Mario Cattaneo

famiglia: luogo della memoria, dell’esperienza, della speranza

 

          Nascere, amare, a morire. È il titolo di un libro, da poco tra le nostre mani, che raccoglie gli atti del Convegno annuale del C.I.S.F. 1989[1]. È la proposta complessa, ed efficace, di un fondamentale recupero: quello, all’interno della dinamica familiare, di momenti essenziali per ciascuno prospettati, di solito, all’insegna della singolarità, all’insegna di un impos­sibile e inaccettabile individualismo.

          Un’utile metafora per la nostra riflessione. Un progetto per il nostro discorso, per un’immagine persuasiva di famiglia.

          Nascere.   Oltre la biologia di un avvenimento. Una storia che inizia da lontano. Il frutto di una pianta che non improvvisa la sua offerta. Dove sono le radici? Di quale tipo?

          Amare.  Rendere possibile la vita in ogni suo aspetto, dilatandola verso gli spazi più significativi.

          Morire.  Perché altri continui a vivere. Convinti dell’inutilità di una presenza quando la vita è assicurata. Quando all’orizzonte il sole è definitivamente salito.

          Si badi agli aspetti contraddittori della nostra cultura. Dall’altro si denuncia la neces­sità di un clima familiare per morire con un briciolo di dignità. È invocata la presenza per difendere la qualità della vita proprio quando è incamminata verso la morte, verso la sua definitiva consunzione.

          Famiglia:    Luogo, un’esperienza di raccolta e di invio.

          *      Una raccolta di tutte le vite che l’hanno preceduta, dei sentimenti, delle attese, dei progetti; di quanto è stato pagato in sofferenza e gioia, di quanto è stato costruito. Raccolta della fatica di vivere; sintesi comunitaria di tutto quanto ha segnato la vita dei genitori e segnerà quella dei figli.

          *      Una comune appropriazione e condivisione di quanto si è costruito: perché la vita continui. Come la manna: distribuita per la consumazione di tutti onde impedirne la corruzione, l’inutilità di uno sperpero.

 

I        Luogo della memoria.

          La famiglia, figlia dell’educazione (Perché educare).

          La famiglia rende possibile l’educazione, perché sia assicurata una vita che oltrepassi la dimensione biologica. Per umanizzare un essere che viene «gettato» nel mondo, nella storia. Un’offerta perché colui che nasce sia posto in grado di far fiorire la propria persona in autentica personalità: «Usque ad perfectum statum hominis, quod est virtutis status» (S. Tommaso). Per apprendere proprio grazie alla proposta educativa, il mestiere di vivere.

          Si può nascere senza una famiglia, ma per la propria umanizzazione, ne è reclamata la necessità. Pur nel quadro di una sua riconosciuta fragilità, pur non attribuendole onni­potenze che non le competono.

          Il dovere di educare è il dovere di un’offerta, di una partecipazione, di una necessaria messa in comune delle ricchezze della vita: come «il padre di famiglia che trae fuori dal suo scrigno cose nuove e antiche» (Mt 13,52). Ciò che si è guadagnato, quanto si è co­struito, ciò che si è divenuti. I genitori sono essi stessi lo scrigno, il patrimonio da cui attingere. La loro storia, il loro percorso di vita è alla mercè dei figli, essi sono il luogo vivo di una memoria viva per i figli.

          Il loro senso della vita, la loro fatica di vivere, la stratificazione della loro esperienza sono insieme terreno e radici, humus e pianta e fiori e frutti. Se credenti si fanno memoria della Parola di Dio cui si sono affidati, sono memoria trasparente della chiamata all’amore.

          Da tutto ciò consegue che il dovere dell’educare non è altro che l’espressione del dovere dell’amare.

          È obbedienza alle ragioni del matrimonio e della famiglia. In tale prospettiva si collo­ca il dovere dell’obbedienza da parte dei figli.

          L’obbedienza, nella sua ragione di fondo, nel suo più preciso significato rinvia alla loro fede nei genitori. Una fede necessaria per poter guardare alla vita: non è possibile credere alla vita se non si ha fede nei genitori, se non ci si affida ad essi con fiducia piena.

          Tale fiducia piena è appunto vissuta, espressa nell’obbedienza. In essa tutta la per­sona dei figli è coinvolta, non solo l’intelligenza, non soltanto la volontà: L’intera persona, l’intera esperienza di vita, il vissuto, l’agito, ciò che viene appreso e coniugato dal cuore, dallo spirito. Ma l’obbedienza non può essere richiesta se non dalla propria autorevolezza. Senza di essa l’autorità dei genitori si fa vuoto esercizio di potere, imposizione cieca, richiesta di immeritato consenso.

