Mons. Valerio Mannucci

IL MATRIMONIO NELL’ANTICO TESTAMENTO

 

       La cronaca del matrimonio - famiglia dell’Antico Testamento (A.T.) non sarebbe più edificante di quella del nostro tempo.

Vi troveremmo:

―    un condizionamento che potremmo chiamare «patriarcato», cioè il dominio dell’uomo sulla donna;

―    spesso la vita del marito vale di più dell’onore della moglie (cf Gentile 12);

―    bigamia e poligamia con tutti i pasticci connessi;

―    possibilità del divorzio e per di più solo nelle mani del marito (cf  Dt  24, 1 ss);

―    adulterio, per di più diversamente valutato nell’uomo e nella donna: la donna fidan­zata o sposata era adultera se infedele al fidanzato o allo sposo; l’uomo fidanzato o sposato solo se violava un altro fidanzamento o matrimonio (cf Lv 20,10 e Dt 22,22 ss).

       Dalla storia d’Israele, dunque, soprattutto dall’antica e dalle leggi troveremmo un bilancio piuttosto negativo, quella che Gesù chiamava la sclerocardia d’Israele, quelle che la Dei Verbum par. 15, chiama «le molte cose imperfette e temporanee dell’A.T.».

       Ma come reagisce l’A.T. di fronte a questa situazione concreta? Qual é la lunga, faticosa pedagogia di Dio alla vita della Famiglia?

       Dio reagisce con un messaggio di tipo profetico che é presente, si badi bene, non soltanto nei libri profetici. Dio reagisce proponendo l’alternativa del progetto di Dio, il diverso del suo appello, della sua chiamata, della sua proposta: un progetto alternativo che finisce per influenzare la stessa legge. Basti un solo esempio: la duplice redazione del decalogo in Es 20 (redazione eloista) e DT 5 (redazione deuteronomista) a proposito del «non desiderare la donna d’altri). In Es 20,17 leggiamo: «Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né lo schiavo, né la schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Ebbene, in questo testo la moglie del prossimo é la prima, tuttavia sempre una proprietà del prossimo.

       Nella Bibbia la casa del tuo prossimo equivale a «la proprietà del tuo prossimo»; la moglie, ripeto, in questa redazione di Es 20 é considerata una proprietà, insieme agli schiavi, agli animali domestici, ecc.

Se invece andiamo a leggere la redazione più recente del Dt 5,21, leggiamo: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, ecc.» Come si vede, in questa redazione più recente c’é un salto di qualità, nel senso che la moglie del prossimo non é più considerata una delle proprietà di esso, anche se la prima, bensì la moglie é staccata dalla casa del prossimo. Non é più dunque qui una proprietà del prossimo, é qualcosa di ben diverso. Ovviamente in questa redazione più recente la pari natura e dignità della moglie rispetto al marito risalta e la rende differente dagli animali e dalle altre proprietà; ovviamente questa diversità qualitativa viene recepita dall’anima d’Israele e viene codificata in questa diversa redazione del nono e decimo comandamento del decalogo.

       Cercheremo, dunque, il messaggio profetico dell’A.T. sulla famiglia, sul matrimonio, prima nel Pentateuco e nei Profeti, poi nel Cantico dei Cantici.

 

I.     Il progetto di Dio sul matrimonio (Pentateuco e Profeti)

       Richiamo soltanto alcuni testi, i più noti, corredandoli di poche suggestioni che aiutino la riflessione e la comprensione del progetto di dio sul matrimonio.

 

Racconto jahvista della creazione (Gen. 2,4b-324)

       L’autore jahvista scrive nel secolo X, durante il regno di David o agli inizi del regno di Salomone. Questo fu per Israele il periodo di massimo splendore, di boom economico e culturale. Ma la famiglia era in crisi grave, come si può vedere da alcuni dati storici e legislativi di questo periodo:

―    adulterio (persino David é adultero);

―    poligamia (e non solo quella sfrenata, esagerata di Salomone con le sue 700 mogli 300 concubine);

―    libertinaggio sessuale (Gen. 6,1-4);

―    la donna soggiogata dall’uomo, dal marito (Gen. 3,16);

―    possibilità di divorzio (Dt 24), che tuttavia voleva anche difendere il diritto della donna; la dichiarazione scritta del ripudio la rendeva infatti libera di risposarsi.

       Qual é la proposta di Dio sul matrimonio in questo testo jahvista della creazione?

a)    Si privilegia nel matrimonio il tema della relazione interpersonale. Infatti, la creazione della donna é introdotta in Gen 2,18 con questa espressione in bocca a Dio: «Non é bene che l’uomo sia solo», cioè non é conforme al progetto di Dio che l’uomo sia solo. Il lavoro, al quale Adamo era stato chiamato nel giardino in cui Dio l’aveva introdotto, questo lavoro pur costitutivo dell’uomo non basta all’uomo, non basta all’essere-uomo. Dio ha creato l’uomo come Mitsein, cioè come un essere-con, come la creatura fatta da Dio per vivere-con. Tant’è vero che il primo uomo alla scoperta della donna che Dio gli ha presentato, il primo uomo scopre in lei il suo vis-à-vis, come il suo «tu». Appena l’uomo vede la donna che é il suo «tu», l’uomo che aveva conosciuto la funzione informativa del linguaggio quando prima aveva imposto il nome agli animali, pone in atto ora la funzione «appellativa ed espressiva» del linguaggio, e canta la sua prima canzone d’amore. In Gen 2,23 si legge infatti:

«Questa volta sì che essa

é carne della mia carne

é osso delle mia ossa.

La si chiamerà donna

perché dall’uomo é stata tolta»

       In realtà il testo ebraico dice: La si chiamerà Ishà perché da ‘ish é stata tolta.

       Dio progetta e l’uomo si mette alla ricerca. Oggi diremmo che si coscientizza di essere stato creato per vivere-con, per essere-con: la donna é ‘ishà, porta cioè lo stesso nome dell’uomo, ‘ish, da cui é stata tratta: ha la stessa natura, la stessa dignità, lo stesso destino. Il dominio del marito sulla moglie, dell’uomo sulla donna di cui si legge in Gen 3,16: «Dio disse alla donna moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai i figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà», non é una condizione creaturale, non fa parte del progetto di Dio, bensì é una conseguenza del peccato, del primo peccato, é una situazione di peccato da liberare, da riscattare, da salvare. E’ importante sottolineare, dunque, che il dominio dispotico del marito sulla moglie é il dominio suggerito dal verbo ebraico mashàl che esprime il dominio dispotico di un re straniero su Israele. Questo dominio dispotico chiaramente viene indicato nel testo jahvista della creazione come conseguenza del peccato, chiaramente non come condizione creaturale, come parte del progetto di Dio.

