CON I SACERDOTI
SULLE ORME DI MADRE SPERANZA – 8

Sac. Angelo Spilla

XV Assemblea SDFAM e Delegazione FAM d’Italia IL PADRE NOSTRO (Lc 11,1-13):
MODELLO DI PREGHIERA DEI SDFAM-FAM
(cf Costituzioni FAM, art. 50-61)
Collevalenza 10-14 novembre 2014

Il Padre Nostro e l’affettività nella vita del presbitero

Collevalenza, 13 novembre 2014

Edizioni "L'Amore Misericordioso" - dicembre 2014

"Insegnaci a pregare"

Quando immagino il momento in cui gli apostoli hanno chiesto a Gesù di insegnare loro a pregare, specificando che anche Giovanni Battista aveva fatto lo stesso, penso che questa richiesta non fosse tanto dettata dal fatto che Giovanni lo aveva fatto. Stavano chiedendo ciò perché loro stessi venivano attratti dal modo come Gesù pregava il Padre; lo vedevano frequentemente pregare rivolgendosi al Padre; notavano che c’era un forte e profondo dialogo tra Gesù e il Padre celeste. Tanti i riferimenti, tanti i gesti, tante volte, insomma, in cui Gesù si trova in preghiera e ciò desta ammirazione, commozione e desiderio. Penso che questa richiesta scaturisca propriamente da questo suo stile di vita. E ciò è possibile chiederlo, a loro stesso giudizio, per il fatto che anche Giovanni Battista lo aveva già fatto nei confronti dei suoi discepoli. Gli apostoli quindi chiedono: "insegnaci a pregare"; quasi a dire: "come fai Tu"; "facci partecipi di questo dono, anche Giovanni lo ha fatto".

Mi sembra, quindi, che la richiesta degli apostoli non venga tanto dal fatto che i discepoli di Giovanni lo facciano ma perché vengono contagiati da Gesù stesso; perché vedono che Gesù prega.

È qualcosa di meraviglioso questo, perché notiamo subito che la preghiera contagia. Gesù è affascinante nel vederlo pregare, nel volere compiere in tutto e per tutto la volontà del Padre, consacrarsi a Lui, vivere in stretta comunione con Lui: "Come io e Te".

È da qui che nasce il desiderio della preghiera, di ogni preghiera cristiana, della preghiera del presbitero, di ogni consacrato.

Gesù esaudisce; fa nascere il desiderio e risponde alla richiesta; ci consegna in dono la preghiera del "Padre Nostro". Non è qualcosa di suo, esclusivo, per cui gli altri ne devono essere esclusi, qualcosa che mantiene in segreto per sé. Anzi, ci fa partecipi di questa preghiera e ce la consegna: "Quando pregate, dite…".

Occorre ricordarci però che nel vangelo troviamo la preghiera del Padre Nostro in due forme leggermente diverse: in Matteo e in Luca.

La versione di Matteo (Mt 6, 9-13) è di tenore più ebraico; appare nel contesto del Discorso della Montagna: Gesù aveva già iniziato la sua vita pubblica e, per il fatto di essere un predicatore già conosciuto, raccolse molta gente disposta a ricevere i suoi insegnamenti. Decise dunque di salire su un monte perché tutti potessero sentirlo, e da qui pronunciò, secondo Matteo, un discorso che riunisce molti dei passaggi salienti di tutta la sua predicazione: le beatitudini (Mt 5,1-12), il confronto dei discepoli con la luce del mondo (Mt 5,14-16), le sue posizioni sulla Legge di Mosè (Mt 5,17-20) e i suoi commenti ai comandamenti (Mt 5,21-37). Il contesto in cui Gesù espose il Padre Nostro è in risposta a coloro – sia giudei sia gentili – che hanno convertito la preghiera, come anche la carità, in un atto meramente esteriore (Mt 6. 5-8). Gesù raccomanda di pregare in segreto e con semplicità, ed offre il Padre Nostro ai suoi come esempio di preghiera con la quale rivolgersi al Padre.

In Luca, invece, il testo della preghiera viene inserito in un contesto diverso: l’evangelista racconta infatti (cfr. Lc 11, 1-4) che, dopo che Gesù ebbe finito di pregare in un luogo, uno dei suoi discepoli gli chiese di insegnar loro a pregare, ed Egli dunque pronunciò il Padre Nostro.

Luca racconta che uno dei discepoli chiese a Gesù di insegnar loro a pregare subito dopo un suo momento di preghiera personale. In Matteo non si legge della richiesta del discepolo, ma fu iniziativa di Gesù l’insegnamento del Padre Nostro.