          Da non dimenticare, perciò il pensiero di Lambruschini: «L’autorità sui cuori è con­sentita, ma a nessuno è lecito estorcerla». D’altronde lo stesso diritto all’educazione deve essere rivendicato nei confronti della società, delle istituzioni in nome del necessario compimento del proprio dovere di educare.

          In nome cioè del dovere di educare, la famiglia rivendica il diritto di... poter realizzare il proprio compito.

          La dissuasione dell’educare. Due almeno sono le fonti da cui nasce. La prima: i dubbi e le negazioni della cultura d’oggi. Essa si chiede se sia lecito educare ponendo mente ai pericoli del condizionamento. Poi si chiede se, riconosciuta la liceità, se ne individui la possibilità di realizzazione. Ma, incalza il dubbio di certa cultura, qualora possibile, è poi utile, è in grado di raggiungere le mete prefisse? Una specie di terrorismo culturale che da tempo investe la famiglia.

          E poi la minaccia di un’insidia: come si compone l’impegno educativo della famiglia con il pluralismo culturale, con il costume della tolleranza?

          La seconda. Le paure della famiglia nel quadro delle paure del nostro tempo: centrale la paura del domani. Ma senza il domani non c’è posto per l’educazione. Se il domani è indecifrabile come è possibile gettare i ponti di esso?

          Un altro pretesto per la dissuasione: non è meglio che venga fuori ciò che è presente, comunque, nel figlio? Educare non viene proprio da «educere»? Ma è possibile ciò senza progetti di utilizzazione delle proprie potenzialità, senza obiettivi da raggiungere, senza percorsi gestibili?

 

II       Luogo dell’esperienza (Come educare)

          Non voglio offrire qui la proposta di una topografia da utilizzarsi per le proprie scelte.

          Non è neanche l’offerta di un filo d’Arianna per il labirinto in cui la famiglia è collocata. Semmai alcuni cartelli indicatori, la segnalazione degli incroci, dei crocevia più rilevanti. Quelli a cui non si può sfuggire, in nessun modo.

          Una premessa. I modi e l’esperienza dell’educazione familiare, proprio in quanto l’educazione familiare si affida alla vita, «pesano» sul progetto di famiglia che i figli elaborano per il loro domani, sull’idea coltivata per le scelte future.

          Da come si vive oggi traggono persuasioni sul modo in cui come si o non si dovrebbe vivere domani.

          Un’educazione come «luogo di vita» in vista della vita. Una duplice compenetrata esperienza di umanizzazione e socializzazione.

 

I cartelli indicatori

          *      Il pericolo dell’appropriazione dei figli, del loro avvenire, del loro modo di vita ecc. Il pericolo della gestione di un delicato patrimonio all’insegna del «tuo bene», usato come copertura di progetti e disegni che poco hanno a che vedere con il vero bene del figlio. Di qui la necessità di fare posto alla fatica della ricerca, alle domande a quanto è necessario per la maturazione di persone che, a nessun titolo ci appartengono. Rifiutando presunzioni e sicurezze.

          *      Il rischio delle diverse, sottili violenze (di cui non si parla in pubblico) in vista dell’estorsione del consenso. Violenze che danno origine, spesso, alla reciprocità di ricatti: dai genitori ai figli e viceversa.

          *      L’ineliminabile possibilità del conflitto. La famiglia, nodo di relazioni, vivaio di relazioni, non può credere di salvarsi dall’eventualità del conflitto, dentro di sé. Anzi deve porlo, di fatto, nelle sue previsioni, connaturato per alcuni aspetti ad essa come alla natura dell’uomo.

          L’educazione perciò non può soltanto demonizzare o metabolizzare il conflitto senza precisi impegni. Ne deve al contrario indicare la soglia di tollerabilità, i modi di gestione, gli esiti indicativi del suo superamento.

          In una logica di «laicità», per cui le diversità trovano una precisa arricchente colloca­zione, dove il rapporto d’amore non è condizionato da «conversioni» di nessun genere.

          *      Lo stile del dialogo nell’esperienza educativa familiare nella vita familiare. Con quattro riferimenti che lo debbono caratterizzare, costituendolo: chiarezza, mitezza, fidu­cia, ascolto. Franchezza di parola e di gesti, ma insieme pazienza di ascolto, chiarezza di proposte e disponibilità al confronto su di esse.

          *      Le troppe parole cancellate, o ridotte a caratteri illeggibili, dalla vita dei propri figli: fatica, costo, impegno, pazienza, attesa, umiltà, coscienza del proprio limite.

