli anni del Concilio Vaticano II, ha potuto essere inaugurata solo dopo che la famiglia è uscita dalla situazione di quasi-emarginazione che troppo a lungo aveva conosciuto. Si pone mente troppo poco al fatto che quella che viene ritenuta la stagione del divorzio, dell’aborto, dell’infedeltà coniugale è anche la stagione del fiorire della spiritualità coniugale, del ritorno alla preghiera in famiglia, del recupero della centralità della Parola di Dio nella vita di coppia. Ancora una volta forse, sono i «dieci giusti» che salvano la città...

       Quasi naturalmente è stato così introdotto il discorso sui nuovi rischi che incombono sulla famiglia. I condizionamenti negativi di ieri sono ormai alle sue spalle, ma altri non meno gravi si profilano all’orizzonte, e con essi occorre essere capaci di fare i conti.

       Il primo di questi rischi è quello della strutturale fragilità del matrimonio moderno. Le statistiche rivelano che in grandi nazioni come gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica i matrimoni che si concludono con una separazione o un divorzio sono ormai oltre un terzo. Anche se in un paese come l’Italia ― caratterizzato a lungo da una marcata stabilità della coppia ― il numero delle richieste di separazione ha ormai superato la soglia del 10 per cento e ci avviamo verso gli anni in cui un matrimonio su sei appare destinato, se non vi sarà un’inversione di tendenza a sfociare in un divorzio.

       Le ragioni di questa emergente, e per l’Italia del tutto nuova, fragilità delle unioni coniugali sono assai complesse e possono essere qui appena sfiorate. La larga permissività della legislazione civile e il persistere di contesti sociali negativi (soprattutto al sud) hanno indubbiamente un notevole peso ma non si può dimenticare una diffusa crisi di valori (perché infatti essere fedeli all’altro, se la fedeltà «non è più una virtù?» e soprattutto la pressoché generale impreparazione dei giovani alla vita e all’amore. Quasi nulla da parte della società civile, e ancora troppo poco dalla Chiesa e dalle sue diverse espressioni, si fa per aiutare i giovani a realizzare un’autentica esperienza di amore; vivere nell’amore è forse il compito più difficile che possa essere assegnato ad un uomo e ad una donna e si pretenderebbe che essi siano capaci di affrontarlo senza il minimo di apprendistato che si richiede invece per altri compiti alla fin fine meno importanti e meno decisivi per la vita dell’uomo...

       Il secondo rischio che la famiglia moderna corre è quello dell’impoverimento della vita di relazione per effetto di una serie di fenomeni convergenti nel medesimo risultato: la forte restrizione anche quantitativa della rete di rapporti familiari (la famiglia «a figlio unico» come modello statisticamente ed anche culturalmente emergente da un lato, la espulsione di fatto degli anziani dall’altro); l’incapacità di realizzare un giusto equilibrio fra dimensione pubblica e dimensione privata dell’esistenza; il ricorso patologico all’evasione televisiva; il ripiegamento privatistico su di sé, in nome di un’etica che assolutizza l’individuo e lascia in ombra la dimensione sociale della vita, persino del rapporto di coppia.

       Il terzo rischio è quello di concepire la vita di famiglia in termini di gratificazione personale piuttosto che di servizio. Questa seconda dimensione era fortemente sentita, e a volte esasperata, dalla famiglia del passato, soprattutto nella forma del «servizio alla vita», e della conseguente forte doverosità della procreazione; ma rischia di essere quasi del tutto espunta dalla famiglia e dalla coppia moderna, tutta ripiegata sulla propria privatezza, tutta protesa a realizzare il proprio, vero o presunto diritto della felicità, sino a rimuovere dal proprio orizzonte ciò che a questo «diritto» sembra attentare (è indubbiamente questa una delle chiavi di lettura del fenomeno dell’aborto praticato dalle persone coniugate). Non solo l’etica evangelica, ma ogni etica autenticamente umana ammonisce invece che tutte le volte che si cerca parossisticamente se stessi ci si perde, e che si ritrova se stessi solo nel rapporto con gli altri, nel servizio agli altri, in una prospettiva di oblatività, di gratuità, di dono, che è spesso del tutto esclusa dall’orizzonte di molte delle coppie moderne. Ricercare la propria realizzazione anche attraverso il servizio agli altri, e non soltanto ripiegandosi su se stessi, è la condizione necessaria per fare uscire la coppia moderna dal vicolo cieco nel quale essa minaccia di rimanere rinchiusa.

