CON I SACERDOTI

SULLE ORME DI MADRE SPERANZA – 1

P. Gabriele Rossi, fam

La famiglia religiosa dell’Amore Misericordioso e il Clero Diocesano

 

 

Edizioni Amore Misericordioso – maggio 2009

 

INTRODUZIONE

Il Papa Giovanni Paolo II, in occasione del suo pellegrinaggio apostolico al Santuario di Collevalenza (Perugia) nel novembre del 1981, parlando ad una folta rappresentanza di Consacrati e Consacrate appartenenti alla Famiglia Religiosa dell’Amore Misericordioso – presente la stessa Fondatrice dell’Opera, Madre Speranza Alhama Valera –, ebbe a dire:

«Desidero esprimere il mio compiacimento per quanto viene compiuto nel campo dell’assistenza e della santificazione del Clero Diocesano. Tale compito rientra nel fine specifico della Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso, per la cui realizzazione le Ancelle prestano la loro delicata collaborazione. Si legge infatti nel Libro delle Usanze che traducono in pratica le Costituzioni: "Aiuteranno i Sacerdoti in tutto, più con i fatti che con le parole"; e tutto ciò con spirito di lieta e generosa dedizione. Un particolare impegno poi viene esercitato per incoraggiare tra i Sacerdoti diverse e progressive forme di una certa vita comune» (Allocuzione ai Religiosi, Collevalenza, 22.11.1981).

E’ possibile comprendere un po’ meglio la realtà carismatica ed apostolica a cui intendono alludere queste benevole parole pronunciate dal Papa?

E’ precisamente quanto ci si propone di ottenere per mezzo di questa breve esposizione, destinata soprattutto ai Sacerdoti del Clero Diocesano.

 

 

1. LA FONDATRICE DELL’OPERA

1a. Gli aspetti più importanti della sua attività

Madre Speranza Alhama Valera è nata a Santomera (Murcia – Spagna) nel 1893, ed è morta in concetto di santità a Collevalenza nel 1983. Qui è anche situata la sua tomba, presso il Santuario da lei realizzato in obbedienza ad una volontà superiore e dedicato all’Amore Misericordioso del Signore Gesù.

La sua vita può essere suddivisa in due periodi: quello spagnolo (dalla nascita fino al 1940); e quello italiano (dal 1940 in poi). La sua figura si contraddistingue nel panorama ecclesiale principalmente per tre aspetti: a) l’insegnamento spirituale relativo al mistero dell’Amore Misericordioso del Signore, sviluppato sulla base di precise rivelazioni mistiche a lei concesse; b) la dedizione caritativa a favore di varie categorie di bisognosi (orfani, poveri, malati, anziani…), attuata prevalentemente per mezzo della Congregazione femminile da lei fondata, le Ancelle dell’Amore Misericordioso (EAM); c) e la dedizione fraterna a beneficio dei Sacerdoti del Clero Diocesano, realizzata soprattutto tramite la Congregazione maschile da lei fondata, i Figli dell’Amore Misericordioso (FAM).

Queste istanze apostoliche, istillate in lei dalla Divina Provvidenza e coltivate per anni nel proprio animo, si sono gradualmente chiarite e tradotte in opere concrete. In particolare, vogliamo qui considerare lo sviluppo e i contenuti della missione che le è stata affidata dal Signore a vantaggio del «suo amato Clero».

1b. L’infanzia e la giovinezza in casa del Parroco

Maria Josefa – questo il suo nome di battesimo – entrò a contatto con la condizione di vita del Sacerdote fin dall’età di sette-otto anni. Infatti, essendo nata in una poverissima famiglia di braccianti agricoli – primogenita di nove fratelli di cui quattro morti prematuramente –, venne raccomandata al Parroco del paese da parte di un pio signore che possedeva un podere vicino alla baracca della famiglia Alhama. Il Parroco accolse volentieri in canonica quella bambina piena di ingegno e di vitalità, e la affidò alle due sorelle nubili che dimoravano con lui. Senza perdere i contatti con la propria famiglia naturale, anzi rendendosi utile di tanto in tanto alla mamma nel disbrigo delle faccende domestiche, Maria Josefa rimase presso la famiglia del Parroco fino all’età di 21 anni, cioè fino a quando non decise di entrare nella Vita Religiosa per consacrarsi al Signore.

