Franco Piccinelli

la misericordia nella vita familiare

 

       Io dirò, si capisce, da laico, annotando come si scorga ben poca misericordia in un’infinità di episodi maggiori e minori che connotano il nostro cammino nella vita attuale. Forse è stato sempre così, più cadono alcune tradizioni, più si teme che il nuovo possa portare con sé comportamenti che mal si conciliano con gli insegnamenti familiari del tempo vissuto. Ma di sicuro non esiste misericordia nella violenza di cui continuano ad essere vittima tanti bambini, stando almeno alle statistiche che dobbiamo ben prendere per vere; non esiste misericordia nel rifiuto di dare ospitalità, da parte di certi complessi alberghieri, a gruppi di handicappati, con le scuse le più varie, mentre l’unica ragione è che l’handicap mal si concilia (o mal si concilierebbe) con il presunto efficientismo della nostra epoca; e non si scorge misericordia nella sorte di tanti vecchi costretti controvoglia a scegliere la via dei ricoveri, cacciati di casa dopo che in quella casa servirono ― e la onorarono ― per tutta la vita.

       Intendiamoci bene: io non ho assolutamente nulla contro gli ospizi o Case di riposo come si chiamano anche. So che la maggior parte di essi è presidiata da personale qualificatissimo, di alto livello professionale, e credo che in ciò sia da scorgere la trasformazione del concetto di misericordia: non più un atto benignamente offerto con uno slancio dell’animo, bensì un atto dovuto secondo precise regolamentazioni che lo sottopongono, per ciò stesso, a garanzie ma anche al rischio degli impegni e degli obblighi disattesi.

       La misericordia appunto come obbligo, e non già come dovere, cambia pelle: non è né la dedizione totale francescana, né il sacrificio costante e cosciente in favore del prossimo secondo lo spirito evangelico, né il disinteressato servizio in favore di chi soffre. perseguito e attuato da Madre Speranza.

       Ma poi: per quanta perfezione di strutture assistenziali si possa raggiungere, ci saranno sempre dei dolori, delle ingiustizie, delle frustrazioni involontarie nei cui confronti il solo diritto non è di sollievo bastevole a lenire una macerazione assi meglio soccorsa  dalla solidarietà vera, dalla fratellanza che unisce le genti. E mentre la solidarietà accorpa nel comune interesse, la fratellanza rende partecipi di tutti i bisogni percepiti nel proprio compagno di viaggio, e il viaggio si capisce, è quello della vita, verso un traguardo che, sotto l’aspetto sensibile, ci appare solo nelle vesti della morte; una morte che non interrompe affatto la comunione con le persone e oltre la quale ci attende l’affascinante mistero di un ignoto che ci verrà svelato solo nell’ultimo giorno del mondo.

       Non tema il teologo che mi stia avventurando su un terreno minato e che perciò io sia costretto a procedere in bilico. Se mi è consentito citare il mio nuovo romanzo che sta per vedere la luce con il titolo «Viaggio nell’aldilà» vi dirò che in esso io ho prestato l’io narrante a una vecchia maestra di scuola che parla di sé, del proprio passato e del proprio futuro appena avvistato nella nuova dimensione raggiunta. “Spiro in questo istante e mi sento ridiventare bambina”: così s’inizia il racconto che è in parte rievocazione di un’intera vita consumata a servizio della famiglia e dell’ideale educativo, ma che è anche intuizione di scoperte e avvistamenti in procinto d’essere fatti. Soprattutto però - questo è il senso vero del romanzo - la vecchia maestra è consapevole che nonostante la morte lei continua a vedere i figli, a parlare con loro, e la sua unica preoccupazione è appunto di fargli comprendere che, se lo vorranno le rispettive parole, i reciproci pensieri, potranno trasformarsi in autentico dialogo.

       Nei due giorni trascorsi dalla protagonista del mio libro dentro la sua bara ― una bara che assomiglia a una culla dove la vecchia si ritrova bambina e su cui i figli si chinano con lo stesso atteggiamento che la madre aveva per essi quand’erano infanti ― nei due giorni che intercorrono fra la morte e l’inumazione, la misericordia della vecchia è proprio per sé e per le creature convinte d’essere rimaste orbate: ma infine queste comprenderanno il messaggio materno e la loro misericordia si estrinsecherà in una serie di atti che qui, scaramanticamente, non anticipo.

       Si dice che un tempo la povertà e l’indubbia miseria in cui era costretta la maggior parte delle persone, spronasse alla misericordia. C’è una grande dose di vero in ciò, pur se non bisogna dimenticare che tanta benevolenza in panni misericordiosi nascondeva la necessità quasi forzata di certi atteggiamenti, che per ciò stesso, mancando del puro spontaneismo, si sottraevano alla misericordia per consegnarsi alla ricerca di un utile.