       Sono queste, a grandi linee, le «ricchezze» e le «povertà» dell’amore. Mai come oggi esso ha potuto sviluppare le proprie potenzialità, mai come oggi esso è minacciato da una cultura che sembra orientata in senso antitetico ai valori di cui la famiglia cristiana è portatrice. Recepire sino in fondo il senso dei mutamenti culturali in atto è la condizione necessaria per reggere la sfida che la cultura contemporanea reca alla famiglia.

 

2.    Donna, famiglia, questione femminile

       Nell’instaurarsi della «crisi» della famiglia, testè descritta, con i suoi aspetti negativi e positivi, un ruolo notevole è stato certamente giocato dall’emergenza, a livello culturale e sociale della cosiddetta «questione femminile» e dall’espandersi di quel «movimentismo» femminile, ora in fase di riflusso che negli anni ‘70 è andato genericamente sotto il nome di neo-femminismo.

       Per la maggior parte delle molte fazioni e formazioni nelle quali il neo-femminismo si è espresso non di rado in forte contrasto reciproco, uno dei punti unificanti è apparsa l’analisi negativa della famiglia (definita come struttura «borghese» e «autoritaria»), colta in alcune caratteristiche tipologiche che la facevano definire come uno dei luoghi se non il luogo per eccellenza, nei quali si consumava l’oppressione della donna.

       Ciò che il neo-femminismo contesta è il matrimonio come unico possibile destino della donna «riuscita»; la famiglia come solo ambito «naturale» dell’espressività femminile, come prigione più o meno dorata dalla quale è proibito evadere; la famiglia come necessaria mediazione fra la donna e il «mondo», la donna e la storia. Matrimonio e famiglia diventano così uno dei bersagli più in vista della lotta femminista per la «liberazione della donna»; e si tratta di un tipo preciso di matrimonio e di un preciso modello di famiglia, quelli ereditati dalla civiltà borghese e «illuminata» dell’Ottocento, che sanciva nelle proprie leggi la soggezione giuridica della donna all’uomo; cultura, a sua volta, sorretta da una mentalità e da un atteggiamento profondo che sottostava a tale legislazione e che non sarebbe automaticamente venuto meno con il mutare delle leggi (diritto e voto alla donna, parità giuridica fra i due sessi, introduzione in Italia del nuovo diritto della famiglia, e così via). Una tale mentalità avrebbe continuato a lungo, e continua in molti casi tuttora, a informare di sè un costume matrimoniale e familiare pure formalmente cambiato e regolato da norme giuridiche più eque.

       La polemica anti-familiare del neo-femminismo si innesta sulla coscienza della propria identità di persona (valore sommo e intangibile) da parte della donna e, insieme, sull’esperienza di vita di una moltitudine di donne, capaci di mostrare, con la forza del vissuto, che è possibile attingere pienezza di personalità e rapportarsi direttamente al sociale e al politico, fuori e oltre la dimensione familiare.