       L’uomo lascia il padre e la madre, dice il testo della Bibbia, Gen 2,24: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si attaccherà a sua moglie e i due saranno una sola carne». L’uomo lascia il madre e la madre, non solo l’uomo ma anche la donna lascia il padre e la madre, ambedue compiono un esodo. Anzi, per Erich Fromm, Fuga dalla libertà, questo é il primo fondamentale esodo compiuto dall’uomo, liberato dai legami primari, per essere libero l’uomo, e libera la donna, di unirsi alla compagna, o al compagno che ha scelto. E’ importante questo lasciare a mo’ di esodo del testo biblico. Sappiamo benissimo quante turbe provoca questo non compiuto o non completo esodo di lui o di lei dalla famiglia di origine per comporre una nuova famiglia.

       Dice il testo biblico che l’uomo si «attaccherà» a sua moglie e saranno una sola carne. Il verbo attaccarsi, in ebraico dabaq, é già un vocabolo di alleanza. Dio attacca a sé Israele e Israele si attacca a Dio, come possiamo vedere nell’uso di questo verbo in Dt 10,20, e soprattutto in Gen 13,11.

       Farà bene il lettore a rileggersi tutto il bellissimo brano di Geremia 13,1-11, laddove il profeta parla della cintura, della sua cintura che Dio gli comanda di andare a nascondere all’Eufrate e poi di andare a riprendere; ma ecco la cintura era marcita, non era più buona a nulla, e Geremia commenta mettendo in bocca a Dio queste parole: «Poiché, come questa cintura s’attacca ai fianchi dell’uomo, così volli che s’attaccasse a me tutta la casa di Israele e tutta la casa di Giuda perché fossero mio popolo, mia fama, mia lode e mia gloria, ma non mi ascoltarono» (Ger 13,11). Ciò significa che il Dio dell’alleanza crea il matrimonio-patto, il matrimonio-alleanza tra l’uomo che abbandona il padre e la madre e s’attacca alla sua donna, con la quale appunto sancisce il patto sponsale.

b)    C’é di più. Proprio nel bel mezzo della situazione drammatica di peccato della coppia e delle sue conseguenze (dominio sulla donna; parto nel dolore; lavoro-sudore-frustazione), non solo la famiglia, la prima famiglia si apre alla generazione (Gen 4,1 ss), ma proprio nella generazione dei figli Dio getta il seme della salvezza storica ed escatologica, come appare chiaramente nel cosiddetto «protovangelo» di Gen 3,15, laddove si promette e si annuncia che la discendenza della coppia vincerà il serpente, il maligno, il male.

 

Racconto Sacerdotale della creazione (Gen 1,1-2, 4a)

       Siamo in esilio. La situazione é esattamente contraria a quella del tempo dell’autore jahvista di cui abbiamo detto prima.

       In esilio tutto é perduto per Israele, il quale si trova privato delle promesse divine: la terra é lontana, la città santa e il tempio sono distrutti, il popolo come unità etnico-religiosa é diviso e disperso, tutto é come azzerato.

       Il tempo dell’esilio é il tempo dei ricominciamenti, da intraprendere per Israele nella fede e nella speranza.

       Quale proposta, quale messaggio il racconto sacerdotale dei circoli sacerdotali in esilio offre sul matrimonio?

a)    Vertice della creazione é la coppia, é l’interpersonale uomo-donna. Vertice della creazione é l’uomo maschio e femmina, é una relazione d’amore. Nel progetto di Dio, vertice della creazione sono due persone che si amano. E questo é il sesto giorno della creazione di cui si dice nel racconto della Bibbia che «Dio vide ed ecco tutto era molto buono e molto bello».

b)    La coppia maschio-femmina viene gratificata dalla benedizione - berakah - di Dio. La benedizione di Dio é in vista della fecondità della coppia: Dio affida alla coppia umana il compito di trasmettere la vita. L’accento sulla fecondità della coppia umana assume particolare importanza nel tempo esilico dell’autore sacerdotale, perché é il tempo del ricominciamento dopo la decimazione umana della guerra e dell’esilio.

       Ma questa benedizione - berakh - di Dio in vista della trasmissione della vita é detta negli stessi termini anche per gli animali.

       Si legge infatti precedentemente in Gen 1,22: «Dio li benedisse: - Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra».

       Dove sta allora la differenza? La coppia umana nella sua fecondità creativa si apre, nel progetto di Dio, al mondo che la famiglia umana é chiamata a dominare. Infatti rispetto al testo sugli animali, questo testo sulla copia umana é corredato da nuovi verbi. si legge infatti in Gen 1,28: «Dio li benedisse e disse loro: - siate fecondi e moltiplicatevi, e riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Ai verbi «essere fecondi, moltiplicarsi, riempire la terra» che esprimevano la fecondità anche degli animali, qui si aggiungono i verbi «soggiogare e dominare». Ovvero la famiglia umana é chiamata a soggiogare la terra (il verbo kabash é usato per la conquista della terra promessa ad opera di Giosuè: soggiogare significa «prendere possesso» della terra da parte dell’intera famiglia umana, dunque la fecondità della coppia umana é in vista di questa presa di possesso della terra da parte dell’intera famiglia umana). Ma, oltre a soggiogare la terra, la coppia umana é chiamata a dominare l’intera creazione.

       Il verbo ebraico radah é il verbo che esprime nell’A.T. il rapporto tra il re d’Israele e il suo regno, tra il re messianico e il suo regno (cf 1 Re 5,4; Sal 110,2; Sal 8). La coppia dunque é responsabile depositaria e mediatrice della benedizione di Dio sul mondo che le é affidato. Essa é chiamata a dominare il mondo creato nel senso che, come il re d’Israele e il re messianico, non deve essere predatrice del mondo creato, bensì é chiamata da dio a conservare e promuovere la salute, la pace e l’ordine del mondo. In questo dominio della famiglia umana sul mondo possiamo cogliere, anzi dobbiamo vedere tutto ciò che oggi significa per la famiglia umana assunzione di presenze e di compiti nel mondo e nella storia da parte delle singole famiglie, da parte dell’intera famiglia umana.

c)    Si legge ancora nel testo sacerdotale in Gen 1,26: «Dio disse: - Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza e domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, ecc.», e ancora nel versetto 27: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio creò, maschio e femmina li creò».