Le differenze fra le due versioni sono le seguenti:

  • L’invocazione: Luca invoca Dio solo come "Padre", mentre Matteo come "Padre nostro che sei nei cieli";

  • In Luca non c’è la richiesta della realizzazione della volontà di Dio sulla terra come in cielo;

  • In Luca non si menziona l’invocazione finale "liberaci dal male / Maligno".

  • Luca usa "peccati" invece del più giuridico "debiti".

Fatte queste precisazioni, consideriamo insieme questi due contesti proponendoci di rivisitare la nostra vita di presbiteri alla luce di questa preghiera che Gesù ci ha consegnato, soprattutto considerando il tema dell’affettività nella nostra vita di presbiteri. Non ci sfugga, però, il contesto lucano per sottolineare che tale richiesta viene fatta da qualcuno dei discepoli. Come ogni mattina noi presbiteri iniziamo la nostra giornata invitati dallo stesso Gesù a rivolgerci a Dio con quella stessa confidenza.

Alla domanda fatta, Gesù risponde con la consegna del Padre Nostro che è diventata così la preghiera della Chiesa, la preghiera cristiana per eccellenza, l’unica insegnataci direttamente dal Maestro, la preghiera più importante della Liturgia delle Ore; il vertice della preghiera cristiana che non ha uguali, la sintesi del Vangelo, la preghiera essenziale, semplice e completa, fondante, che nutre l’anima e che ci spalanca il mistero della vita divina.

 

 

1. "Padre nostro": identità della persona frutto di una relazionalità profonda ispirata al modello trinitario

Con questa preghiera Gesù ci ha detto che, diversamente da come ci comporteremmo di fronte a qualsiasi autorità di questo mondo, qui con Dio, invece, usiamo la massima confidenza.

Riconosciamo da un lato che invocarlo come Padre e quindi considerarci figli è un privilegio immeritato ma dall’altro non possiamo rifiutare il dono offertoci gratuitamente da Dio e chiuderci nel nostro imbarazzo, più che motivato. Chiamarlo cioè Padre non è imprudenza o sfacciataggine perché è Dio stesso che vuole così. Ha mandato in terra Cristo Gesù perché gli uomini potessero considerarlo Padre ed essere realmente suoi figli (cfr. Ef 2, 18-22).

Pensiamo come Dio ama la nostra confidenza, questo nostro semplice balbettare. È lo Spirito Santo che ci fa superare questo imbarazzo, la paura, e ci insegna a sentirci figli. San Paolo ce lo ricorda: "Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà! Padre!’" (Rm 8,15). Siamo figli perché siamo divenuti partecipi di Cristo (cfr. Eb 3, 1.14). Anche noi in Lui siamo figli.

 

Per dare importanza al Suo progetto su di noi

Se poi guardiamo la costruzione del "Pater" nella prima parte troviamo per tre volte "tuo", "tua", mentre nella seconda parte ancora per tre volte "nostro", "nostri". Si inizia facendo attenzione a ciò che Dio ci vuole dare, il suo dono, per poi passare alle nostre necessità. O meglio ancora, non tanto ciò che Dio abbia bisogno per sé quanto piuttosto noi che dovremmo dare più importanza al dono che Egli ci vuole fare, piuttosto che alle nostre richieste. È più opportuno dare importanza al suo progetto su di noi anziché dare spazio alle nostre aspettative.

Vedo in ciò un richiamo alla nostra vita di presbiteri. È così che noi ci presentiamo al Padre. Anche noi chiamati dal Signore a partecipare alla sua opera salvifica sentiamo questo bisogno di relazionarci con il Padre celeste; sentiamo di dover condividere la nostra vita a servizio del Vangelo proprio perché chiamati a partecipare all’unico sacerdozio del Cristo. E questo ci porta a chiedere il dono della preghiera, a riscoprirci figli nel Figlio, sacerdoti nell’unico sacerdozio del Suo Figlio, ministri della sua Parola e dispensatori dei divini sacramenti.

Come gli apostoli ci rivolgiamo a Cristo e gli chiediamo: "insegnaci a pregare… per essere presbiteri credibili, uomini del cuore secondo il modello di Cristo".

Ed è per questo che rimanendo a meditare la preghiera di Gesù, la rivediamo come preghiera del presbitero, come di chi si affida con confidenza al Padre celeste, da veri figli, con la stessa fiducia che ha Gesù verso il Padre, perché sappiamo compiere in noi la Sua volontà, che ci sappiamo spendere per il bene dei fratelli, che sentiamo forte i beni salvifici del Regno. Per questo ci consideriamo quindi figli con un amore sacerdotale autentico che è la capacità di crescere nell’amore di Dio lungo il cammino della propria esistenza. Tutto questo partendo dalla nostra umanità.

