CON I SACERDOTI

SULLE ORME DI MADRE SPERANZA – 7

Sac. Angelo Spilla

Linee propositive per la strutturazione della Comunità dei Sacerdoti diocesani FAM

 

 

Edizioni Amore Misericordioso - dicembre 2007

 

Voi saprete…

C’è una ragione di fondo che richiama la necessità di vivere la dimensione comunionale tra presbiteri. Siamo inseriti nella Chiesa mistero, anzi la Chiesa comincia nel mistero e questo mistero è la Trinità nella sua condiscendenza verso l’uomo.

La Trinità è, innanzitutto, amore reciproco fra le Persone divine, è "inabitazione reciproca".

Questo "reciproco essere l’uno per l’altro" dalla teologia viene denominata "pericoresi". In origine pericoresi era il nome di una danza la cui caratteristica consisteva nella reciprocità del danzare: uno danza intorno all’altro, l’altro danza intorno a lui, in un costante e reciproco circondarsi.

L’immagine di questa danza esprime bene, dunque, la continua tensione reciproca che caratterizza la dinamica intratrinitaria dove la diversità asserisce se stessa non contraddicendo o negando l’altro, ma divenendo dono per l’espressione piena dell’altro.

Nella edificazione reciproca, poi, la diversità si compone nell’unità. Qui le differenze, infatti, non emergono per entrare in conflitto o per competere con l’altro ma per cooperare alla sua espressione e alla sua edificazione.

Sappiamo anche che il mistero della santissima Trinità non rimane chiuso in sé ma si comunica a noi mediante l’incarnazione e la redenzione del Figlio di Dio per mezzo dello Spirito Santo. Questo mistero diventa, quindi, il centro della chiamata e dell’essere dell’uomo e del cristiano in particolare. E la Chiesa inizia da questo mistero originario che è la Trinità: l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ce lo ha ricordato anche la Lumen Gentium quando dice che "la Chiesa è in Cristo come sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano"( n.1).

C’è da dire anche che questa unità della Trinità santissima non è soltanto la causa efficiente dell’unità della Chiesa, ma anche la forma di vita della Chiesa unita. Cristo invita la Chiesa a vivere lo stesso amore, lo stesso servizio e la stessa comunione che vi è fra le Persone divine. Lo ricorda pure San Paolo quando fa riferimento alla nostra comunione con Cristo: " La vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio". (Col 3,3). E Cristo ce lo aveva gia detto in riferimento alla sua stessa Pasqua: "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi" (Gv 14,20).

Noi dunque siamo inseriti in questo rapporto trinitario fra il Padre e il Figlio nello Spirito.

C’è poi un impegno a vivere la comunione non solo con la Trinità ma anche fra quelli che comunicano in essa. Ricordiamo particolarmente la preghiera sacerdotale di Gesù: ut unum sint. E ciò non era in riferimento solamente ai discepoli immediati (cfr Gv 17,11) ma anche a " quelli che per la loro parola crederanno" in Lui. Per questo Gesù prega ancora di più il Padre: " perchè siano perfetti nell’unità" (Gv 17,23).

Come la Trinità si comunica e trasmette la propria vita alla Chiesa cosi la Chiesa non può vivere al di fuori della vita trinitaria. Come la Chiesa si radica nella vita trinitaria così si comprende che la comunione non può essere fatta da noi. Perché è donazione del Padre al Figlio, è donazione del Figlio al Padre; il tutto mediante lo Spirito Santo. E’ donazione che anche noi in quanto inseriti in Cristo siamo chiamati a vivere.

Da questa ecclesiologia comunionale scaturisce una concezione del ministero ordinato anch’esso armonicamente inserito in un quadro unitario.

 

Talvolta dei solitari

Dopo la resurrezione di Cristo la nostra umanità non è più frammentata. Rimangono però indimenticabili, oltre che attuali, le parole pronunciate da Paolo VI rivolte ai sacerdoti: "Non siamo talvolta dei solitari in mezzo a una moltitudine che dovrebbe essere di fratelli e costituire una famiglia? Non preferiamo talora d’essere isolati, d’essere noi stessi distinti, diversi, ed anche separati, e forse anche dissociati, e perfino antagonisti, in mezzo alla nostra compagine ecclesiastica? Ci sentiamo davvero ministri solitari nel medesimo ministero di Cristo? È sempre viva fra noi un’affezione fraterna, che ci fa solleciti e lieti del bene dei nostri confratelli, e umilmente e santamente fieri della nostra vocazione fra le file del proprio presbiterio?".