Questo lungo periodo le consentì di usufruire di un’assistenza certamente superiore a quella riservata alle altre coetanee della sua stessa estrazione sociale: poté infatti acquistare una buona formazione umana e spirituale, sfociata poi nella scelta vocazionale; e ricevere in casa una certa istruzione scolastica. Ma questa esperienza le consentì anche di osservare da vicino la vita che conduce il Sacerdote: poté così predisporsi a comprendere meglio la mentalità del Clero, le sue esigenze, le sue difficoltà, e persino i suoi difetti…

Come non riscontrare in tutte queste vicende un segno premonitore e una preparazione remota rispetto a quella missione che in seguito avrebbe dovuto svolgere insieme alla sua Famiglia Religiosa nel campo dell’assistenza all’infanzia bisognosa e nel campo dell’aiuto materiale e spirituale al Clero Diocesano?

1c. La consacrazione radicale per la causa del Clero

Ma la missione ecclesiale di Madre Speranza verso i Sacerdoti si venne precisando meglio grazie alle molteplici indicazioni che ricevette direttamente dall’alto, per rivelazione. Giunta ormai all’età di 34 anni e trovandosi ancora tra le Religiose di Maria Immacolata (o Missionarie Clarettiane), avvertì chiaramente dal Signore di non dover desiderare altro nella vita che amarlo e soffrire in riparazione delle offese che egli riceveva dal suo amato Clero; e di fare in modo che tutti quelli che trattavano con lei sentissero questo medesimo desiderio.

Il voto di vittima per tutte le anime consacrate – e in particolare per i Sacerdoti del mondo intero – è uno degli elementi più caratteristici della spiritualità di Madre Speranza: ispirato all’esempio di Gesù – vittima del proprio amore fino al dono della vita sull’altare della croce –, questo atto denota una consacrazione davvero radicale per la causa dei Ministri sacri, nell’intento di aiutarli misticamente nella riparazione delle loro indegnità e nell’incremento della loro santità.

In forza di questo voto – costantemente rinnovato di persona e insistentemente riproposto alle sue Congregazioni –, Madre Speranza giunse a domandare al Signore non solo una vita carica di anni e di tribolazioni, ma anche di poter vedere il proprio corpo disfatto nella corruzione del sepolcro, al fine di riparare i peccati commessi dai Sacerdoti a causa della concupiscenza della carne; e di poter vedere applicati a loro tutti i suoi meriti spirituali, riservandosi poi di regolare in Purgatorio i debiti morali contratti nel corso della sua vita terrena.

E’ proprio sulla base di questo atteggiamento oblativo che lei poté fondare la Famiglia Religiosa che il Signore le stava chiedendo per il Clero.

 

 

2. I FIGLI DELL’AMORE MISERICORDIOSO

 

2a. Il fine principale della Congregazione

Dopo aver realizzato a Madrid nel 1930 la fondazione delle Ancelle dell’ Amore Misericordioso – aventi come fine principale l’esercizio della carità verso i più bisognosi –, Madre Speranza avviò a Roma nel 1951 la Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso. Questi due Istituti Religiosi, pur essendo giuridicamente distinti ed autonomi, formano una sola Famiglia Religiosa: per la qual cosa, non solo si aiutano mutuamente sul piano spirituale, ma – partecipando delle rispettive finalità – collaborano anche strettamente sotto l’aspetto operativo.

Dal punto di vista apostolico, il fine primario dei Religiosi FAM è l’unione con il Clero Diocesano, per aiutarlo fraternamente e per fomentarne l’unità interna e la santità. Si tratta cioè di un’unione da perseguire nei confronti del Clero sia nelle necessità materiali che nelle esigenze spirituali.

Più volte Madre Speranza difese a voce e per iscritto la specificità di questa missione e la sua viva attualità: non c’era bisogno nella Chiesa di una ennesima Congregazione Religiosa; ve ne sono già molte per le varie necessità apostoliche; ne occorreva però ancora una che operasse per il superamento della divisione tra i due Cleri; che fomentasse l’unità interna del Presbiterio Diocesano; e che diventasse per i Sacerdoti un punto sicuro di riferimento, davvero come «la propria famiglia» in tutte le situazioni e per tutte le necessità.