 

Un’identità essenzialmente relazionale

Proprio per questo, alla luce del Padre Nostro, un richiamo alla nostra identità, alla nostra missione, al ministero che ci viene affidato soprattutto considerando la nostra umanità e la vita affettiva. Ci dobbiamo chiedere, insomma, con quale identità viviamo questa missione sacerdotale?

L’identità della persona è alla base della crescita personale e del progetto di vita. Essa riguarda il senso del proprio essere che si rafforza e si distingue con le caratteristiche di ognuno. L’identità è anche una costruzione della memoria psichica dell’individuo, che cresce e si rafforza con il procedere del tempo attraverso le relazioni importanti che egli sviluppa nella sua vita. Anche nella missione sacerdotale c’è un’identità da riconoscere e da accrescere attraverso le relazioni con Dio e con gli altri. Un’identità che è frutto di una relazionalità profonda ispirata al modello trinitario ed espressa in una fraternità concretamente vissuta nella propria chiesa di appartenenza. È una identità essenzialmente "relazionale", che risponde al bisogno di consistenza psicologica ed esistenziale di ogni chiamato, così come ce lo ricorda la "Pastores dabo vobis" di Giovanni Paolo II (n.12). Questo bisogno di identità autentica si riflette nello stile di vita e nel cammino di fede della nostra vita sacerdotale, e prende corpo nelle modalità di azione che assumiamo, con cui ci muoviamo verso la meta della santità. C’è però una condizione fondamentale, perché questo stile di vita sia coerente con l’ideale vocazionale, ed è la capacità di lasciarsi modellare da colui che è esempio di amore e di altruismo autentico. Infatti, il sacerdote può affrontare le diverse situazioni pastorali, può dedicarsi con generosità e abnegazione per le persone, può anche rischiare di vivere condizioni di stress e di stanchezza emotiva per il lavoro che fa, ma a condizione che sia docile agli insegnamenti dello Spirito di Cristo (cfr. PO, 12). Possiamo cioè essere dono totale per gli altri, nella misura in cui ci lasciamo trasformare e sfamare da Gesù, fonte di amore e maestro di dedizione.

Tale identità è alimentata dalla stessa cura pastorale dei fedeli, perché è nella dedizione ai fratelli che possiamo realizzare la propria vocazione, con l’autorevole testimonianza della parola e «con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei "dolori del parto" finché "Cristo non sia formato" nei fedeli» (Pastores dabo vobis, 22). Mentre guida il gregge che gli è affidato verso l’unità di Cristo,

«egli può avvicinarsi più efficacemente alla perfezione di colui del quale è rappresentante» (PO, 12), rendendo sempre più trasparente il proprio cammino di maturazione spirituale e la propria risposta vocazionale.

Un presbitero che si dedica al lavoro pastorale ha già fatto la scelta di disponibilità totale alla sequela di Gesù Cristo, che lo impegna a conformarsi a lui dedicandosi con amore ubbidiente ai fratelli che ci vengono affidati nella cura pastorale. Questa scelta di vita, però, siamo chiamati a rinnovarla lungo il cammino di maturazione umano-spirituale, per aderire con libertà e fermezza alla chiamata di Dio.

«Perché il suo ministero sia umanamente il più credibile e accettabile, occorre che il sacerdote plasmi la sua personalità umana in modo da renderla ponte e non ostacolo per gli altri nell’incontro con Gesù Cristo Redentore dell’uomo» (Pastores dabo vobis, 43). La sua vocazione, quindi, comporta questo compito di trasformazione e di conversione personale, che si traduce in una continua fedeltà a una spiritualità di dedizione che sia per il bene della chiesa e sulle orme del buon Pastore. Ciò implica un cambiamento del cuore e della mente, per integrare la chiamata divina con la propria realtà umana ed esistenziale, in modo da vivere il servizio del proprio ministero come un’autentica testimonianza di carità (cfr. Pastores dabo vobis, 45). Essere fedeli all’amore di Cristo vuol dire curare la propria capacità di amare ma anche prendere sul serio il processo di crescita permanente inteso come metodo di vita che aiuta a essere docili alla voce dello Spirito, per imparare dal Vangelo l’arte della dedizione totale agli altri. Rivolgerci a Dio chiamandolo "Padre" significa per noi rivestirci degli stessi sentimenti di Gesù, così come lui amava rapportarsi al Padre, per essere dono totale per gli altri, nella misura in cui ci lasciamo trasformare e sfamare da Gesù, fonte di amore e maestro di dedizione.