       Che cosa vuol dire l’uomo maschio e femmina creati da Dio a sua immagine e somiglianza? La categoria dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio esprime diverse, complementari dimensioni dell’essere-uomo: l’immagine e la somiglianza di Dio riguardano l’uomo, maschio e femmina, creato da Dio non soltanto come dominatore della terra e dell’universo, ma ancor più come il partner di Dio, il suo vis-à-vis. L’umanità é fatta per Iddio, lo voglia l’uomo o no, ne sia o no consapevole. Qui vorrei sottolineare un aspetto molto importante. L’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio non é soltanto il tu di Dio, il partner di Dio come singola persona, lo é anche, e ancor più come coppia, come maschio-femmina, come uomo-donna, come comunità.

       Allora si può dire e si deve dire che nell’amore sponsale non c’é soltanto il limite dell’infermità e del peccato, ma c’è anche un limite ontologico. Nel punto più alto e più profondo dell’esperienza corporea e della comunione interpersonale, l’uomo e la donna sono rimandati con urgenza alla comunione con Dio, là dove la solitudine dell’uomo e la sua sete di comunione possono trovare totale appagamento.

 

Il quarto comandamento: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12 eDt 5,16)

       «Onora». Il verbo é kibbed= dare peso, importanza, prendere seriamente e quindi: onorare, glorificare (si pensi alla kabod Jahvè). Il verbo si colorisce di una sfumatura soave, quasi divina: nel decalogo é, insieme al comando del Sabato, il secondo comando positivo. In Lev 19,3 é il primo comando che esprime il «Siate santi, perché io, il Signore, sono santo» (19,1) e apre una serie di comandi religiosi.

       Il rispetto dei genitori é orientato nella direzione di Dio e dice non solo amore, ma anche una disciplina, umiltà, timore come verso una maestà nascosta.

       Ma il 4° comandamento chiede qualcosa anche ai genitori, che sono in Israele i portatori delle Tradizioni religiose, della Rivelazione. I figli devono poter interrogare, fare domande ai genitori (cf Es 12,26; Es 13,14; Dt 20-25; 32,7) e i genitori devono saper rispondere sulla sapienza di Dio che guida la storia, sulle opere dei Padri, la loro obbedienza e infedeltà (cf Sal 78,3-7). I genitori in Israele sono il primo Magistero dei figli.

 

Il messaggio dei Profeti sul matrimonio

       L’accenno Jahvista (Ger 13,11) al matrimonio-patto esplode in tema dominante nella predicazione profetica: l’alleanza di Dio con Israele é alleanza sponsale. La teologia del matrimonio ne risulta potenziata.

       I testi: Os 1-3; Is 5; 54; 56,6ss; 62,4-5; 66,22; Ez 16; Ger 2,2.20.23-25; 30,14; 31,3; 3,1-3; 6-16.

       In sintesi: Dio per rivelarsi si incarna, assumendo categorie e modelli dall’umano, dalla storia. L’umano diventa segno del divino; il patto sponsale umano diventa il segno della divina alleanza. Ma c’é di più. I valori dell’alleanza divina sono anche i valori portanti del patto sponsale uniamo. Dio, sposando Israele-l’umanità, regala i suoi doni nuziali che sono (Os 2,21-22): la hesed=amore, bontà, benevolenza, tenerezza, accoglienza; la ‘emunah=fedeltà nell’affetto, costanza nell’amore, il sì definitivo, la da’ah=conoscenza nell’intimo e nella totalità della persona, incontro personale e integrale: gli sposi si conoscono come nessun altro al mondo li conosce.

       Il tutto assicurato da una legittimità istituzionale: la giustizia e il diritto: il loro é un patto d’amore! Tutto questo é anche, di riflesso, la dote che i due sposi si scambiano nel loro patto nuziale umano.

       Osea é il primo ad usare l’immagine del matrimonio per esprimere il rapporto di Dio con l’umanità. La sua intuizione fondamentale é questa: il dramma spirituale della storia d’Israele diventa intelligibile se si guarda il dramma vissuto dalla coppia.

       la sua intuizione é da marito tradito e pur sempre innamorato, che legge dentro la sua stessa esperienza matrimoniale, sul piano umano fallimentare, ma che l’amore fedele e misericordioso può riscattare. Il matrimonio é per Osea il luogo dove si impara a ricomin­ciare da capo. E’ in questo suo amore di sposo tradito ma fedele che Osea scopre l’amore di Dio per Israele e l’umanità. La sua vita matrimoniale diventa luogo teologico, esperien­za rivelatrice dell’amore di Dio e del rapporto di Dio con l’uomo. Il suo amore sponsale diventa ambito privilegiato della sua vocazione profetica, diventa luogo di evangeliz­zazione. I suoi oracoli su Dio-sposo e su Dio-padre (cf Os 11,1ss)germinano nella sua esperienza di sposo e di padre. Per cui segue che l’evangelizzazione cristiana del matri­monio é soprattutto della coppia e della famiglia.

 

II.   Sinfonia dell’amore sponsale: le stagioni dell’amore secondo il Cantico

       La chiave di lettura del Cantico dei Cantici é la seguente: va letto innanzitutto come «il più bel Cantico» dedicato all’amore sponsale. Rimane all’esegeta il compito non facile - dato il carattere «antologico» del libro - di scoprirne l’eventuale struttura. Da un lato, si avverte subito la presenza di temi, motivi, immagini e termini ricorrenti, di ripetizioni, ritornelli e doppioni. Dall’altro lato, difficilmente si sfugge all’impressione di una certa disorganicità, accentuata dagli improvvisi cambiamenti di scena: in campagna, in città, in casa, all’aperto, addirittura nel Libano!

Si tratta di una raccolta di canti, uniti soltanto dal loro soggetto comune, cioè l’amore.