2b. Le varie modalità operative

I Codici normativi dell’Istituto e la prassi apostolica dello stesso, avviata sotto la guida illuminata e vigile della Madre Fondatrice, evidenziano una serie di modalità operative con le quali poter raggiungere gli obiettivi sopra indicati. Si tratta di forme concrete alle quali in futuro altre se ne potrebbero aggiungere, in risposta alle mutate circostanze di tempo e di luogo, e in linea con l’esigenza di una fedeltà dinamica agli esempi e agli intendimenti della Fondatrice stessa.

La missione sacerdotale dei FAM, dunque, si attua:

1) aprendo sempre le varie Case della Congregazione all’accoglienza dei Sacerdoti, o per brevi periodi di recupero o per permanenze stabili;

2) prendendosi cura della loro vita spirituale – specie di quelli più giovani – tramite l’animazione fraterna di raduni, ritiri e corsi di esercizi;

3) praticando uno stile di gratuità economica tanto per i ritiri mensili e gli esercizi annuali, quanto per le permanenze non stabili nella Casa Religiosa;

4) provvedendo all’accoglienza e all’assistenza di quei Sacerdoti anziani e malati che intendono ritirarsi presso le strutture della Congregazione;

5) favorendo in ogni occasione incontri fraterni con i Sacerdoti, collaborando con loro nel ministero e offrendo loro aiuto in ogni necessità;

6) nutrendo sempre verso i Sacerdoti rispetto e dedizione, e consacrandosi più pienamente alla loro causa con il voto di vittima;

7) e infine, unendo all’Istituto alcuni Sacerdoti del Clero Diocesano tramite la professione dei voti e la pratica della vita comune.

Sulla base di un simile programma apostolico, si può dire che la Congregazione non debba quasi conoscere limiti nell’alleviare le difficoltà dei Ministri sacri e nel rafforzarne le potenzialità. In pratica, del Clero Diocesano deve interessarle tutto: la solitudine e la stanchezza, i momenti di crisi e i possibili sbandamenti, la malattia e l’anzianità… Inoltre, deve starle a cuore che nel Presbiterio Diocesano regni una profonda unità di intenti attorno al proprio Pastore e vi siano forme significative di impegno spirituale e di condivisione fraterna.

In questo senso, acquista tutto il suo significato la proposta di speciale consacrazione – da realizzarsi tramite la professione dei voti e la pratica della vita comune – che i Religiosi di Madre Speranza diffondono tra il Clero.

2c. I quattro rami della Congregazione

La missione or ora descritta va perseguita dall’intera Congregazione dei FAM, la quale – secondo gli intendimenti e le norme redatte dalla Fondatrice – è composta da quattro diverse categorie di persone, da considerarsi non come entità autonome, ma come parti del tutto, formanti cioè un solo ente giuridico, munito di un unico testo di Costituzioni e di un’unica struttura di governo:

1) i Sacerdoti Religiosi, incardinati nell’Istituto e al servizio dello stesso;

2) i Fratelli Religiosi in abito ecclesiastico, impegnati in opere interne;

3) i Fratelli Religiosi in abito civile, impegnati in attività secolari;

4) e i Sacerdoti Diocesani, incardinati in Diocesi a tutti gli effetti.

Il profondo inserimento di questi ultimi nella vita e nella missione dell’ Istituto – innesto giuridico davvero atipico! – è regolato da un apposito Statuto, approvato dalla Santa Sede. Cerchiamo, dunque, di comprendere meglio l’origine storica, la natura giuridica e la finalità apostolica di questo ramo.