Sono interrogativi assai inquietanti. E non toccano solo argomenti funzionali e psicologici a mio parere perchè il problema sta più a fondo. Ci sono ragioni teologiche che ci scuotono e ci fanno riflettere anche nel vissuto di relazioni esperienziali, pastorali e fraterne. Non siamo talvolta dei solitari? Come possiamo essere testimoni di un Dio d’amore nel nostro ministero sacerdotale se non sappiamo testimoniare questa forza d’amore?

Ritornando a parlare di Paolo VI vengono in mente quelle parole della sua enciclica Ecclesiam suam del 1964, scritta dunque ancora prima del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis dell’anno successivo, dove aveva esortato i cristiani ad avvicinarsi agli uomini del nostro tempo con spirito di dialogo e di condivisione della realtà del mondo: "Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri"(49).

È un invito che viene rivolto a tutti i cristiani ma risulta ancor più appropriato per il presbitero.

Il richiamo alla vita di comunione ci porta a guardare innanzitutto alla stessa esistenza cristiana che è infatti una ex-sistenza, cioè un’esistenza che esce da sé e che ci porta ad andare, a tendere oltre noi stessi. È la chiamata a raggiungere l’Altro, che è prima di tutto Dio stesso, fonte dell’amore, comunione di vita. Nello stesso tempo diviene invito ad andare agli altri, cioè dai nostri fratelli. E tutto questo noi sacerdoti lo viviamo nella partecipazione dell’unico sacerdozio di Cristo mediante la celebrazione eucaristica che è rendimento di grazia per eccellenza di tutta la Chiesa e questo avviene mentre il sacerdote agisce in persona Christi. Anche quando menzioniamo il nome del Papa e del proprio vescovo noi esprimiamo la stessa comunione con tutta la Chiesa.

Vale la pena ricordare anche che il presbitero è chiamato alla vita di comunione proprio per il fatto di essere stato chiamato da Cristo come gli apostoli per stare insieme con lui. Prima che fossero mandati ad annunciare la buona novella il loro primo compito fu quello di stare con Lui, con il Signore Gesù. E stavano insieme anche tra di loro apostoli. Hanno fatto una vita comune almeno certamente di tre anni.

C’è un dato di fatto importante che rimane fondamentale nella vita di ogni presbitero. Non è stata la decisione degli apostoli a rendersi tali quanto piuttosto la parola efficace di Gesù rivolta loro sotto forma di chiamata. Nel Vangelo di San Marco si legge infatti: "Egli li fece"(Mc 3.14) cioè li costituì suoi apostoli. Costituiti tali, stanno presso Gesù e in comunione con Lui. Solo dopo vengono inviati. C’è un raduno che precede l’invio. Meglio, questo invio è strettamente determinato dall’esperienza di comunione con il Maestro e che rimane costantemente. E la missione può essere fatta solo se vissuta nella comunione personale con Cristo.

Lo stesso vale per i presbiteri. C’è una chiamata per noi che è la comunione. Prima che ogni presbitero svolge il proprio compito ministeriale deve crescere con gli altri confratelli presbiteri nella comunione e nell’amicizia con Gesù. La solitudine e l’isolamento contraddicono con la chiamata al presbiterato perché la vita sacerdotale è vocazione alla comunione con Cristo che agisce ed è presente in noi.

C’è anche un altro elemento fondamentale ed ecclesiologico che dobbiamo ricordare. Il ministero sacerdotale permette alla Chiesa, quale corpo ecclesiale di Cristo, di vivere della partecipazione all’unico corpo eucaristico di Cristo. "Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (1 Cor 10,16-17). Permettiamo così, dunque, di diventare l’unico corpo ecclesiale che è propriamente la Chiesa di Cristo.

Scegliere l’amore, uscire dal proprio io, significa allora per il presbitero scegliere la speranza, scoprire che Cristo ci ha scelti prima di ogni nostro passo: " Non temere, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Io sono il Signore tuo Dio, tu sei prezioso ai miei occhi, e io ti amo ".