Invocando Dio con l’appellativo di Padre non solo ci sentiamo strettamente uniti alla missione di Cristo ma scopriamo che abbiamo dei fratelli e delle sorelle che, come noi, fanno esperienza della tenerezza e dell’amore misericordioso di Dio. La solitudine nega la nostra natura profonda, perché deforma la nostra identità. Dio, creandoci, ci ha pensato in relazione. La nostra è una chiamata alla relazionalità ispirata al modello trinitario.

 

 

2. "Sia fatta la tua volontà": il celibato per il regno dei cieli

Gesù vuole che preghiamo il Padre chiedendo che sia fatta la sua volontà. La volontà del Padre è che "tutti gli uomini siano salvati" (1 Tm 2,3). Per questo Gesù è venuto: per compiere perfettamente la volontà salvifica del Padre. Noi chiediamo al Padre di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo; domandiamo che il suo disegno benevolo si realizzi pienamente sulla terra come già nel cielo. Se abbiamo ricevuto il dono del sacerdozio è in questo che ci dobbiamo impegnare, conformati a Cristo sacerdote. Pur vivendo nel mondo, viviamo in riferimento al mondo "altro" e ne anticipiamo nell’"oggi" il destino.

 

Una vocazione all’amore nella forma del celibato

Questa vocazione la esercitiamo come Gesù: una vocazione all’amore nella forma del celibato.

Sappiamo che la santità della Chiesa è in modo speciale favorita dai molteplici consigli di cui il Signore nel vangelo propone l’osservanza ai suoi discepoli. Tra essi eccelle questo prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni (cf. Mt 19, 11; 1 Cor 7, 7) di votarsi a Dio solo più facilmente e con un cuore senza divisioni (cf. 1 Cor 7, 32-34) nella verginità e nel celibato. Questa perfetta continenza per il regno dei cieli è sempre stata tenuta in singolare onore dalla Chiesa, come un segno e uno stimolo della carità e come una speciale sorgente di spirituale fecondità nel mondo (cfr. LG, 42).

I padri del Vaticano II dichiarano che " i presbiteri del Nuovo Testamento, in forza della propria chiamata e della propria ordinazione, sono in un certo modo segregati in seno al popolo di Dio; ma non per rimanere separati da questo popolo o da qualsiasi uomo, bensì per consacrarsi interamente all’opera per la quale il Signore li assume. Avendo ricevuto una nuova consacrazione a Dio mediante l’ordinazione, essi vengono elevati alla condizione di ministri di Cristo, eterno Sacerdote, per proseguire nel tempo la sua mirabile opera, che ha reintegrato con divina efficacia l’intero genere umano. Da ciò consegue che essi non potrebbero essere ministri di Cristo se non fossero testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena; ma non potrebbero nemmeno servire gli uomini se si estraniassero dalla loro vita e dal loro ambiente" (PO, 3). Vale ancora sempre il grande principio, enunciato da Cristo: essere nel mondo, ma non del mondo; perciò Egli prega ancor sempre il Padre:

«Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno» (Gv 17, 15). In senso positivo questa preghiera vuol dire che noi sacerdoti siamo specialmente obbligati a tendere alla perfezione del Padre celeste. La castità è così una virtù che dispone noi presbiteri a diventare quell’uomo maturo al livello di statura che attua la pienezza del Cristo (cfr Ef 4, 13).

Il sacerdozio ministeriale è una vocazione all’amore, dunque, di una persona che rinuncia alla sua forma coniugale per vivere la sua sessualità nella forma del celibe. Il Concilio Ecumenico Vaticano II dichiara: «certo la verginità non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta dalla prassi della Chiesa primitiva e dalla tradizione delle Chiese Orientali» (PO, 13); tuttavia, lo stesso Concilio non ha dubitato a confermare solennemente l’antica, sacra, provvidenziale vigente legge del celibato sacerdotale, esponendo anche i motivi che la giustificano per quanti sanno apprezzare in spirito di fede e con intimo e generoso fervore i doni divini» (Paolo VI, Celibato sacerdotale, 1967).

In effetti, il celibato ha molteplici rapporti di convenienza con il sacerdozio. Anzitutto, la missione sacerdotale è tutta dedicata al servizio della nuova umanità che Cristo, vincitore della morte, suscita nel mondo con il suo Spirito, e che deriva la propria origine «non dal sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma da Dio» (Gv 1, 13). Ora, con la verginità o il celibato osservato per il regno dei cieli (cfr. Mt 19, 12), i presbiteri si consacrano a Cristo con un nuovo ed eccelso titolo, aderiscono più facilmente a lui con un cuore non diviso (cfr. 1 Cor. 2, 32-34), si dedicano più liberamente in lui e per lui al servizio di Dio e degli uomini, servono più prontamente il suo regno e la sua opera di rigenerazione divina, e in tal modo si dispongono meglio a ricevere una più ampia paternità in Cristo ( cfr PO, 16).