       Nodo fondamentale di questa contestazione ― condotta senza esclusione di colpi, specialmente da parte di alcuni dei gruppi nei quali si divise e si espresse il neo-femminismo ― appare il tema della sessualità, di fatto discriminante di fondo dell’inferiorità femminile. Il rifiuto della sessualità come elemento di discriminazione è il neo-femminismo netto e capace di assumere toni violenti e perfino paradossali. La coscienza di appartenere solo a se stesse, di non voler a nessun costo degradarsi a «proprietà» di nessuno, diviene per le «militanti» il caposaldo dell’assalto all’istituzione matrimoniale, visto come la roccaforte nella quale invece la «proprietà» della donna da parte dell’uomo è sancita, se non più dalle leggi, da quella ricordata mentalità, per la quale tale proprietà e soggezione è garanzia di stabilità e continuità. Il divorzio diventò così, a suo tempo, a torto o a ragione, una battaglia femminista, un ideale per cui battersi, e troppo tardi si cominciò a percepire quanto in realtà potesse giocare contro la donna una legislazione divorzista, nella quale di fatto, e fatalmente, la donna finisce per essere la controparte più debole. La lotta per il divorzio finì per appannare quel giusto ed appassionato rivendicazionismo antisessista che avrebbe dovuto trovare le donne unanimi nell’esigere il rispetto di sé come persone, in qualunque luogo e ambito, dalla famiglia al lavoro, senza essere e sentirsi mai ridotte a funzione.

       Non diversamente sarebbe avvenuto per la legalizzazione dell’aborto; la maternità, dapprima rifiutata come prodotto ultimo della sopraffazione maschile, sarà poi rivalutata come «esperienza» e come «scelta» esclusivamente femminile, sempre nell’ottica della rigida contestazione del maschio. In tale prospettiva l’aborto assume una propria tragica coerenza, e a nulla valsero la considerazione dei diritti primari dei nascituri né del diritto, pure non sottovalutabile, del padre, né la prevedibile spirale in ascesa della legale «fabbrica degli angeli».

       Ci si accorse, a questo punto, che la donna «liberata» finiva per abitare, insieme all’uomo, fra macerie e rovine: dal profondo delle coscienze, come da diverse e talora opposte sponde culturali, sorgevano segnali indicanti la necessità di «ricostruire la casa» ― fuor di metafora, rifondare la famiglia ― su fondamenta rinnovate, in cui tuttavia si recuperano alcune basilari e inattaccabili pietre angolari. Esse non potevano centro identificarsi nella soggezione della donna né nell’assetto di una famiglia chiusa e autoritaria, ma nella ricompensazione di alcune coordinate di fondo, senza le quali la famiglia non potrebbe reggere all’urto dei mutamenti sociali e culturali.

       La via per il superamento di questa antinomia fra «vecchio» e «nuovo» non poteva consistere nella riesumazione di schemi superati di «casalinghità» forzata, né nella riproposizione di una nuova «mistica» di una femminilità ricondotta nei ranghi, sia pure aggiornati, della soggezione e del silenzio; ma piuttosto nell’attivo impegno per ritessere, insieme con l’uomo, la trama di una famiglia rinnovata. Occorre ora declinare insieme la «eguaglianza»e la «diversità». L’accettazione e il rispetto della diversità si esprimono nel riconoscimento dell’eguaglianza essenziale delle persone: è il principio della democrazia, che deve potere valere nell’ambito della politica, del lavoro, in quello stesso della famiglia, dove uomini e donne, genitori e figli, attingono eguaglianza e diversità non per il ruolo che svolgono (e che può ormai essere entro certi limiti, intercambiabile) ma nell’originalità radicale del proprio essere personale.

       Tutto questo presuppone l’instaurarsi di una solidarietà profonda fra uomo e donna, dentro e fuori la famiglia; esige di educarsi ad uno stile di dialogo, allo sforzo di capire le motivazioni dell’altro; richiede a uomini e donne di fondare il proprio matrimonio non sulle ragione del piacere, dell’immediatezza, della pretesa che tocchi «a lui» o «a lei» salvaguardare la felicità di entrambi, ma sulle ragioni di sentimenti forti, di una progettualità condivisa, di un reciproco profondo rispetto. Indubbiamente tale impegno comporta, per gli uomini e per le donne, l’assunzione di un atteggiamento di matura responsabilità.

       Poiché si tratta di costruire, o ricostruire secondo parametri di umanità autentica, quell’ambiente umano primario che è la famiglia, e prima ancora quel rapporto fondamentale fra l’uomo e la donna, già in qualche modo strutturato come «famiglia», che è il matrimonio, la responsabilità appare davvero come l’elemento fondante, prioritario, capace di condurre a sintesi quei diritti personali di uguaglianza e diversità, di libertà, indipendenza e solidarietà, diversamente destinati ad agire ciascuno da forza centrifuga anziché costruttiva.