       Vogliamo individuare un criterio generale di lettura, che apre all’ampiezza e alla profondità del tema del libro. Quello proposto da A. Chouraqui ci é parso il più adeguato: «L’unità dell’opera é grande e piuttosto che parti distinte noi preferiamo determinarvi dei temi fondamentali, che attraverso l’intero Cantico, sottolineandone l’unità e dandogli quel suo carattere sinfonico. Sarebbe più giusto proclamare ciò, anziché cercare un intreccio, dramma o commedia o compimento artistico, che verrebbe a crollare ad un esame approfondito. Sì, il Cantico é proprio una sinfonia in tre movimenti, in tre temi. Il primo tema é quella della genesi dell’amore(...). In contrappunto nasce il secondo tema della sinfonia: quello dell’esilio (...). Il terzo tema - dopo quelli della genesi e dell’esilio dell’amore - esplode infine nella gioia del ritrovamento: é finito l’esilio, la sofferenza é redenta»[1].

       E’ la scelta che facciamo: Il Ct può leggersi come una sinfonia dell’amore sponsale a tre temi, ognuno dei quali si anima al suo interno di soggiacenti motivi[2].

       I tre temi che equivalgono alle stagioni dell’amore, sono:

1) La nascita dell’amore

2) L’esilio dell’amore

3) Il compimento o celebrazione dell’amore

 

La nascita dell’amore

       Lei e Lui: la sposa e lo sposo. Il Cantico é inno all’amore sponsale, non al libero amore di due giovani. L’amico chiama cinque volte (4,8-12;5,1) la ragazza con il titolo di Kallah: propriamente fidanzata finché continua a dimorare nella casa del padre, ma giuridicamente già sposa a tutti gli effetti, perché il patto nuziale é già stato concluso. Il giovane é chiamato dall’amata trentuno volte, a cominciare da 1,13: Dod,  cioè suo amico, il suo amato. La sposa é per lo sposo: Sorella mia (4,9-12; 5,1-2), termine comune nella poesia d’amore egiziana, presente anche altrove nella Bibbia (cf Tob 7,12; 8,4ss; Est 15,12). Qualcosa di più che una semplice forma di amicizia: il matrimonio é fondato su una fraternità essenziale, che è presenza ontologica dell’uno all’altro. Il cantico celebra espressamente (3,6-11) le nozze di Lui, come fosse un Salomone: il brano é un epitalamio per un corteo nuziale (cf sal 45), per «il giorno delle sue nozze, il giorno della gioia del suo cuore» (3,11). Nella settimana che segue le nozze gli sposi sono Re e Regina; se Lui é Shelomo, Lei é Shulammit. Lei sola, Lui solo. Per la sposa, lo sposo é: «Il mio diletto»: «come un melo tra gli alberi del bosco, così il mio diletto tra i giovani» (2,3): unico, inconfondibile. Cosa ancor più sorprendente, che costituisce novità e messaggio  profetico del post-esilio, la sposa é per lo sposo l’unica; «Sessanta sono le regine, ottanta le altre spose...Ma unica é la mia colomba, la mia perfetta» (6,8-9; cf anche 8,11-12). Lo sposo oppone esplicitamente allo Harem del Re (Salomone) il semplice, disinteressato amore che lo unisce alla sua unica sposa.

 

a)    Un duetto, non un monologo

       C’é parità di sentimenti e di espressioni nel cuore e sulla bocca di Lui e Lei. Il cantico non é un monologo. E’ un duetto.

                   Il desiderio d’amore in Lei: 1,2-4; 1,7; 7,12-14; 8,1-2.

                   Il desiderio d’amore in Lui: 2,14; 4,8; 7,7-10.

       Anzi é proprio Lei che esordisce: «Mi baci con i baci della sua bocca!»(1,2). La piena parità della donna nelle liriche d’amore, che costituisce una rarità nel mondo arabo, egiziano, cananeo e mesopotanico, é consacrata dal cantico fin dal suo esordio, con l’ardente dichiarazione d’amore della sposa.

       Nel duetto del Cantico, nessuno dei due partners commette pressione o imposizione sull’altro. Vi si legge soltanto il desiderio d’amore: desiderio che é tensione, voto, certezza d’amore, e mai imposizione brutale, seduzione maliziosa o sottilissima strategia ricattatoria. Tutte le invocazioni d’amore sono appelli ai liberi sentimenti dell’amato o dell’amata. Esse vogliono soltanto allargare lo spazio alla libera risposta d’amore.

 

b)    Contemplazione della persona attraverso il corpo

       I due sposi non cessano di contemplarsi e di esaltare la bellezza del corpo dell’amato e dell’amata, che essi cantano vicendevolmente nell’amore. Ancora una volta, un duetto di contemplazione stupita:

―    Lei di Lui: 1,15-17; 5,10-16

―    Lui di Lei: 2,1-3; 4,1-7; 7,1-6.

       Si tratta di una rivelazione progressiva del volto e del corpo dei due sposi, una contemplazione incessante, una rivelazione mai compiuta, perché il corpo é presenza e dialogo esistenziale-storico della persona all’altra, é trasparenza e visibilità dell’io al tu. «Il corpo rivela l’uomo...; attraverso il corpo si realizza la comunione ‘incarnata’ delle persone; il senso del corpo consiste in un arricchimento reciproco»[3]. La Contemplazione-ricerca-dono del corpo é contemplazione ricerca dono della persona di quel «tu» inconfondibile che arricchisce la vita e sfida ad uscire dal proprio egoismo. La «passione» per il corpo é passione per la persona, per quella persona unica, irripetibile, insostituibile che l’amore ha scelto. Il corpo con la sua «dimensione sponsale», é la strada del reciproco dono nella vita.

       E’ così chiaro che Lei insegue la persona di Lui e l’avvicina:

       «Mi baci con i baci della sua bocca!

       Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino» (1,2).

       Io (mi baci), egli (della sua bocca), tu (le tue tenerezze): «Il tema personale domina tutto il Cantico: ‘Portami con te’, ‘amore dell’anima mia’, ‘vieni con me’, ‘il mio amato é mio e io sono sua’ (formula di Alleanza). E quale densità di suffissi possessivi, di prima e seconda persona “mio”, “tuo”. Tutto il resto é scenario e simbolo, irradiazione e presenza delle persone. Perfino il corpo é presenza personale»[4].