Il Vangelo poi ci assicura che le nostre fragilità possono diventare una porta attraverso la quale lo Spirito Santo entra nella nostra vita. Contribuiremo certamente a costruire nella famiglia umana una parabola di condivisione e così creare la comunione. Un nuovo modello di Chiesa, Chiesa comunione come ce lo ha regalato il Vaticano II, richiede un nuovo modello di ministero più a servizio della comunione. Un presbitero sempre meglio inserito in una rete fraterna di relazioni.

 

Un richiamo inquietante

Ho trovato assai interessante un libro di Dietrih Bonhoeffer dal titolo: Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere ( Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1996).

Tutti sappiamo che la vita del teologo protestante tedesco è stata segnata dalla testimonianza reale di un cristiano che ha dedicato la propria esistenza al prossimo e alla società in cui viveva. Il teologo esprime alcune riflessioni, ma soprattutto testimonia un coraggioso impegno in difesa della dignità umana, gravemente negata dalla follia tedesca. E precisamente dal carcere berlinese dove era stato imprigionato scrive "Resistenza e resa" in una lettera datata luglio 1944.

Bonhoeffer si pone un interrogativo di fondo così sintetizzato: Che cos’è per noi il cristianesimo?

L’autore parte da una considerazione e cioè che oggi non si può rispondere parlando agli uomini attraverso le "parole della religione" perché è passato il tempo in cui era possibile rivolgersi all’interiorità e alla coscienza dell’uomo. Andiamo incontro, infatti, a un "tempo completamente non religioso" e il nostro cristianesimo sembra essere del tutto scalzato.

Ci si chiede quindi come è possibile, in questo mondo ormai non religioso, vivere da cristiani? E come fare perché Cristo diventi il Signore anche dei non – religiosi?

È assai inquietante tutto il suo ragionamento. Offre la risposta nella riscoperta di Cristo in un’ottica di fede totalmente rinnovata: Dio si rivela nel "tu", nella relazione con l’altro e nella responsabilità verso di lui. Per Bonhoeffer, Dio non sta "al di là", dove vengono meno le capacità umane ma sta "al centro del villaggio", dove gli uomini si incontrano e si pongono in relazione fra loro. Dio, insomma, non si manifesta più nella sua rassicurante onnipotenza ma si nasconde nel misterioso silenzio della debolezza di Cristo e di ogni uomo che si incontra.

Da qui sorge la domanda sulla santità: quale modello di santità siamo chiamati a raggiungere dunque? Mutato il contesto storico e culturale, la misura della santità è data dal riconoscimento e dall’accoglienza dell’altro. E’ da questo esclusivo "esserci – per- altri", incarnato compiutamente da Cristo, che scaturisce la santità. Continua il teologo dicendo che non si può essere "uomini completi" da soli, ma unicamente insieme ad altri. Non si relega Dio "in qualche ultimo spazio segreto", ma lo si riconosce negli eventi della vita e soprattutto nella presenza ineludibile dell’altro.

Cosa ci fa diventare veramente cristiani dunque? "Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prendere parte alla sofferenza del mondo". E questo ci permette di continuare a vivere da cristiani in un mondo non religioso in quanto capaci di "essere – aldiquà" della vita, cioè capaci di essere – per- altri. Gesù Cristo ha testimoniato propriamente così. Nella misura in cui in noi c’è l’esserci – per- altri partecipiamo all’esserci stesso di Gesù.

Il trascendente non è l’irrangiungibile, il caotico, il lontano, "e neppure la greca forma divino-umana dell’uomo in sé; bensì ‘l’uomo per altri’ e perciò il crocifisso".

Ne scaturisce da tutto ciò una lezione: il cristiano è soltanto se esiste per altri.

Questa è la convinzione di questo teologo:"Essere cristiani non significa essere religioso in un determinato modo … ma il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo".

Il problema posto offre delle riflessioni anche nell’ambito della vita presbiterale e tocca quindi anche il tema della santità nostra.

Siamo chiamati a prendere parte alla sofferenza di Dio nella sofferenza del mondo, pur in mezzo a un mondo non più religioso. Nella misura in cui partecipiamo all’esserci – per- altri partecipiamo all’esserci stesso di Gesù.