 

 

3. I DIOCESANI INSERITI NELLA CONGREGAZIONE

 

3a. L’origine e lo sviluppo del progetto

L’anno successivo alla fondazione dei Religiosi FAM, Madre Speranza, non senza un’esplicita disposizione dall’alto, avviò anche il ramo dei Diocesani. E lo fece: 1) redigendo con la consulenza di un canonista le norme fondamentali che avrebbero dovuto regolamentare la loro appartenenza all’Istituto; 2) inserendo queste medesime norme all’interno del testo di Costituzioni della Congregazione; 3) avviando concretamente i primi due Sacerdoti del gruppo alla pratica di questa specifica forma di consacrazione, tramite il loro innesto in una Comunità di Religiosi FAM, cosicché anch’essi potessero vivere more religiosorum con i propri Confratelli senza compromettere minimamente il servizio alla Diocesi.

Fin dall’inizio, Madre Speranza era perfettamente cosciente della difformità giuridica di questo progetto con il Codice di Diritto Canonico; ma ancora più cosciente era del fatto che esso – rientrando nei misteriosi voleri del Signore – avrebbe prodotto un gran bene spirituale tra il Clero, anche se i tempi per lo sviluppo e il riconoscimento non sarebbero stati brevi.

E infatti, l’attesa per una prima approvazione "ad experimentum" si è protratta per oltre quarant’anni dalla professione dei primi due aderenti al gruppo (1954-1995); e per giungere al riconoscimento definitivo sono stati necessari altri dieci anni. Oggi, sulla base dello Statuto approvato dalla Santa Sede nel 2005, il ramo dei Diocesani FAM può sicuramente rafforzarsi e fruttificare ancor di più.

3b. La condizione canonica immutata

Entriamo nel vivo della normativa considerando innanzitutto le coordinate giuridiche fondamentali, così come vengono definite dalle Costituzioni:

«Questi Sacerdoti Diocesani, poiché non mutano la propria condizione canonica, hanno un modo proprio di appartenere alla Congregazione. Anche dopo l’unione perpetua con l’Istituto tramite l’assunzione dei consigli evangelici con voti, conservano l’incardinazione nella propria Chiesa particolare con tutti i diritti e i doveri connessi. / In quanto Sacerdoti Diocesani, essi sono tenuti ad obbedire, in maniera giuridicamente prevalente, al proprio Ordinario locale, nella piena disponibilità di servizio alla Diocesi, secondo le prescrizioni delle leggi comuni e particolari. / In quanto Sacerdoti consacrati nella Congregazione, essi sono tenuti ad osservare il diritto proprio dei FAM, nei limiti definiti da uno Statuto proprio, approvato dalla Santa Sede» (Cost., art. 10).

E per i possibili casi di sovrapposizione di competenze, lo Statuto recita:

«Se ci dovessero essere casi di conflitto, specialmente quando situazioni particolari riguardanti gli obblighi della consacrazione richiedessero interventi disciplinari, il Superiore Generale agirà cercando, nel sincero dialogo con l’Ordinario Diocesano, di tener presente e salvaguardare sia il bene della Diocesi ed il bene personale del Sacerdote, sia gli impegni della professione nell’Istituto, salvo restando che, in caso di incompatibilità, tra i doveri della Diocesi e quelli della Congregazione prevalgono in ogni caso i primi» (Stat., art. 20).

Sulla base di queste delimitazioni è possibile coniugare insieme in maniera complementare e subordinata l’Ordinamento Religioso con quello Diocesano.

 

3c. La professione dei tre voti

Il primo impegno tipico della consacrazione dei Diocesani FAM è quello relativo alla professione dei tre voti nella Congregazione. Lo Statuto ne descrive i valori personali ed ecclesiali e ne delimita i contenuti giuridici:

«Attraverso l’effettiva prassi dei consigli evangelici assunti in maniera istituzionalizzata, essi si danno totalmente a Dio amato sopra ogni cosa e si pongono alla sequela del divino Maestro al di là della stretta misura del precetto, per seguirne più da vicino gli esempi e gli intendimenti, sotto l’azione dello Spirito Santo. / In tal modo, oltre che richiamare tutti i battezzati sul valore comune di questi atteggiamenti evangelici, essi svolgono una funzione profetica in mezzo ai Confratelli Diocesani i quali, per la pienezza del loro sacro ministero, sono già chiamati a conseguire le virtù della castità, della sobrietà di vita e dell’umile obbedienza» (Stat., art. 8).