       Anzi, il mondo intero é trasfigurato dall’amore sponsale:

     Lei: 2,8-9 e 7,14 ecc...

     Lui: 2,10-13 ecc...

       Ogni volta trionfa l’amore interpersonale, «l’inverno» che tiene prigionieri della propria paura e del proprio esilio «é passato», «é cessata la pioggia», «i fiori sono apparsi nei campi, «il tempo del canto é tornato», «le viti fiorite spandono fragranza». Giunge la primavera, come fosse il primo mattino del mondo. «La fantasia contemplativa contempla il corpo amato come emblema e somma delle bellezze naturali: montagne, alberi, animali...Anche la bellezza che l’uomo produce: gioielli e coppe, colonne e torri. Quasi saremmo tentati di parafrasare: quando gli amati vedono la bellezza del corpo amato, scoprono che il mondo é molto buono, come in un riposo genesiaco»[5].

 

c)    Malattia e follia dell’amore

                Lei, malata d’amore: 2,5 e 5,8

                Lui, pazzo d’amore: 4,9-10; 6,4-5; e -forse- 6,12.

       Lei (2,5), «malata d’amore». L’amore non l’ha soltanto colpita e ferita. Il dolore provocato dall’amore ha aperto in Lei come una stimmata che non sarà cancellata, non si rimarginerà mai più. «Non languente, non ferita, ma malata, alterata dalla lesione provocata in Lei dalla presenza dell’amante»[6].

       Il tema ritorna in 5,8, legato all’assenza dello sposo. Privata della presenza dell’amato, la sposa si sente come separata (alienata) dal mondo, da sé stessa, dalla vita. Si trova come decentrata. L’amore tra i due sposi é come un atto di fede, mediante il quale l’uno si affida all’altro «tutt’intero liberamente»(Dei Verbum 5). Una persona, non sai mai dove può condurti. Una volta che la sposa ha ospitato nella sua persona e nella sua vita lo sposo - e viceversa -, inizia un vero itinerario esistenziale di fede: «Nesciens quo iret...» (Ebr 11,8). Nella persona-vita dello sposo e della sposa si apre una breccia, una ferita, affinché l’altro o l’altra possa penetrarvi (una creazione alla rovescia?: cf. Gen 2,21). La ferita si riapre lancinante, appena l’altro si farà assente, perché é fuggito. Si richiuderà - senza tuttavia mai rimarginarsi - quando l’altro o l’altra saranno tornati. E’ anche la ferita, l’attesa del Padre del figlio prodigo (cf Lc 15,11ss).

       Lui, pazzo d’amore: «Mi hai rapito il cuore» (2 volte in 4,9-10). Come dire: «Mi hai fatto impazzire», perché il cuore é la sede dei pensieri, la parte più intima dell’io della persona, quella fontale che sostiene il suo equilibrio. Lo sposo può dire: «Non conosco (più) la mia anima» (alla lettera, l’inizio di 6,12 che é il versetto più difficile del cantico), cioè: «Sono fuori di me!». In Giob 9,21 la stessa espressione indica la perdita del controllo di sé, dovuta al dolore. Qui, nel Cantico, indica la perdita dell’equilibrio dovuta all’amore sponsale. Il nuovo equilibrio, i due sposi lo troveranno soltanto quando «saranno una sola carne» (Gn 2,24), quando avranno ritrovato sempre nuova la loro piena comunione interpersonale.

 

L’esilio dell’amore

       Nell’amore sponsale, anche quello cantato dal Cantico gli sposi possono anche smarrirsi, ma sono invitati a «cercarsi» di nuovo per apprendere la sublime lezione del «trovarsi-ritrovarsi».

       L’esilio-smarrimento-prova-caduta dell’amore é di Lui e di Lei. ancora un duetto.

a)    La fuga di Lui (3,1-5)

       Lei: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (3,1). Il Ct non dice perché l’amato sia assente. Canta soltanto la ricerca appassionata di Lei. La sposa esce nella notte, rinuncia alle delicatezze del suo pudore e grida alla città addormentata il suo amore. L’amato va cercato, inseguito. L’amore sponsale é conquista di ogni giorno. Finalmente, la sposa «trova» il suo amato. Non dice: «l’ho ritrovato»; ma «l’ho trovato», quasi a volere sottolineare l’incontro sempre nuovo dell’amore.

 

b)    Lo smarrimento-ritardo di Lei (5,2-8)

       Lo sposo ha preso l’iniziativa con una visita notturna alla donna amata, ma la trova addormentata: «A metà strada tra il sonno e il risveglio, tra la notte e il giorno, è incapace di dire: Hinnèni, Eccomi!»[7]. Conserva ancora zone d’ombra e di rifiuto. Non é pronta al dono assoluto di se stessa. La sua, é mancanza d’amore: questa la vera ragione del dramma. La voce-appello (5,2) di Lui strappa alla sposa soltanto vuote giustificazioni (5,3). Ci vuole la presenza dello sposo, avvertita nella sua fisicità (5,4), per scuoterla dal suo torpore, per risvegliarla, restituendola a se stessa.

       Allora la sposa si precipita fuori nella notte in una folle rincorsa, che é tutta un itinerario di purificazione. L’incontro con «le guardie delle mura» (5,7) é ben diverso dal precedente (3,3). Non é la sposa che interroga le guardie. Sono esse che la trovano, la percuotono, scambiandola per una prostituta (cf Prov 7,11-12), di cui vorrebbero arrestare l’incerto equivoco vagabondaggio. La sposa si trova «ferita», «denudata» (5,7): «Ecco qual’é la conseguenza del suo sbaglio, della sua estraneità all’assoluto dell’amore, del suo tradimento, della promessa che la votava anima e corpo al suo amante. Disonorata, sola prigioniera, battuta, ferita e nuda, così è l’amata, così è l’anima, così é la nazione, così é la creazione estraniata dall’amore»[8].