 

I «concorrenti» dell’educazione familiare oggi

(Proposte sintetiche senza pretesa di sviluppo)

          *      La cultura del sembrare, dello spettacolo. La cultura dell’effimero con la dimenti­canza delle radici storiche. Sembrano ansimanti, addirittura esauste, le grandi aspirazioni, le grandi tensioni.

          *      La difficoltà, per non dire l’esistenza, di un rapporto che non sia sudditanza o di arrendevolezza dei genitori con la realtà della televisione, dello spettacolo, della stampa.

          *      La proposta dell’istituzione (diversi i nomi e i volti, identico l’accento del discor­so): il successo assicurato al figlio, nei diversi campi, in cambio della delega educativa.

          Ancora, nello stesso quadro: la moltiplicazione delle offerte in vista della moltiplica­zione dei bisogni. Un circolo perverso.

          Come giustificare - d’altra parte - la stessa delega all’istituzione Chiesa, all’associa­zione, al gruppo che chiamano a raccolta i figli?

          *      Una cultura che ricaccia in un limbo intimistico la famiglia impedendole di proporre cultura, cioè orientamenti, itinerari vitali. Condannandola in una posizione difensiva, cioè la più scomoda e antipatica.

 

III     Luogo della speranza (A che cosa educare - Quale prospettiva coltivare)

          La necessità di grandi orizzonti: pensare, volere, aspirare, tutto alla grande. Un respiro davvero molto aperto.

          Oltretutto è questo l’unico modo per non «perdere» i figli: gli orizzonti angusti, gli obiettivi «avari» non mantengono ai genitori l’amore dei figli.

          Desiderare che crescano, che facciano presto senza di noi sotto ogni aspetto: realiz­zando un equilibrato processo di separazione accompagnato da un contemporaneo processo di individuazione. Il figlio che si propone, perciò, di essere qualcuno nella fedeltà a se stesso, di soddisfare il proprio bisogno di indipendenza e allo stesso tempo di essere leale verso il proprio sistema familiare, componendo armonicamente i due obiettivi.

          Una dipendenza perciò da non prolungare, uno sganciamento da non giocare nell’avventura della precocità.

 

L’orizzonte cui essere attenti

          *      La partecipazione, l’offerta da una parte; la conquista, dall’altra, del senso della vita. Che significa nascere, amare, soffrire, sperare, perdere, morire?

          *      È impossibile un senso della vita, è improbabile se non rapportato a, se non fondato su un sistema di valori, una costellazione di valori.

          *      Un’aperta, progressiva, costante conquista della libertà. Che non si confonde con la liberazione, che non si esaurisce in essa. È al contrario la capacità di scegliere, di decidersi nella logica della propria statura umana, in quella della propria condizione di «salvati».

          *      La capacità di guardarsi dentro, di autocontestarsi, di riformare continuamente i giudizi di sé, di ricostruire progetti e percorsi.

          In tale quadro la scoperta della propria vocazione.

          *      La capacità di progettare la propria presenza nel mondo, nella storia di tutti. La disponibilità a giocare la propria vita, ma anche a giocarsi nella vita in una prospettiva di rapporti costruttivi con gli altri. Nella disponibilità a sapersi spendere per la pienezza della vita di tutti.

          Proporre e proporsi tutto ciò vuol dire lasciarsi invadere dalla speranza. Una virtù cristiana che perciò si colloca esclusivamente nella prospettiva della fede, della Parola di Dio. Si radica nella risurrezione, una vera freccia lanciata verso il futuro dall’arco di una vita intrisa dalla fede: «La speranza poi non porta alla delusione, perché Dio ha messo il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha dato» (Rm 5,5).

          Perciò nella prospettiva della fede possiamo per un verso rifondare, per un altro rafforzare, per un altro ancora «trasfigurare» la nostra riflessione.

          Famiglia, luogo della memoria: di Dio che crea e salva e rende in Cristo possibile una nuova «natura» per la famiglia.

          Famiglia, luogo di esperienza: della gratuità, della diaconia, dell’offerta. Fondati sulla partecipazione all’amore di Colui che ci ha amato per primo.

          Famiglia, luogo della speranza: Dio non si situa soltanto all’origine della nostra «avven­tura», ma anche alla sua conclusione. È in continua, insonne attesa della conclusione del nostro itinerario. Ciò fonda la nostra speranza, dà voce al nostro annunzio.

          A nessun miracolismo va fatto posto nel discorso sulla famiglia, nessun paragone con inimmaginabili «polizze antinfortunistiche». Ma il triplice credito: comunicare la vita, renderla capace di impegno espansivo, annunciare la speranza come misura di certezze per il domani.


[1]     AA.VV. Nascre, amare, morire. Etica della vita e famiglia oggi, Paoline 1989.