       Mi vengono alla mente un’infinità di situazioni e di personaggi d’annata. Vogliamo vederne qualcuno? I supremi reggitori della famiglia, cioè il patriarca e la matriarca; la prozia e uno stuolo di domestiche zie; i figli, e le nuore; i rampolli; tutta una comunità tenuta assieme dall’esigenza di essere forti attraverso il numero e usando della misericordia per difendere il numero e quindi, indirettamente, per giovare a se stessi.

       E’ certo che, se si vuole, si può spezzare in quattro il cappello per disquisire sull’autenticità degli atteggiamenti umani. Così facendo si può dimostrare tutto e il contrario di tutto, con il rischio di un nihilismo che fu corrente filosofica, che è stato di moda e che ormai, comunque, non lo é più.

       La misericordia dell’antico mondo, non necessariamente solo contadino, si esprimeva o trovava spazio anche in manifestazioni di fede o di partecipazione religiosa quali le Quarantore, gli Esercizi spirituali chiamati anche Missioni con i due predicatori in veste di penitente e di teologo che si fronteggiano da opposti pulpiti, diversi anche in dimensioni e in altezza. E chi non ricorda le Rogazioni, il gentile, piissimo, misericordioso andare all’alba, per sentieri fioriti, di Maggio, impetrando un buon raccolto in cambio della promessa d’essere amorevolmente misericordiosi negli anni a venire? Ricordate anche: “A peste fame et bello, libera nos, Domine; a fulgure et tempestate, libera nos, Domine; a morte perpetua, libera nos, Domine”: la liberazione dalla morte eterna veniva, insomma, in terza istanza, dopo quelle per un affrancamento dalle infinite tribolazioni intanto quaggiù. E, se vogliamo, anche in ciò si scorge una fiducia illimitata nella misericordia dell’Altissimo. Chi mai, a quei tempi, era ricco tanto da comprendere il paragone con il cammello e la cruna di un ago? Cercando un legittimo benessere in terra, il popolano religioso era certo che gli sarebbe stato più agevole predisporsi alla felicità ultraterrena, nella trasformazione dello stesso benessere in beatitudine.

       Il discorso coinvolgerebbe, a questo punto, l’esame dei tormentati rapporti all’interno delle famiglie di ieri e di oggi. Ma so che ognuno di voi li conosce bene per memoria, per sentito dire, per esperienza personale: quindi, la supposta caduta della misericordia è conseguenza, da un lato, della nuova concezione dell’equazione diritti-doveri e di ciascuno dei due termini, dall’altro lato è conseguenza dell’eclissi temporanea di alcuni valori, giunti in prossimità del tramonto senza che altri ne nascessero a surrogarli.

       La misericordia mal si adatta all’indifferenza, e c’è stato un tempo a noi molto vicino, nel quale l’indifferenza dominava i rapporti sia nel campo degli affetti sia nel campo stesso del lavoro. Non è questa la sede per istruire alcun genere di processo e poi chi sarebbe abilitato a indossare la toga del giudice? Quello che è certo è che nello stesso tempo al quale mi riferivo, i giovani prendevano le distanze dai vecchi nella convinzione per altro esatta, che le esperienze passate erano patrimonio di cui essi giovani non si sarebbero avvantaggiati, tanto in fretta l’evoluzione trasformava il modo di vivere e di intendere la vita. Ma la misericordia non è moda: è sentimento, è valore, entrambi eterni fino a che il nostro tempo non si trasformerà in un serraglio, ma è da stabilire che questa sia la sua condanna.

       Avrete capito che io non appartengo alla schiera degli intellettuali pessimisti, non mi identifico cioè in coloro che vedono sul futuro del mondo, soltanto ombre. Penso anzi che costoro siano i veri tradizionalisti, tanta è la loro paura del futuro. Il progressista coerente ha invece fiducia nell’intelligenza dell’umanità e nella comprensione, nell’aiuto del buon Dio.

       Può un ottimista dubitare del domani? Certo, sarebbe bello che domani non ci fosse più bisogno di misericordia. Vorrebbe dire che l’utopia si è realizzata intanto qui, tra i mortali. Pensate: un mondo senza prigioni, senza ospedali, né medici, né giudici, né guardie, né scuole, né maestri, né banche, né case di riposo, né opere caritatevoli. Vorrebbe significare la fine di tutte le nostre tribolazioni, il raggiungimento di una perfezione che mette paura.

       E un po’ di paura io ne avrei. Significherebbe che il mondo, come la vecchia maestra del mio «Viaggio nell’aldilà», sta vagando nella propria catarsi. E non sarebbe più il nostro dannato, stregato, contestato, ma amatissimo mondo. Significherebbe il raggiungimento universale di quella nuova condizione che, come tutto ciò che è meraviglioso, deve essere vissuto in termini di vigilia. Raggiuntolo, godi la beatitudine perpetua, ma ti mancano i riferimenti rispetto a dolore.

       Condannati al dolore, abbiamo dunque nell’amore misericordioso, un’ancora per vivere bene qui sulla terra. In attesa di ciò che il Cielo vorrà».