Occorre che la vita presbiterale incarni, cioè, questo modello relazionale che Gesù propone e che ruota interamente attorno alla reciprocità. Ricordiamoci che Dio abita "al centro del villaggio".

Se è vero che la reciprocità nel riconoscimento e nell’accoglienza dell’altro, nel dono e nella comunicazione di sé, non solo apre un nuovo modo di stare insieme, di vivere con l’altro ma racchiude tutta la novità della relazione cristiana, intesa come incarnazione della relazione trinitaria, quanto più la spiritualità di comunione dovrebbe permeare la vita e la fraternità presbiterale.

Nella vita del presbitero deve trovare forza questo concetto. Oltre che per la testimonianza cristiana da portare agli altri fratelli, dobbiamo sentire il bisogno di una fraternità presbiterale propriamente come luogo di santificazione e di crescita nella comunione tra noi.

È in questo esserci per gli altri presbiteri che partecipiamo così all’esserci stesso di Gesù tra noi. Lì, cioè, sarà il luogo dove trova spazio la presenza di Cristo.

Non dimentichiamo pertanto quanto ci ha ricordato Giovanni Paolo II nella Novo Millennio ineunte, dove soprattutto sottolinea la necessità di promuovere una "spiritualità di comunione" che è capace di permeare la vita della Chiesa a tutti i livelli, compresi noi presbiteri. E nel caso nostro la comunione nascerà dalla capacità di sentire il confratello "come uno che mi appartiene, per saper condividere le sue gioie, le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia" (Novo Millennio ineunte, 43).

Ritengo che la via alla santità presbiterale non può fare a meno per noi della presenza dell’altro presbitero, è percorsa con quest’altro, in sua compagnia, insieme a lui e in comunione con lui, in un rapporto di piena e continua reciprocità.

 

Fraternità presbiterale, luogo di crescita

Si dice che gli uomini sono in grado di sopportare qualsiasi condizione, salvo quella di non essere importanti per qualcuno. E ciò avviene nel caso dell’isolamento, quando cioè si sperimenta di sentirsi senza legami significativi. Nessun uomo può vivere nell’isolamento. Fa soffrire tutto questo ancor più quando si verifica nei confronti dei presbiteri. Il miglior modo per non caderci o per uscirne eventualmente fuori sta propriamente nella relazione presbiterale.

Serve precisare però che isolamento non è solitudine. Infatti c’è una forma di solitudine che fa parte dell’esperienza di tutti ed è quindi un fattore normale, anzi è condizione indispensabile alla cura della vita interiore. C’è anche una solitudine che però nasce a volte da difficoltà varie. Il presbitero in quest’altro caso deve sapere che ci sono mezzi molto utili per superare gli effetti negativi della solitudine, soprattutto mediante una sincera partecipazione al presbiterio diocesano, intensificando una mutua collaborazione, praticando la vita fraterna tra presbiteri e vivendo anche una sana amicizia con quei laici che maggiormente si frequentano.

Oltre a questo, però, c’è quell’altra solitudine che risulta necessaria alla vita interiore. Anche Gesù si ritirava, spesso, da solo a pregare (Cfr. Mt 14,23). Questa solitudine ci immette nella presenza del Signore. Tutti sappiamo che Dio parla nel silenzio e questo diviene la forma essenziale della preghiera. Non segna un vuoto o un atteggiamento di divisione ma vicinanza, disponibilità, comunicazione, apertura verso l’altro. Si colloca, meglio, nel linguaggio dell’amore. Ed è nel silenzio che noi percepiamo Dio, così come è avvenuto al profeta Elia a cui Dio si rivolse sulla montagna nel "mormorio di un vento leggero" (1 Re 19,12). Dio, insomma, parla e cerca chi lo ascolta e ciò porta a un dialogo contemplativo.

Nella vita del presbitero si rendono necessari questi spazi e tempi di "deserto", anche quando a volte li consideriamo a discapito delle attività pastorali.