Interessa sottolineare come il dono divino del celibato denota, prima di tutto, una particolare consacrazione di tutta la persona del presbitero alla Persona di Cristo, che consiste in una più facile adesione indivisa e capacita il presbitero di dedicarsi con libertà in e per Cristo al servizio del Padre e degli uomini. Essa abilita il presbitero non solo a servire più prontamente, con un cuore indiviso, il regno di Cristo e la sua opera di rigenerazione, ma lo dispone anche ad una maggiore paternità in Cristo.

Viene da chiedersi ancora cosa c’è di specifico nella vocazione all’amore celibe del presbitero? La Congregazione per l’Educazione Cattolica insegna dicendo che il celibato del presbitero implica certamente «la rinuncia alla forma di amore tipica del matrimonio, ma la sua rinuncia è compiuta allo scopo di assumere più in profondità il dinamismo, insito nella sessualità, di apertura oblativa agli altri e di potenziarlo e trasfigurarlo mediante la presenza dello Spirito, il quale insegna ad amare il Padre e i fratelli come il Signore Gesù. Ecco perché la vita psico-affettiva, propria di ciascuna persona sessuata, si esprime in modo caratteristico nei diversi stati di vita: l’unione dei coniugi, il celibato consacrato scelto per il Regno, la condizione del cristiano che non ha raggiunto il momento dell’impegno matrimoniale o perché rimane tuttora celibe, o perché ha scelto di conservarsi tale. In tutti i casi questa vita psico-affettiva deve essere accolta e integrata nella persona umana" (Congregazione per l’Educazione Cattolica, Orientamenti educativi sull’amore umano. Lineamenti di educazione sessuale, 1983, 33). Con questa precisazione sulla accoglienza e la integrazione differenziata della vita psico-affettiva per ogni persona chiamata all’amore, siamo giunti alla vocazione alla castità come cammino verso la completa maturazione psico-affettiva di tutti e specialmente del presbitero.

 

In Persona Christi

Per capire più a fondo l’importanza del celibato nella vita del presbitero che agisce in Persona Christi, dobbiamo tener presente che Cristo, Figlio unico del Padre, in piena armonia con la sua missione di Mediatore tra il cielo e la terra, rimase per tutta la sua vita nello stato di verginità per significare la sua totale dedizione al servizio del Padre e degli uomini. Il mistero della novità per coloro che sono chiamati a partecipare alla missione di Cristo, unico Mediatore ed Eterno Sommo Sacerdote, comporta una libertà da vincoli di carne e sangue.

La vocazione all’amore da parte di un presbitero si concreta così nella scelta della verginità, con l’intento di partecipare non soltanto all’ufficio sacerdotale del Signore Gesù, ma anche di dividere con Lui lo stesso stato di vita. La risposta alla divina vocazione del presbitero celibe è, dunque, una risposta di amore all’amore che Cristo ci ha dimostrato in maniera sublime. Ciò spiega perché esiste un nesso tra celibato e sacerdozio e perché la grazia del sacramento dell’Ordine moltiplica, con forza divina, le esigenze dell’amore, rendendolo, quando è autentico, totale, esclusivo, stabile e perenne, irresistibile a tutti gli egoismi. Ora, proprio queste proprietà dell’amore sono frutti della educazione alla castità, per cui questa è il cammino che abilita il presbitero a realizzare completamente la sua divina vocazione di partecipare all’amore sacerdotale di Gesù Cristo. La virtù della castità, infatti, è una disposizione abituale e ferma dell’integrità della persona e dell’integralità del dono di sé.

Ricordiamoci comunque che la scelta celibataria rientra sì in una logica di privazione, ma non di coartazione. Il celibe porta la ferita della solitudine, rinuncia all’esercizio della genitalità, ma non è un impotente. Nella sua prima enciclica, Deus caritas est, papa Benedetto XVI ha ricordato la connessione tra l’eros inteso come amore mondano e la caritas intesa come amore che viene da Dio. Se il primo «inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente fascinazione per la grande promessa di felicità nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà "esserci per" l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono» (n. 7).