 

c)    Fanciulle e giovani prodi, accomunati nella ricerca

       Nell’avventura del «cercarsi-ritrovarsi» gli sposi non sono soli. «Dove si é recato il tuo diletto, perché noi lo possiamo cercare con te?» (6,1), dicono le fanciulle di Gerusalemme alla sposa amica. Es essa supplica «le guardie della città»: «Avete visto l’amato del mio cuore?» (3,3). Sono gli stessi e le stesse che avevano gioito alla celebrazione delle nozze dei due sposi: «giovani prodi» e «fanciulle di Gerusalemme, figlie di Sion» (3,7.10.11). Noi diremo: non soltanto i testimoni, ma l’intera comunità, tutti coloro che partecipano al Sacramento del matrimonio, sono convocati a questo tipo di corresponsabilità nella storia dei due partners.

 

Il compimento dell’amore

       Il desiderio e la tensione dell’amore, che tengono sospesi i due sposi come i due poli di un’attrazione insieme fisica e trascendentale, invocano compimento e riposo. Nella fisicità-corporeità dell’unione coniugale, che costituisce la mediazione specifica del libero dono di sé all’altro, la coppia é proiettata in una comunione interpersonale che ambisce ad informare l’intero vissuto della loro esistenza.

 

a)    Un rapporto di fecondità creatrice

       «nella casa del vino» di Lui (2,47), simbolo dell’ebbrezza di una unione consumata, o «nella stanza della genitrice» di Lei (3,4-5), dove essa fu generata e partorita, la coppia torna a formare «una sola carne». Si evocano «le gazzelle e le cerve» per la bellezza e la libertà che esse simboleggiano, la bellezza e la libertà dell’unione coniugale. Anzi, la sposa invita lo sposo al superamento delle frontiere mai definite dell’amore, a gustare «i frutti antichi e nuovi» dell’unione sponsale.

       Lui è «come un melo tra gli alberi della foresta» (2,3): non solo unico, ma anche la fecondità creatrice, perché il rapporto coniugale s’iscrive nell’ordine della creazione e della fecondità.

       Lo sposo è per Lei come un profumo fortissimo, che tutta la penetra (1,12-14 ecc.); parimenti la sposa é per Lui soave fragranza (4,10; 5,1 ecc.). Sono gli stessi profumi usati nelle sacre Liturgie, quasi a volere esprimere la sublimazione dell’oggetto descritto. In ogni caso, sono profumi che penetrano tutto l’essere di Lui e di Lei, esprimenti la presenza ontologica dell’uno nell’altro, frutto dell’amore sponsale. «Profumo olezzante é il tuo nome» (1,3), dice Lei. Poiché il nome é l’essenza stessa della persona, é come se dicesse: «La tua persona vivente é dentro di me, mi ha penetrata».

 

b)    Una comunione interpersonale, totale

       Nel dialogo tra i due, le idee e le parole sono quasi identiche (1,15-16). Il dialogo serrato si fa eco (2,1-3): la parola di Lei diventa come uno specchio in cui Lui vede se stesso, conosce se stesso (2,1): viceversa (2,2). E’ la stessa verità che la Bibbia suggerisce, quando designa l’atto dell’unione coniugale col verbo conoscere - Jada’ (Gen 4,1 ecc), che significa propriamente l’esperienza umana e trascendentale di conoscere una persona. Attraverso «un’ulteriore scoperta del significato del proprio corpo, scoperta comune e reciproca», gli sposi «si conoscono reciprocamente in questa specifica comunità-comunione di persone»[9]. Lo sposo e la sposa si rivelano l’un l’altro l’intimo della propria persona, sono chiamati a conoscersi reciprocamente, come nessun altro al mondo li può conoscere se non Dio. La ricerca e il dono del corpo, in virtù della sua «dimensione sponsale», sono ricerca e dono della persona: «O mia colomba..., mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce(2,14)».

       Anzi, il dono e la conoscenza portano il sigillo di un’Alleanza. La formula-ritornello: «Il mio diletto é per me ed io per lui» (2,16; 6,3; anche 7,11) é formula tipica dell’Alleanza che sottolinea bene, sia la dinamica che fonda la coppia, sia la finalità che la giustifica. Ognuno dei due é per l’altro, con l’altro totalmente, sempre. Il trionfo dell’unione coniugale si compie in un voto-desiderio ardente: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio» (8,6a). Il sigillo, di metallo o di pietra, dal quale il possessore non si sarebbe separato per nessuna ragione al mondo (cf Ger 22,24: Ag 2,23), veniva portato appeso al collo o come anello al dito (cf Gen 38,18; 41,42; Ger 22,24) e serviva ad autenticare gli scritti. Il voto inerente all’unione sponsale é precisamente questo: «La persona di Lei - e viceversa - sia il sigillo che autentica il cuore di Lui, sede del pensiero, e il braccio di Lui che permette l’azione!». Pensiero e azione: il dono reciproco deve essere assoluto, totale. Niente nella vita potrà essere pensato, progettato e costruito senza l’autenticazione che sola proviene dalla persona amata. L’amore sponsale tende a una tale pienezza di comunione che ogni incrinatura, ogni divisione, ogni caduta sia inconcepibile.

 

c)    Una comunione che sfida la morte

       «...Perché forte come la morte é l’amore, tenace come gli inferi é la passione... Le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo» (8,6b; 8,7) Commenta A.Chouraqui: «Eccoli l’uno di fronte all’altro questi eterni nemici: l’amore e la morte. Il testo é precisi: il regni dell’amore é forte come quello della morte. Sulle bilance dell’eternità pesano l’uno quanto l’altro. La libera scelta situa l’uomo di qua o di là, nella luce dell’amore o nell’ombra della morte e della gelosia, attizzate dalle fiamme degli inferi. Ma dovunque l’uomo si collochi, l’amore conserva in se stesso una trascendenza che niente può alterare. Le acque molteplici sono quelle in cui, nel primo giorno della creazione, planava lo Spirito di Dio (Gen 1,2). L’amore é anteriore alla creazione che solo lui rende possibile. Essenzialmente trascendente, l’amore é senza prezzo. E’ dono assoluto e solo può nascere e vivere nello stato di grazia consentito dall’offerta»[10].