Ritornando a quanto detto, il miglior modo invece per uscire dall’isolamento consiste nella relazione presbiterale. Ci sono situazioni, problemi, difficoltà – non nascondiamo a dirlo – che un sacerdote può comunicare solamente ad un altro sacerdote. A volte addirittura lo si legge negli occhi. Ma non per dei fattacci successi, ma anche per problemi riguardanti la propria fede o semplicemente la propria stanchezza. Da chi andare? Gli altri, i laici, ci comprenderanno ma non in pieno e fino a che punto? Lo stesso vale anche per gli stessi nostri familiari. L’amicizia e la fraternità con i laici è certamente cosa buona ma non può mai supplire del tutto quella tra confratelli poiché con questi ultimi avviene una maggiore apertura e confidenza. Solo con un altro confratello, a volte, si può condividere una gioia, un’intuizione spirituale, il proprio stato d’animo così come con nessun altro. L’amicizia tra presbiteri è fondata sulla grazia dell’ordine. Il cuore di un sacerdote può comprenderlo soltanto un cuore di un altro sacerdote.

Trovo molto bello, a tal proposito, un mosaico del secolo XII che si trova nella navata sinistra della cappella palatina di Palermo. Testimonia in pieno il tema della fraternità sacramentale. Viene raffigurato l’incontro tra l’apostolo Pietro e l’apostolo Paolo. I due si abbracciano in modo fermo e tenero; guancia a guancia, con lo sguardo che non è un fissarsi reciproco, ma sembra il fissare un punto in comune. Il movimento delle braccia poi dice quell’accogliersi e sostenersi reciprocamente. C’è uno slancio silente e intenso da provocare un’emozione grande. Anche il movimento dei piedi porta l’uno ad incontrare l’altro senza creare distanze. Pietro, maestoso e sereno, coronato di bianco, appare quasi piegarsi un poco come se si trovasse su un trono, pronto a gettare le braccia attorno all’altro. Paolo, più giovane, pare slanciarsi a trattenere Pietro con una delicatezza particolare, quasi a volersi rimpicciolire ma con una sicurezza da donare. Un abbraccio che non ha nulla da nascondere o da insinuare perché dice un incontro vero e fraterno. Due santi diversi per doti umane e cultura che si ritrovano all’interno di un unico progetto che li supera.

Ecco come interpretare la fraternità presbiterale. Questa diviene così l’ambito dove possiamo parlare di noi stessi e non solo del lavoro come avviene tra colleghi. Può avvenire così che dopo ore e ore di lavoro pastorale portiamo all’altro presbitero quella particolare situazione per confrontarci e farne diventare preghiera. Oppure quando portiamo le nostre fatiche pastorali, i successi e gli insuccessi, la grazia che ha agito in noi o l’incomprensione e la delusione. Un laico li coglierebbe solamente sotto un altro aspetto piuttosto superficiale, oppure come uno sfogo; eppure quando è grande a volte la tentazione che ci fa credere che un laico vale di più di un presbitero. Così come nel caso di un adolescente quando rifiuta i propri genitori per confidarsi con un primo amico che incontra. Nella relazione presbiterale poi paure, fatiche, emozioni, sentimenti non diventano solamente miei, sono trasferiti all’altro e insieme vengono rivisti e restituiti alle loro dimensioni. Diventano addirittura preghiera. Abbiamo bisogno di condividere, anche emotivamente e non solo operativamente, i pesi e le fatiche del nostro apostolato e il primo riferimento non può che essere la fraternità presbiterale.

Quante volte abbiamo sperimentato di aver faticato invano, "abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla"(Lc 5,5). Come nel caso di San Pietro sentiamo dirci dal Maestro: "Prendi il largo e calate le reti per la pesca". E avendo preso una gran quantità di pesci chiama i compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Oltre a fidarci totalmente del Signore, ci sono anche i confratelli a darci una mano di aiuto. Senza dire poi quanto incide la relazione tra presbiteri sul proprio ministero pastorale. Quanto è necessario questo nella vita presbiterale tra confratelli. Quanto risulta utile l’aiuto dei soci, l’amicizia tra presbiteri.

C’è una ragione ancora più di fondo che ci richiama il bisogno della fraternità presbiterale. Nella Presbyterorum Ordinis ci viene ricordato che "tutti i presbiteri, assieme ai vescovi, partecipano in tal grado dello stesso e unico sacerdozio di Cristo, che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la comunione gerarchica dei presbiteri con l’ordine dei vescovi" (n.7).