«Con il voto di obbedienza confermano la promessa di sottomissione gerarchica al proprio Ordinario Diocesano, in tutto ciò che riguarda l’appartenenza e il servizio ministeriale alla propria Chiesa particolare…» (Stat., art. 18).

«In forza del medesimo voto sono anche tenuti ad obbedire, con senso di fede e docile sottomissione, ai Superiori Religiosi in tutto ciò che si riferisce alla pratica della Vita Consacrata…» (Stat., art. 19).

«Con il voto di castità assumono di nuovo e con rinnovato slancio gli impegni del celibato ecclesiastico, per aderire con cuore indiviso a Cristo Signore, nella piena donazione ministeriale alla Chiesa e nella testimonianza gioiosa della condizione futura» (Stat., art. 21).

«Con il voto di povertà si impegnano volontariamente ad una vita povera di fatto e di spirito, da condursi in operosa sobrietà, in modo conforme all’ideale evangelico e alle indicazioni ecclesiali circa l’utilizzo dei beni, e in comunione con le finalità sacerdotali della Congregazione» (Stat., art. 22).

Circa l’oggetto del voto di povertà, lo Statuto offre anche altre disposizioni miranti a far convivere le norme del Diritto proprio dell’Istituto con la condizione canonica di questi Sacerdoti incardinati in Diocesi (cf. Stat., art. 23).

In riferimento ai tre consigli evangelici, bisogna osservare come il Clero, specie nell’ambito dell’obbedienza e della povertà, ha larghi spazi lasciati alla propria discrezionalità e può quindi ridursi ad una pratica più superficiale di tali virtù. L’impegno associativo invece, tramite la maggiore ampiezza degli obblighi, può fungere da stimolo e da sostegno per una osservanza più radicale.

3d. La pratica della vita comune

Il secondo impegno proprio dei Diocesani FAM è quello relativo alla pratica della vita comune. Anche in questo caso, lo Statuto ne descrive i valori personali ed ecclesiali e ne fissa le forme concrete di attuazione:

«Attraverso la pratica della vita comune animata dalla carità, essi attestano il valore dell’intima fraternità sacerdotale che unisce i Ministri sacri e si pongono in condizione di superare più facilmente i pericoli dell’isolamento. / Così fomentano in modo concreto "una consuetudine di vita comune" tra il Clero, in vista dell’esempio che ne deriva ai fedeli e dei vantaggi apportati ai Sacerdoti: alimentare la vita spirituale e l’impegno ascetico; custodire e rafforzare la castità; curare la vita intellettuale e la formazione permanente; favorire la collaborazione nel ministero; ridurre le spese di sostentamento» (Stat., art. 9).

«Essi sono tenuti a instaurare la vita comune in una Casa della Congregazione; o, qualora la vicinanza lo permettesse, in comunità formate da Sacerdoti Diocesani con voti della stessa zona; oppure insieme ad uno o più Religiosi inviati a questo scopo presso le loro sedi. / In ognuno di questi casi ci si dovrà attenere, nello spirito e nella disciplina, a quanto il diritto proprio della Congregazione prescrive in riferimento alla comunità locale, alla sua organizzazione interna, agli atti comunitari e alla sua funzione apostolica a favore del Clero, nel rispetto della giusta autonomia richiesta dal ministero pastorale». (Stat., art. 25).

A norma di quest’ultimo articolo, la pratica comunitaria viene intesa secondo lo stile proprio dell’Istituto Religioso; e nelle tre modalità sopra elencate, essa diventa un impegno dal quale non ci si può esimere facilmente:

«(Essi), per quanto è possibile, debbono fare vita di comunità. / In forza di tale obbligo, il giudizio sui motivi validi o meno per esserne esentati non è lasciato al singolo Sacerdote, ma è riservato al Superiore Generale col voto consultivo del suo Consiglio, salva restando la facoltà per l’Ordinario Diocesano di disporre diversamente, a norma dell’art. 20…» (Stat., art. 24).

Solo questa concretezza di impegno può estendere tra il Clero la pratica di quella vita comune che – sovente – non solo non è ricercata ma è persino temuta, o quantomeno è subita passivamente quando non può essere evitata.