       Occorre dunque che l’uomo prenda atto, con la donna, di tali «condizioni», indispensabili per la costruzione della famiglia, ed operi per parte sua una «conversione» di mentalità.

       Accanto e in qualche modo «dentro» la responsabilità va colta la forza edificatrice e unificante dell’amore. Tale espressione oggi forse può far sorridere di sufficienza, ma senza questa forza (che non è dell’istinto, o non solo di esso, ma principalmente dello spirito) non si rifonda un genuino rapporto uomo-donna nella famiglia né, a dire il vero, si costruisce la società o si dà luogo ad una storia veramente umana.

       L’amore che ridisegna la fisionomia della famiglia non è solo quello coniugale, ma è l’amore che si fa progetto nei figli e che si allarga poi oltre i confini del privato. Si profila qui il tema della maternità, che attende di assumere un nuovo senso all’interno di rinnovati rapporti fra l’uomo e la donna. E’ necessario superare l’idea della maternità come destino per la donna, o peggio come imposizione; ma insieme occorre recuperare il senso e il valore oblativo e costruttivo di ogni maternità ed il suo rapporto profondo con la paternità. La libertà di scelta in tale ambito deve trovare i propri limiti invalicabili nei termini di questo rapporto e nell’oggettività di una nuova presenza umana, una volta che il figlio sia concepito: purtroppo non più garantita dalla legge, la inviolabilità della vita può essere ora assicurata solo dalla coscienza.

       Non vi è da illudersi che questa maternità «liberata» possa essere affidata semplicemente all’uso massiccio e indiscriminato dei contraccettivi (per i quali la donna paga sempre, poco o tanto, di persona). La «scelta» presuppone la capacità di esercitare una sessualità veramente umana, consapevole e responsabile; esige maturità personale e un atteggiamento permanente di auto-educazione. Ma qui il discorso dovrebbe allargarsi al parallelo tema del nuovo rapporto uomo, famiglia e paternità, tema in cui non è qui possibile entrare. Basterà sottolineare come sia indispensabile che l’uomo riscopra per se stesso, il significato unitario della persona, non divisibile in compartimenti stagni, né senza comunicazione; occorre che egli si riappropri interamente di una identità snaturata dall’indebito gonfiarsi del ruolo pubblico, non meno di quanto sia stata snaturata quella della donna dalla riduzione al ruolo privato. Nell’unità radicale della persona i concetti di «pubblico» e di «privato» perdono la nettezza dei contorni e appaiono per ciò che realmente sono: due modi diversi, ma non opposti, di esprimersi e di porsi dalla persona di fronte all’altro e al mondo.

       L’intuizione espressa icasticamente a suo tempo dallo slogan femminista «anche il personale è politico», evidenzia, in questa prospettiva una ricchezza insospettata. Il «personale» è «politico» non solo per la donna, ma anche per l’uomo: la valenza «politica» dell’esperienza comunionale e comunitaria del matrimonio e della famiglia va recuperata da parte di entrambi, per consentire un comune e condiviso apporto alla maturazione reciproca e al servizio della società.

       Vi è dunque una «povertà», vi è uno «smarrimento» dell’amore che possono essere ricondotti anche alla incapacità di instaurare un autentico rapporto fra uomo e donna. La fede può contribuire ad una rifondazione dei rapporti fra donna e uomo, fra coppie e famiglia. La divisione, la paura, la sopraffazione che hanno tanto spesso nella storia caratterizzato il rapporto uomo-donna; l’assetto, giuridicamente sancito, di tante forme familiari oppressive nei riguardi dei membri più deboli (donna e figli minori) hanno radice, nell’ottica della fede, nella rottura primaria fra l’uomo e Dio nel peccato, sorgente di ogni divisione e di ogni conflitto. Non fu certo e non è forse «servire gli idoli» l’avere assolutizzato un certo tipo di struttura familiare, fondato sulla diseguaglianza e l’autoritarismo, ed averlo talora eretto a «modello» della «famiglia cristiana»? Così come appare tragico frutto di peccato la solitudine profonda cui la donna è stata spesso condannata in un’esperienza di maternità che l’uomo ha continuato a ritenere del tutto estranea a se stesso.