La fratellanza sacerdotale porta quindi ad agire insieme, ad operare in comunione perché si arrivi a portare frutto nell’adempiere la missione affidata.

Sempre nello stesso documento ci viene infatti ricordato che "nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza unire la propria forza a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa" (n. 7).

Questo fondamento sacramentale della fratellanza sacerdotale si manifesta anche nella dimensione ecclesiale. Ne risulta condizione necessaria. Anche la Pastores dabo vobis sottolinea questa necessità: "La fisionomia del presbitero è quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell’ordine: una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti"(n. 74). E questo clima di famiglia tra presbiteri ci può portare anche alla correzione fraterna. Il discernimento comunitario, la revisione di vita, il progetto comunitario e la stessa correzione fraterna diventano idonei strumenti per fare in modo che la comunità diventi davvero tale.

Quanto poco edificante è sentire parlare male di un confratello alle spalle dell’interessato; se ne parla con tutti ad eccezione della persona a cui è diretta la questione.

Nella correzione fraterna, invece, avviene diversamente: c’è questa apertura perché c’è l’interessamento dell’altro, si sperimenta la carità anche se a volte dolorosa, ma soprattutto non si giudica la persona. Questa correzione fraterna risulta il rimedio più efficace alle inevitabili difficoltà che sorgono nell’esercizio della fraternità sacerdotale.

A tal proposito anche il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e uno dei più noti e tradotti teologi cattolici in campo internazionale, così si esprime:" L’esistenza da single di molti sacerdoti non corrisponde alla forma comunitaria di vita che è essenziale per la comunità dei discepoli di Gesù; essa non è una soluzione ragionevole e soprattutto non è una soluzione responsabile. E’ urgentemente necessario creare, partendo dal centro eucaristico, nuovi spazi vitali e nuove condizioni di vita per la forma spirituale di vita dei sacerdoti" (Servitori della gioia. Esistenza sacerdotale – servizio sacerdotale, Ed. Queriniana, Brescia 2007, 161).

Anche papa Benedetto XVI è ritornato su questo tema sottolineando l’importanza che la vita fraterna ha in chiave vocazionale:"E’ importante avere intorno a sé… delle comunità di sacerdoti che si aiutano, che stanno insieme in un cammino comune… Se i giovani vedono sacerdoti molto isolati, tristi, stanchi, pensano: se questo è il mio futuro allora non ce la faccio. Si deve creare realmente questa comunione di vita che dimostra ai giovani: sì, questo può essere un futuro anche per me, così si può vivere" (Incontro con il Clero di Aosta, 25/07/2005).

 

Madre Speranza ci ha creduto

Tanti e diversi sono gli aiuti messi a disposizione per una preziosa esperienza vitale per i presbiteri. Giovanni Paolo II sempre nell’esortazione apostolica Pastores dabo vobis ce li ha indicati. Tra questi certamente assai importante risulta il richiamo alla vita comune tra i presbiteri: "Tra questi ricordiamo le diverse forme di vita comune tra i sacerdoti, sempre presenti, anche se in modalità e intensità differenti, nella storia della Chiesa. Oggi non si può non raccomandarle, soprattutto tra coloro che vivono o sono impegnati pastoralmente nello stesso luogo. Oltre che a giovare alla vita e all’azione apostolica, questa vita comune del clero offre a tutti, compresbiteri e laici, un esempio luminoso di carità e di unità" (n. 81).

Una donna nella Chiesa ha avuto il dono di una specifica missione, quella di pensare ai presbiteri, anzi di fondare una Congregazione per essi e lei - questa donna - per questa missione si è consacrata vittima a Gesù.

Si tratta di Madre Speranza, una vita spesa per la santificazione dei presbiteri. I preti erano la sua passione. Forse - perché no - in ambedue i significati: perché affidati a lei dal buon Gesù nel custodirli e perché lei sapeva della fragilità e della miseria umana di questi, per cui necessitava tanto sacrificio e accettazione di dolore.