3e. L’esercizio della voce attiva e passiva

Ma la particolarità giuridica di questa proposta associativa destinata al Clero Diocesano è determinata soprattutto dalla possibilità di esercitare la voce attiva e passiva all’interno dello stesso Istituto Religioso:

«Questi sacerdoti hanno voce attiva in tutti gli adempimenti previsti dalle Costituzioni, come gli altri componenti della Congregazione…» (Stat., art. 31).

Godono invece di voce passiva a norma della seguente disposizione:

«Salva restando la propria condizione canonica e la prevalenza degli impegni diocesani, essi possono essere eletti o nominati, col consenso del proprio Vescovo Diocesano, a qualsiasi incarico interno all’Istituto, ad eccezione delle cariche di Superiore Maggiore e di eventuali altre mansioni che richiedessero un servizio a tempo pieno nella Congregazione» (Stat. Art. 31).

E’ evidente dunque che, se per la voce attiva il riconoscimento giuridico è stato completo, lo stesso non si può dire ancora per la voce passiva.

E sono proprio questi due aspetti della normativa che rendono il progetto sostanzialmente difforme dagli schemi ufficiali del Codice di Diritto Canonico: in altre parole, il ramo dei Diocesani non costituisce propriamente né un Istituto Secolare aggregato ai FAM (cf. CIC, cann. 710 ss.; 580), né un’Associazione propria dell’Istituto (cf. CIC, cann. 677, § 2; 303), anche se le analogie con queste due istituzioni sono più che evidenti.

Ma qui nasce subito una domanda relativa alla ratio legis, cioè alla logica profonda di una simile impostazione: come può un Sacerdote, formato e vissuto in Diocesi, operare negli organismi di partecipazione di un Istituto Religioso e arrivare persino a ricoprire cariche interne di governo (come postula la stessa Fondatrice), senza con ciò stesso snaturare la propria identità?

La risposta non dovrebbe essere difficile considerando la missione tipicamente sacerdotale di questo Istituto. A tal proposito, lo Statuto recita:

«(I Diocesani FAM), con l’esercizio dei diritti di voce attiva e passiva nella Congregazione…, esprimono la propria singolare appartenenza alla stessa, se ne rendono attivamente responsabili, e sono in grado di animarla dall’interno per un migliore espletamento del suo servizio ecclesiale» (Stat., art. 30).

Dunque, la corresponsabilizzazione crescente di questi Sacerdoti all’interno della Congregazione è un fattore non solo utile, ma persino indispensabile.

 

 

Conclusione

Se la Famiglia Religiosa fondata da Madre Speranza Alhama Valera riuscirà a svolgere bene l’incarico che la Divina Provvidenza le ha affidato a beneficio dei Ministri sacri, solo la storia della Chiesa sarà in grado di dirlo. Una cosa però appare certa fin da ora: che tale impegno non potrà essere affrontato senza la collaborazione diretta e qualificata del ramo dei Diocesani. Infatti:

«Il profondo inserimento di questi Sacerdoti Diocesani all’interno della Congregazione è espressione peculiare di quell’unione fraterna che i Figli dell’ Amore Misericordioso sono tenuti a perseguire nei confronti del Clero; allo stesso tempo, ne è anche strumento prezioso, per una più incisiva azione apostolica nel Presbiterio» (Cost., art. 20).

«Attraverso la comunione con i Confratelli Religiosi, (i Diocesani FAM) rendono visibile e, nello stesso tempo, facilitano la missione dell’Istituto a favore del Clero. E’ necessario quindi che tale unione spirituale, comunitaria ed apostolica, oltre che giuridica, sia da tutti sommamente perseguita, così da rendere la Congregazione una vera famiglia…» (Stat., art. 10).

Perché proprio questo è l’obiettivo principale che la Congregazione dei FAM si deve prefiggere, con la preziosa collaborazione delle Consorelle: diventare una famiglia per i Sacerdoti e fomentare lo spirito di famiglia tra i Sacerdoti.

Il compito è certamente nobile e in linea con le necessità della Chiesa. Che il Signore si degni di portare a compimento l’Opera che ha iniziato!