       Queste riflessioni interpellano sul tema donna-famiglia anche il mondo ecclesiale. Vi è una «conversione» a cui le donne cristiane sono chiamate, nel senso dell’amore e della responsabilità; ma tale conversione riguarda altrettanto sia gli uomini sia la comunità ecclesiale, che deve essa pure riconoscere i propri limiti culturali nella riflessione sin qui condotta sulla donna e su suo rapporto con la famiglia, prima di poter proporre una concezione dell’uomo e della donna, della sessualità e della famiglia veramente «redenta», ossia liberata, posta nel segno della riconciliazione, sottratta ai suoi possibili «smarrimenti», liberata dalle sue «povertà». E’ una visione che le divisioni e i conflitti del passato avevano oscurato e che si tratta di recuperare attraverso un impegno educativo permanente che coinvolga tutti, ma in prima persona le donne e i loro gruppi, e le famiglie e gli organismi pastorali.

 

Notazioni conclusive

       Le osservazioni conclusive sin qui svolte nella loro necessaria sinteticità, intendono avere soprattutto, un valore metodologico, per quanto intendono, da credenti, operare a favore della famiglia. Vi è infatti il rischio di proclamare una fede astratta ed avulsa dalla vita e di trasformare il necessario richiamo ai valori etici in un appello moralistico che non fa i conti con i condizionamenti che la realtà sociale pone alla famiglia, anche alla famiglia cristiana. Il fatto che la Chiesa all’indomani della Familiaris consortio, abbia voluto promulgare la Carta dei diritti della famiglia è, sotto questo profilo, esemplare: dopo avere richiamato i grandi valori e avere prospettato una serie di indicazioni pastorali, la comunità cristiana ha inteso anche fare i conti con la concretezza dei bisogni della famiglia ― il lavoro e la casa, la condizione femminile e il reddito familiare ― e prospettare ai credenti impegnati in campo sociale una serie di obiettivi e di impegni.

       Perché la comunità cristiana dia incisività alla sua presenza ― tanto nell’ambito pastorale quanto sotto il profilo degli interventi di politica sociale a favore della famiglia ― è necessario che essa si attrezzi adeguatamente alla comprensione del mutamento, utilizzando sino in fondo le risorse delle scienze umane, pur senza mai fare di esse un assoluto e tanto meno un feticcio. «Poiché il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia riguarda l’uomo e la donna nella concretezza della loro esistenza quotidiana in determinate situazioni sociali e culturali, la Chiesa, per compiere il suo servizio, deve applicarsi a conoscere le situazioni entro le quali il matrimonio e la famiglia oggi si realizzano. Questa conoscenza è, dunque, una imprescindibile esigenza dell’opera evangelizzatrice» (Familiaris consortio n. 4). Vi sarebbe da domandarsi sino a che punto questo appello dell’attuale pontefice sia stato raccolto e quali siano gli strumenti di cui oggi concretamente la comunità cristiana dispone per calarsi nella concretezza delle situazioni che le famiglie dei cristiani devono ogni giorno affrontare.