In una delle sue "distrazioni" spirituali, Madre Speranza così dice al buon Gesù:" Oggi, 24 dicembre 1941, sento il trasporto a rinnovare l’offerta come vittima di espiazione in riparazione delle offese dei sacerdoti del mondo intero, fatta il 24 dicembre 1927 ricordando quanto ha sofferto e fatto Gesù per tutti noi, l’amore che continuamente ci dimostra, la poca riconoscenza delle anime consacrate e le numerose offese che riceve dai suoi sacerdoti. Dio mio, quello che ti do per una sì grande riparazione è ben poca cosa, ma tu uniscila al tuo amore e alla tua misericordia e tutto sarà saldato".

Il richiamo di Madre Speranza è stato sempre quello di rinforzare la fraternità sacerdotale. Era lei sempre pronta a organizzare incontri, visite, tempi di preghiera e di riposo per i presbiteri. Premure, attenzioni, cure continue soprattutto per quei sacerdoti che risultavano immersi nell’attività apostolica solitaria illudendosi di portare più frutti. Il suo forte desiderio consisteva nel favorire la loro santità e l’unione tra i sacerdoti stessi. E ai suoi sacerdoti Madre Speranza non chiedeva di fare da maestri a questi altri sacerdoti ma di essere per loro veri fratelli aiutandoli più con le opere che con le parole. E trova per lei assai giusto il ricorso alla vita comune e fraterna. Madre Speranza desiderava vedere i presbiteri "fare famiglia", vivendo cioè tra loro insieme e aiutandosi fraternamente nella propria santificazione e nel ministero pastorale.

E per i sacerdoti lei continuava a pregare tanto da sentirsi così piccola quando diceva di non saper corrispondere pienamente alla grazia che lei chiedeva in favore dei sacerdoti. Scriverà così, ancora una volta, nel suo diario il 25 marzo 1944: "Quanto poco ti ho imitato, Gesù mio, anche se affermo di volerti amare tanto, tanto! Dov’è il mio amore? Eppure tante volte ti dico di voler soffrire in riparazione delle offese che ricevi dai poveri sacerdoti del mondo intero, quando invece non sono capace di accettare con gioia le sofferenze che tu mi mandi!".

Ma soprattutto la troviamo pronta quando lei scrive, appena nove mesi dopo la fondazione della Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso: "Oggi, 9 maggio 1952, ricevo l’ordine di sistemare le Costituzioni dei Figli dell’Amore Misericordioso inserendovi quanto si riferisce al clero secolare".

Sarà poi l’8 dicembre 1954 quando nella cappella dei Figli dell’Amore Misericordioso della casa di Fermo emettono i loro primi voti i primi due sacerdoti del clero diocesano: don Luigi Leonardi e don Lucio Marinozzi.

È anche interessante quanto ha riferito in una sua testimonianza Padre Arsenio Ambrogi ricordando anche i giorni che precedettero questo momento della professione. E si riferisce a qualche settimana prima dell’Immacolata di quell’anno: "La Madre Fondatrice che si trovava a Fermo si ammala gravemente al punto di credere che per lei è giunta l’ora della morte. Ci convoca attorno al suo letto e ci dice cose che si sono incise profondamente nel mio animo. Sono presenti i due sacerdoti che dovranno per primi emettere i santi voti nelle mani dell’arcivescovo Perini, il giorno dell’Immacolata. Essi sono di intesa con la Madre di andare a Loreto per un corso di esercizi spirituali in preparazione a questo evento. La Madre li esorta a prepararsi bene presso quella Santa Casa dove il Verbo di Dio si fece carne: E poi prosegue:‘Figlioli, dovevo dirvi una cosa molto importante. Secondo Nostro Signore non serviva una Congregazione di più. Ce ne sono già tante (e ne fa una enumerazione per le varie necessità della Chiesa). Ne mancava una per il suo amato Clero. Ricordate, presto verranno giorni che il Clero secolare, solo com’è non potrà più vivere. Tutti si uniscono: i comunisti, i socialisti… solo il Clero secolare e i Religiosi sono così divisi! E il Signore ha fatto sorgere questa Famiglia Religiosa perché il sacerdote secolare vi trovi la propria famiglia’. Ci fu una pausa carica di silenzio e poi con voce forte riprese:‘E Dio la disfaccia sul nascere se non dovesse servire per questo’".