Poiché la grazia suppone la natura, l’amore trascendente ha bisogno di radicarsi in una capacità di amore umano nel quale entra a pieno titolo anche la sessualità. Colui che intraprende un cammino celibatario è chiamato a rispettare l’invito del Signore: non è celibe per patologia, né lo diventa per azioni provocate dagli uomini, ma soltanto in una prospettiva di libertà che richiede la maggiore responsabilità possibile. Resta nel presbitero, come nei consacrati, la pulsione sessuale, la libido, che nella prospettiva cristiana non può essere sublimata. Freud amava invece parlare di "sublimazione", intendendo con essa la canalizzazione della libido verso obiettivi socialmente accettabili; essa sarebbe perciò una sorta di spostamento dell’energia sessuale, che conserverebbe la propria caratteristica, ma verrebbe orientata ad altro oggetto. Questo tipo di visione, difficile da conciliare con la prospettiva cristiana, suppone che non esistano altre energie all’infuori di quelle sessuali; che l’amore coniugale stesso non possa essere in vista di un arricchimento della coppia, ma soltanto il contenitore degli impulsi reciproci; e che i valori non possano essere preminenti e determinanti nelle scelte, ma sarebbero semplicemente un rivestimento della dimensione sessuale. Il celibato è invece una scelta volontaria, ispirata da una dimensione valoriale.

La sessualità, implicata e legata al celibato, non va tuttavia ridotta alla genitalità. Essa abbraccia l’intera persona, soprattutto nella sua dimensione oblativa. Qui entrano in gioco due ambiti antropologicamente rilevanti: l’affettività e la relazionalità.

Ed è qui che propriamente tocchiamo il tema propostoci.

 

La vita affettiva nel presbitero

Lo sviluppo affettivo di una persona è la linea evolutiva più complicata da descrivere e da studiare. Le emozioni sono un’esperienza molto complessa, che si colloca a un livello intermedio tra l’organismo e l’ambiente. In generale, l’emozione è una situazione di allontanamento dallo stato di quiete dell’organismo, con una serie di cambiamenti:

  • a livello fisiologico: entrano in gioco il sistema nervoso centrale (non volontario) e il sistema endocrino (che ha a che fare con i livelli di stress ed ansia);

  • a livello cognitivo: la valutazione cognitiva attribuisce agli oggetti e alle persone dei significati, che poi generano reazioni nel soggetto;

  • a livello motivazionale in quanto gli eventi richiedono dalla persona una reazione di fronte a ciò che ha generato un’emozione;

  • infine a livello espressivo-comunicativo: ogni emozione fondamentale presenta una sua configurazione e richiede modalità espressive.

Come si può facilmente evincere da queste semplici nozioni, la dimensione affettiva permea praticamente ogni ambito vitale di una persona. La comunicazione, la riflessione e la relazione implicano una perturbazione nella quiete affettiva; e questo accade anche nell’ambito pastorale, nell’evangelizzazione e nella liturgia. Come il corpo è sempre coinvolto nelle azioni umane, così la psiche e con essa la dimensione affettiva di una persona. In tal senso è solo per l’attuazione di meccanismi difensivi che si può arrivare a una freddezza, a un’impassibilità da parte di un consacrato. Al contrario

«il celibato trova la sua radice anzitutto nell’affetto o nella facoltà dell’amore, dove l’esistenza decide di manifestarsi come dono». Saper amare è avere la capacità di una benevolenza gratuita e di fare un passo anche prima che l’altro l’abbia meritato; è avere la capacità di essere attenti alle individualità, senza per questo scadere in esclusivismi; è avere la capacità di guidare in maniera ferma, mentre si accompagnano le persone, senza scadere in atteggiamenti solo consolatori.

A questo proposito ci è importante una riflessione di Amedeo Cencini quando dice che anche il presbitero deve avere una sua vita affettiva. "L’affettività attiene alla vita dell’uomo, non è problema di adolescenti o di giovani. "Chi può vivere senza affetti?" si chiede sant’Agostino. L’affettività è il quadro dove la sessualità si deve inserire se vuole essere ‘umana’. Senza una corretta affettività, anche una passione per il Regno è impossibile, come è impossibile una polarizzazione nel Signore, una autentica relazione con Lui, nel senso più pregnante del termine. Come può pretendere di capire il Vangelo che ad ogni passo parla di amore, chi non ha mai provato vero affetto, sensibile affetto, voglia di dono, per le persone che ama?

Allora è questione non di repressione, ma di armonizzazione.

Una affettività repressa solo in apparenza è custode del celibato. Chi inoltre ha represso l’affettività è più esposto a vivere la pulsione sessuale come puro istinto, non integrata con quegli affetti che inducono al rispetto, alla venerazione, alla meraviglia per la persona che sta accanto. Riteniamo che possono provenire anche da questa radice certe aberrazioni, certe propensioni a surrogati anche dal cumputer. E chi cresce con paura dei sentimenti, con repressioni, facilmente è vittima di comportamenti nevrotici. Non è detto poi che gli attuali aspiranti al sacerdozio, per il fatto di aver avuto qualche esperienza affettiva, si trovino in condizioni migliori.