 

d)   L’amore trascende l’umano, perché viene da Dio

       La forza invincibile dell’amore nasconde anche la sua origine divina? Dice il cantico:«Le vampe dell’amore, sono vampe di fuoco, una fiamma di Jah!» (8,6c). Jah é una forma abbreviata del nome di Dio Jahvè: e Jahvè, accanto ad un sostantivo, esprime talora nell’A.T. un superlativo (cf Sal 36,7; 80,11; 104,16 ecc.). In Ct 8,6 significherebbe: «la fiamma più ardente che esista», quella dell’amore. Ma il contesto di Ct 8,6-7 é troppo ricco di assoluti - come «amore», «morte», «inferi», «grandi acque» della creazione - per non suggerirci di mantenere a Jah il suo vero significato, cioè la persona di Dio. Il poeta del Ct verso la conclusione del libro, sembra voler sollevare il velo del mistero dell’amore sponsale con questa «grande rivelazione semplicemente enunciata»: «L’amore é una fiamma di Jahvè!». Scrive Alonso Schökel: «Si potrebbe pensare che l’amore si esaurisce in se stesso, si giustifica in sé , nega il resto. Non é così. Verso la fine del libro , il lampo del male evoca le due oscurità: ‘perché forte come la morte é l’amore, tenace come gli inferi é la passione’. E nelle vampe di fuoco, la grande rivelazione, semplicemente enunciata: ‘una fiamma del Signore’. L’amore é grande, é invincibile, perché é fuoco che ‘viene da Dio’ (1 Gv 4,7); e viene da Dio ‘perché é amore’ (1Gv 4,8.16)»[11]. L’amore sponsale non soltanto «viene da Dio», ma conduce a Dio, cerca Dio, ha sete del Dio vivente. Viene da dio, perché é dono di Dio creatore che é Amore. Viene da Dio, perché é luogo di rivelazione e di irradiazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo per gli sposi: un amore costante, fedele, senza pentimenti, tenerissimo, persino capace - con un perdono ricreatore - di trasformare l’infedeltà-adulterio in stupendo ricominciamento, in amore rinnovato.

       Ma l’amore coniugale è «fiamma di Jahvè» anche perché conduce a Dio, ha sete di Lui. Proprio nel punto più alto e profondo della stessa comunione totale della loro corporeità e della loro persona, permane nell’uomo e nella donna una radicale, ontologica solitudine che li rimanda ad una salvezza ancora da sperare, che é la loro reciproca e piena comunione in Dio, comunione con Dio. «Dio creò l’uomo a sua immagine maschio e femmina li creò» (Gen 1,27): creati da Dio, per Iddio.

 

e)    L’amore di Shelomo e di Shulammit, un’avventura aperta

       I nomi di Lui e di Lei, Schelomo e Shulammit (forma femminile di Shelomo), derivano dalla stessa radice, che é Shalom, Pace. Lo Shalom nella Bibbia è sinonimo di «Benedizione, riposo, gloria, ricchezza, felicità, salvezza, comunione, vita». Siamo nell’ordine degli assoluti.

       Ma lo Shalom-Pace non é soltanto il dono per eccellenza di Dio, di Gesù cristo (Gv 14,27; 20,19.20.26), il frutto dello Spirito (Gal 5,22). Addirittura, Dio é Pace (Jahvè-Shalom: GdC 6,24), Cristo é la nostra pace (Efes 2,14). Lo sposo é «l’uomo dello Shalom», la sposa é «la donna dello Shalom». Nella più profonda comunione corporale e interpersonale che li fa essere «una sola carne», essi trovano pace, diffondono pace: «Così sono ai suoi occhi come colei che ha trovato (o procura) pace» (8,10b). Lei per Lui, Lui per Lei. Ma la Pace é Dio, é dono escatologico. Ancora cercheranno, troveranno, diffonderanno pace, in un itinerario che conduce a Dio che é la Pace. Infatti l’itinerario dell’amore non ha tregua. Il Cantico chiude con l’ordine pasquale della partenza senza ritorno.

E’ l’ultimo duetto:

            Lui      «O abitatrice dei giardini

                        fammi sentire la tua voce» (8,13)

            Lei      «Fuggi, mio diletto,

                        simile a gazzella o ad un cerbiatto,

                        sopra i monti degli aromi»

       L’avventura dell’amore sponsale continua sulle contrade del tempo, sempre. La sua tensione avrà tregua solo nell’Eterno.

 

Conclusione

       Davvero , «LUI e LEI, protagonisti del Ct, senza un vero nome, sono tutte le coppie della storia che ripetono il miracolo dell’amore»[12]. Il libero del Ct vuol restituire agli uomini la gioia autentica dell’amore coniugale, che é appunto molto più bella della compagnia di un’ora felice. Per i due sposi del poema, l’amore é eterno perché é fuoco di fiamma divina; l’amore é forte come la morte, perché ama la fedeltà e vuole abbracciare l’intera vita, presente e futura, della persona. Shelomo e Shulammit sono oggi, come protagonisti - nel mondo - della gioia e della pace procurati dall’amore. E’ qui che «le stagioni umane»e le «stagioni divine» si incontrano: appunto nelle «stagioni dell’amore»[13].

       «Il libro del Ct, come inno sublime all’amore sponsale é e resta per tutti i cristiani Parola di Dio da proclamare agli uomini del proprio tempo. Cantato da un libro ispirato e normativo, l’amore coniugale é anche per il nostro tempo fondamento della comunione tra gli sposi (cf Gaudium et Spes, 49), la sorgente della pace nella famiglia e nella società. Non raccogliere il messaggio del Ct, significherebbe impoverire in qualche misura lo stesso annuncio cristiano su matrimonio. L’impresa di cui parlava il Sinodo dei Vescovi del 1979 a che “le famiglie del nostro tempo riprendano quota!”, in conformità all’immagine divina della famiglia, rinnovata e santificata da Gesù cristo, (che) é spesso, nella nostra epoca, impoverita, offuscata e forse anche profanata” (Osservatore Romano 15 agosto 1980), é un’impresa di frontiera alla quale il messaggio del Ct può dare un ricco contributo»[14]. La Stessa CEI, già nel piano pastorale per l’anno 1981-82, affermava: «L’impegno educativi (della Chiesa) deve puntare in modo e sostegno della comunione familiare. La profondità della comunione tra marito e moglie, dell’essere cioè e dell’agire insieme, misura e decide della comunione tra genitori e figli e tra gli stessi figli»[15]. E in quello stesso Documento CEI ricordava - con le parole del Papa Paolo VI - che «se la fonte umana ( dell’affetto tra gli sposi cristiani) rischia di disseccarsi, la sua fonte divina é altrettanto inesauribile quanto le profondità insondabili dell’affetto di Dio»[16].