Il richiamo della Madre è stato forte:" Verranno giorni che il clero secolare, solo com’è non potrà più vivere".

E noi abbiamo assistito come Dio porta a compimento la sua opera tanto che la Chiesa ha dato l’approvazione ecclesiastica a questo carisma in favore dei sacerdoti.

Il 26 maggio del 2005 c’è stata quindi l’approvazione definitiva del nuovo ramo per la Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso: i sacerdoti diocesani con voti.

 

Segno di vitalità

Un nuovo modo di appartenenza non solo alla medesima Congregazione FAM ma nuova nella sua forma giuridica per la vita religiosa stessa. Anche nuova perché, credo, non ci sono state altre forme simili di approvazione da parte dell’autorità ecclesiastica. Ne stanno sorgendo però di altre con le difficoltà e le perplessità che ne derivano; queste potranno venire superate con la prova del tempo ma soprattutto quando si avrà la certezza che sono state suscitate dallo Spirito Santo, e sarà la Chiesa stessa, come nel caso dei sacerdoti diocesani con voti, a darne l’approvazione.

Lo Statuto dei sacerdoti diocesani con voti riporta sei articoli sulla vita di comunità (Artt. 24-29). Costituiscono una sfida spirituale ed ecclesiale. C’è una consapevolezza: motivazioni teologiche, ecclesiologiche, pastorali ed umane suggeriscono al presbitero di oggi la pratica della vita comune. E Madre Speranza ha intuito tutto ciò facendosene apostola in questo senso. Lei sa che la comunità è un luogo di crescita radicato nella dinamica dei gruppi ed è una testimonianza concreta in un luogo concreto nello spazio e nel tempo. Sa che la vita comunitaria ci apre all’accoglienza della diversità e all’approfondimento paziente del dialogo e dell’incontro. Che costituisce per noi un invito a superare l’individualismo e a rompere il cerchio della paura dell’altro e delle differenze. Sa anche che i sacerdoti diocesani FAM hanno un obiettivo che accomuna.

Lo sappiamo anche noi con l’approvazione dello Statuto. Secondo modalità proprie e in maniera compatibile con gli impegni diocesani questi sacerdoti diocesani con voti " sono chiamati a perseguire le stesse finalità della Congregazione, ... sono chiamati innanzitutto ad annunciare la pienezza di bontà di Dio Padre, il quale ama tutti i suoi figli e li vuole rendere felici, … debbono tendere con rinnovato impegno alla propria santificazione, così da conseguire una maggiore armonia tra vita interiore ed azione apostolica, al fine di operare più efficacemente per il bene delle persone loro affidate e per l’edificazione della Chiesa, … a perseguire con particolare interesse il fine primario della Congregazione, a norma delle Costituzioni, operando per l’unità del clero diocesano e la sua santificazione, … ad incarnare nel proprio ministero la particolare sollecitudine dell’Amore Misericordioso" (Statuto, artt.2-6).

E vorrei concludere con una famosa affermazione del teologo Karl Rahner, secondo cui il cristiano di domani o sarà un mistico o non sarà. L’esperienza mistica di Dio alla quale allude è quella che può fare solo chi ama l’altro, il suo prossimo. "Penso – afferma Rahner – che in una spiritualità del futuro l’elemento della comunione fraterna, d’una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada" (Elementi di una spiritualità nella Chiesa del futuro, in: AA.VV., Problemi e prospettive di spiritualità, Ed. Queriniana, Brescia 1983, 440-441).

Una vita di comunione, interamente originaria e alimentata dall’amore reciproco, costituisce di certo la via alla santità per noi presbiteri del nuovo millennio, capaci di testimoniare Cristo ad un mondo ormai divenuto non religioso.

È il richiamo alla santità di comunione che noi sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso siamo chiamati ad incarnare coerenti con il nostro carisma.

Tutto questo, a norma dell’articolo 24 dello stesso Statuto che dice: "I sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso, per quanto è possibile, debbono fare vita di comunità".

Madre Speranza fa risuonare con forza e chiarezza questa chiamata per i sacerdoti diocesani con voti. È l’esortazione alla Koinonìa, che non può che essere il riflesso della koinonìa intra-trinitaria.

È l’augurio, ancora una volta, alla santità come profezia del vivere insieme.