Senza falsi pudori e senza allarmismi, la monografia affronta questo problema col chiaro intento di aiutare i presbiteri ad essere più esperti in umanità, più innamorati di Dio, appassionati per il destino umano e insieme sacerdoti secondo il Cuore di Cristo" (La vita affettiva del prete, in: Presbiteri, 2005, 7).

Non abbiamo dunque timore nell’affermare che la vita affettiva del prete c’è. Come c’è la sua sessualità, la sua storia. Come ci sono le sue ferite. Del resto, non sappiamo proprio che razza di prete sarebbe quell’uomo che a nulla fosse appassionato. Come potrebbe resistere nella chiesa? Come potrebbe stare dietro a Cristo? Come potrebbe capire la gente colui che parla da ‘maschera’a uomo? Peggio: da maschera a maschera? Ed i volti? Chi incontra i volti umani, questi occhi segnati spesso dalla vergogna e dalla inadeguatezza? Nessuno si mostra, mostra il proprio vero volto o dice il proprio vero nome, se non a chi lo accoglie e non lo giudica. Solo se si accetta l’altro nella debolezza c’è la tenerezza fiduciosa dello svelamento dei cuori. E nessuno può accogliere senza sussiego la debolezza altrui se ha paura di mostrarsi uomo, solo uomo, per giunta alla ricerca di una pienezza non posseduta mai. Non aver paura di amare. "Insegnare a tutte le genti" non significa salire in cattedra ma continuare la missione di Cristo trasformando le relazioni umane conflittuali in luoghi della presenza di Dio. Perché Dio in Cristo ha un corpo. E Gesù non è mai stato un asceta impassibile. Ha insegnato per parabole allusive e prese dalla vita dei campi, ha avuto compassione della folla, ha pianto, ha abbracciato i bambini, ha incrociato sguardi. Un vero paradigma infine è la convivialità di Betania, con Maria che profonde il suo amore ‘sprecone’ e Giuda che razionalizza. Quel "lasciala fare" da parte di Gesù, che non riguarda solo il profumo ma le modalità corporee di esprimere il suo amore, dice l’opzione del Dio fatto uomo. Penso che anche noi siamo chiamati a essere testimoni e ministri della tenerezza di Dio.

È certo che essere celibi per il Regno non esime dalla necessità di amare e di essere amati. Che, tradotto, significa pazienza, disponibilità, cordialità, affetto e amicizia. Le ragioni ultime di questo amore, offerto e ricevuto, sono evangeliche. È l’intimità con Cristo a rendere positivo il coinvolgimento affettivo. È ‘divino’ condividere gioia e sofferenza con sensibilità umana.

A questo va educata anche la comunità. E pure le istituzioni ecclesiastiche dovrebbero far trasparire il tratto affettivo.

E di fronte a preti delusi, depressi e soli deve scattare la disponibilità umana e relazionale, criterio per valutare l’autenticità della ‘carità cristiana’ dei preti.

 

Stile relazionale celibatario

Va affrontata, oltre all’affettività, anche la vita relazionale. La riflessione sull’amore conduce alla questione della relazione; infatti esiste nell’amore una particolare circolarità tra l’amare e l’essere amati: Se è vero che la certezza d’essere amato fonda la sicurezza di poter amare e dà la forza corrispondente, allo stesso modo possiamo dire che la certezza di poter amare fonda la certezza d’essere amato. Se pertanto è possibile amare proprio perché ci si scopre amati e se l’amore vissuto rinforza la certezza della propria amabilità, ne consegue che lo spazio della relazione è indispensabile per vivere una sessualità matura. Ma le relazioni corrono sempre il rischio della parzialità: di fare spazio cioè all’altro solo nella misura in cui mi è utile o di offrirmi all’altro non totalmente, ma trattenendo delle riserve. Chi vive la scelta del celibato, solo a Dio potrà dire: "Mio tutto"; allo stesso tempo, però, la dedizione totale a Dio dovrà tradursi in un’offerta della propria vita agli altri senza reticenze e riserve di vario genere.

Ancora un’altra precisazione sulle relazioni interpersonali. Se il Padre-Dio si serve delle circostanze concrete della vita, tanto più la sua azione giunge a noi attraverso le persone; e proprio perché è lui all’origine di questo progetto e tutto nelle sue mani si può trasformare in occasione provvidenziale, anche ciò che a noi sembrerebbe inadatto o contrario, così ogni relazione, ogni persona che in qualche modo entra in contatto con la vita e la persona del presbitero è tramite prezioso, ancorché misterioso di questa stessa azione divina che mira a renderci come il buon Pastore, l’amico degli uomini e delle donne, particolarmente degli ultimi, colui che ci ha rivelato Dio stesso come relazione, come Trinità, attraverso la sua vita di relazione. Non possiamo stare troppo a distinguere tra una relazione (o persona) e l’altro, decidendo noi quale potrebb’essere formativa e quale no, e pretendendo di vivere in situazioni e con persone perfette, ma dovremmo sempre più capire che ogni contesto e ogni relazione ha in sé una valenza educativa, che ovviamente può esser colta, sfruttata e vissuta solo da chi ha imparato da ogni relazione, da ogni persona.