       Se, poi, volessimo porre l’accento su qualche punto particolarmente emergente e attuale del messaggio del Ct, sceglierei i due seguente:

1)    Un rapporto più disteso dei credenti con la dimensione sessuale ed erotica della vita coniugale.

2)    Un’armonia o una più felice sintesi dell’èros con agàpe, del piacere con l’amore.

 

1)    Se - come affermava Giovanni paolo II - «tanto il punto di partenza quanto punto di arrivo del fascino - reciproco stupore e ammirazione - sono la femminilità della sposa e la mascolinità dello sposo nell’esperienza diretta della loro visibilità»[17], allora si può dire che «il Ct spinge i credenti ad un rapporto più disteso (e distensivo) con la dimensione sessuale ed erotica della vita, riconoscendo che anche il principio del piacere é dono di Dio creatore. Il Ct aiuta perciò a pensare e a vivere la sessualità senza angoscia, senza falsi pudori o silenzi, senza mortificazioni e mistificazioni, senza favoleggiamenti spiritualistici e irreali. Il Ct insegna a distinguere la purezza dell’amore dalla dissolutezza del dominio, della sottomissione, della violenza, della brutalità di un’«esecuzione» solo fisiologica dell’amore...»[18].

2)    Una seconda ‘lezione’ connessa alla prima, che ci proviene dal Ct, mi pare «l’armonia dell’èros con l’agàpe, del piacere con l’amore, del desiderio con la carità, del possesso con la donazione»[19]. Di conseguenza, ha ragione - a nostro avviso - l’amico G. Ravasi quando invita a «ridimensionare la distinzione troppo radicale » che A. Nygren ha introdotto nel suo celebre libro Eros e agàpe (Il Mulino, Bologna, 1971). Nell’amore autentico queste distinzioni si annullano in un’unica e totale esperienza di pienezza.

       Ecco comunque - aggiunge Ravasi - le distinzioni suggerite da Nygren:

              «Eros é desiderio, aspirazione e tensione verso l’altro.

              Agàpe é sacrificio, abbassamento e donazione per l’altro.

              Eros é via dell’uomo a Dio.

              Agàpe é via di Dio verso l’uomo.

              Eros é conquista dell’uomo.

              Agàpe é grazia.

              Eros é auto-affermazione egocentrica, gloriosa, nobile.

              Agàpe é amore disinteressato e dono di sé.

              Eros é determinato dalla bellezza dell’oggetto amato.

              Agàpe ama e crea il valore dell’oggetto amato.

       L’amore del Ct é fusione di èros eagàpe nella pienezza dell’incontro tra due persone»[20].

       Ognuna di queste distinzioni andrebbe esaminata e approfondita; e forse scopriremmo che non tutte le dimensioni dell’«agàpe» sono presenti nel Ct. L’intera «rivelazione» sull’amore umano non é contenuta nell’A.T., né tanto meno nel solo Cantico dei Cantici. A nostro avviso, non si deve dimenticare che «il protosimbolo sponsale non é il matrimonio umano e neppure l’amore di Dio per Israele, ma l’amore di Cristo per la Chiesa (cf Ef 5,25-27), là dove l’unione di Cristo con la Chiesa é mediata dal dono totale di Lui...Nel matrimonio messianico, e in quello umano degli sposi, la co-esistenza passa attraverso la pro-esistenza (= l’essere per, cioè l’agàpe, principalmente testimoniata dall’evento di Cristo). Né esiste un pro-esistenza in percentuali: «un dono parziale é un dono mancato, negato»[21]. E ci pare che in questo contesto - e solo in questo - si possa parlare anche di «amore sponsale crocifisso»[22].


[1]        A.CHOURAQUI, Il Cantico dei Cantici, La Cittaà Nuova, Roma 1980, p.42s.

[2]        Per una più ampia e articolata descrizione dei tre temi o tre stagioni dell’amore nel Ct, cf V. MANNUCCI, Sinfonia dell’amore sponsale, Elle Di Ci Torino 1938 2, pp. 25-58.

Lo spazio non ci consente di riprodurre in questo testo vari brani del Ct ai quali si fa riferimento e che vengono indicati con la semplice citazione. Il lettore dovrà leggere la mia presentazione «tematica», con il testo Ct alla mano.

[3]        GIOVANNI PAOLO II,.L’Osservatore Romano, 15 novembre 1979.

[4]        L. ALONSO SCHÖKEL, Il cantico dei Cantici, in «La Bibbia Parola di Dio scritta per noi», vol 2, Marietti, Torino 1980, p. 424

[5]        L. ALONSO SCHÖKEL, ivi.

[6]        A. CHOURQUI, Il cantico dei Cantici, cit., p.89.

[7]        A. CHOURQUI, ivi, p.118.

[8]        A. CHOURQUI, ivi p.121.

[9]        GIOVANNI PAOLO II, L’Osservatore Romano, 13 marzo 1980.

[10]      A. CHUORAQUI, Il Cantico dei Cantici, cit., p.146.

[11]      L. ALONSO SCHÖKEL, Il cantico dei Cantici, cit., p.425.

[12]      L. ALONSO SCHÖKEL, Il Cantico dei Cantici, cit., p.424.

[13]      Cf C. OLGIATI, in D. Colombo, Cantico dei Cantici, cit., p.13.

[14]      V. MANNUCCI, Sinfonia dell’amore sponsale, cit., p.22.

[15]      Documento della C.E.I. su «Comunone e Comunità nella chiesa domestica» n.23 (cit. in V.MANNUCCI, Sinfonia dell’amore sponsale, p.6)

[16]      C.E.I., «Comunione e Comunità nella chiesa domestica», n.10 (cit. in V:MANNUCCI, Sinfonia dell’amore sponsale, p.7)

[17]      GIOVANNI PAOLO II, L’Osservatore Romano, 23 maggio 1984.

[18]      G. RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p.219.

[19]      G. RAVASI, ivi.

[20]      G. RAVASI, Cantico dei Cantici, cit., pp.219-220.

[21]      V. MANNUCCI, Sinfonia dell’amore sponsale, cit., pp.137-138.

[22]      Cf V: MANNUCCI, Sinfonia...ct., «Come dare senso a in amore sponsale crocifisso?» (Appendice alla seconda edizione), pp. 146-148.