       Forse è del tutto superato l’atteggiamento di coloro che, di fronte a determinati comportamenti tendono a colpevolizzare (o a tentare di «convertire») i singoli, lasciando invece immutato il contesto culturale, politico, sociale in cui taluni problemi nascono e per effetto del quale altri si aggravano sino a diventare di fatto insolubili. Troppo spesso viene sottovalutata l’influenza che sui comportamenti dei singoli hanno la legislazione, le politiche sociali, la suggestione dei mass media. Come stupirsi, dunque, che certi richiami e certi appelli cadono nel vuoto? Certe vistose «povertà dell’amore», certa diffusa incapacità di comprendere il senso, prima che di porre i gesti conseguenti, di termini come fedeltà, spirito di sacrificio, attitudine al servizio ― valori tutti i quali l’amore umano finisce per smarrirsi ― derivano da un contesto sociale della cui realtà i cristiani devono essere capaci di farsi carico, per conoscerla e in quanto possibile per trasformarla. Su questo terreno dovranno essere saggiate con attenzione ed esperimentate con coraggio anche forme di incontro e di collaborazione con quanti si ispirino a diverse fedi religiose e con gli stessi non credenti: è la stessa Familiaris consortio, del resto, che invita tutti i cristiani a «collaborare cordialmente e coraggiosamente con tutti gli uomini di buona volontà che vivono la loro responsabilità al servizio della famiglia» (n. 86). L’amore misericordioso di Dio per gli uomini e per la famiglia umana, abbraccia un orizzonte assai più vasto di quanto non possano immaginare quanti non hanno mai lasciato la «cassa del padre»: comprenderlo, significa aprire nuove prospettive anche alla pastorale della famiglia.

 

nota bibliografica

1)    Sul cambiamento della famiglia

       AA.VV., La famiglia crocevia della tensione tra pubblico e privato, Vita e Pensiero, Milano 1979.

       AA.VV., Famiglia e società, Edizioni del Rezzara, Vicenza, 1986.

       Ph. ARIES, Padri e figli dell’Europa medievale e moderna, Laterza, Bari, 1976.

       M. BARBAGLI, Sotto lo stesso tetto - Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Il Mulino, Bologna, 1984.

       P. - B. BERGER, In difesa della famiglia borghese, Il Mulino, Bologna, 1984.

       G. CAMPANINI, Potere politico e immagine paterna, Vita e Pensiero, Milano, 1985.

       E. SHORTER, Famiglia e civiltà, Rizzoli, Milano, 1978.

 

2)    Sulla situazione della famiglia in Italia

       Indagine sulle strutture e i comportamenti familiari, ISTAT, Roma 1985.

       AA.VV., Ritratto di famiglia degli anni ‘80, Laterza, Bari, 1981.

       AA.VV., Nuova enciclopedia del matrimonio, a cura di T. GOFFI, Queriniana, Brescia, 1987 (ivi in particolare G. CAMPANINI Istituzione del matrimonio e crisi coniugali)

       P. DONATI, La famiglia nella società relazionale, Angeli, Milano, 1986.

       P. DONATI - E. SCABINI, Le trasformazioni della famiglia italiana, Vita e Pensiero, Milano, 1984.

       A. DE SPIRITO, Antropologia della famiglia meridionale, Ianua, Roma, 1987.

       C. LANZETTI, Evoluzione della famiglia in Italia - Documentazione statistica, Vita e Pensiero, Milano, 19762.

3)    Su condizione femminile e maternità

       AA.VV., a cura di G. AGOSTINUCCI CAMPANINI, Essere madre oggi, La Scuola, Brescia, 1980.

       AA.VV., Dossier sulla famiglia, Città Nuova, Roma, 1979 (cfr. in particolare G. AGOSTINUCCI CAMPANINI Il matrimonio come coeducazione reciproca e come compito educativo, pp. 95-119).

       AA.VV., Verso una società con la donna, u.e.c.i., Roma, 1981.

       AA.VV. Uomo donna progetto di  vita, u.e.c.i., Roma, 1985

       J. M. AUBERT, La donna - Antifemminismo e cristianesimo, Cittadella, Assisi, 1976.

       M. T. BELLENZIER, Idea e realtà della donna, Città Nuova, Roma, 1978.

       M. T. BELLENZIER, Questione femminile, da dove, verso dove, Figlie di S. Paolo, Roma, 1983.

       P. GAIOTTI, Questione femminile e femminismo nella storia della repubblica, Morcelliana, Brescia, 1979.

       P. GAIOTTI - C. DAU, La questione femminile, Le Monnier, Firenze, 1982.


[1]     La prima parte della relazione è stata stesa da Giorgio Campanini, la seconda da Gianna Agostinucci Campanini. La premessa, la conclusione e la bibliografia sono comuni.