Affrontando la vita relazionale viene subito da chiarire gli ambiti e come questi vanno gestiti. Mi riferisco quindi alle relazioni interpersonali, particolarmente la fraternità con l’amicizia sacerdotale e la relazione con il popolo di Dio. Sono aspetti interessanti e arricchenti, da un lato, nella vita del prete, ma anche più complessi e faticosi, dall’altro.

 

Molti amici ma un solo sposo

Quando si parla di affettività nel celibato è riduttivo pensare solo all’ambito della sessualità, cioè a come vivere senza implicazioni erotiche i propri rapporti. Ma certo è pure questo un aspetto che non si può trascurare, se vogliamo essere fedeli alla nostra consacrazione.

Noi siamo chiamati ad amare, perché questo è il comandamento di Gesù. L’amore è saper vivere in rapporti interpersonali in modo anche affettivamente significativo, nello Spirito Santo. Per questo occorre essere liberi dentro quando entriamo in rapporto con gli altri. Vivere il celibato significa anche questo: molti amici ma un solo sposo. C’è una "esclusività" nella vita celibataria che va gelosamente custodita, perché non ci apparteniamo più e siamo di Cristo. Questa capacità di amare con cuore libero credo che sia un dono specifico del carisma del celibato, e sia importante avere fiducia in questo dono e non farsi prendere dalla paura, che non produce mai nulla di buono. Quindi fiducia e serenità, ma anche vigilanza su tutto ciò che potrebbe negare questo essere liberi nei propri rapporti affettivi. Questo presuppone molte cose come per esempio una adeguata conoscenza di sé e dei propri sentimenti. Ci sono spesso delle persone che finiscono nei pasticci perché troppo ingenue, o perché fanno finta di non sapere dove conducono certe dinamiche. Se uno, convinto della propria vocazione, conosce se stesso e i propri sentimenti, allora li sa anche governare, li sa amministrare con serenità e sapienza, e vive molto più serenamente, senza creare problemi a se stesso e agli altri.

Una cosa che può molto aiutare è questa: non solo vivere la gioia della propria vocazione, ma farlo percepire a quelli che ci incontrano. Farci percepire nei rapporti come persone che hanno già trovato e non vanno a cercare altrove, a cercare qualcosa d’altro. Questo aiuta gli altri ad avere un rapporto giusto verso di noi ed aiuta noi ad avere un rapporto giusto nei loro riguardi. Non dobbiamo mai giocare con i sentimenti degli altri (troppo spesso si manca di rispetto in questo). Bisogna saper rimanere al proprio posto, e si intende prima di tutto un atteggiamento interiore, non qualcosa di soltanto esterno.

Occorre anche avere il senso della vocazione di coloro che incontriamo: vedere ognuno nella sua identità personale e vocazionale. Tenere il rapporto a questo livello aiuta per adempiere al compito che siamo chiamati ad avere verso gli altri, e nello stesso tempo tiene il rapporto su un piano profondo e insieme libero, senza deviare verso altre dinamiche.

Se viviamo da consacrati, e la meta, il centro della nostra vita rimane il Signore e le cose del regno, allora anche i rapporti tra noi e verso tutti saranno ciò che devono essere, cioè segno e manifestazione di un mistero che è ciò che cercano quelli che ci è dato di incontrare.

Mi piace qui richiamare quanto ha scritto il cardinale Angelo Bagnasco nella lettera "Io sono il Buon Pastore" ("lettera inviata al clero e alla comunità cristiana sul grande dono del sacerdozio"anno pastorale 2009-2010). Così scrive: "Possiamo dire che il sacerdote è il meno solitario tra gli uomini, perché abita agli incroci più affollati, quelli dove si danno convegno le anime, e perché è chiamato a stare in compagnia di Dio. Sarà solitario solo e nella misura in cui lascerà questa compagnia. La castità, però, deve essere custodita e coltivata. Se il cuore del sacerdote non si lascia colmare dall’amore di Cristo, andrà a cercare altri affetti o fughe: anche per questo la preghiera è indispensabile come l’aria. Intendo qui soprattutto la preghiera personale, quella intrisa di silenzio e di solitudine davanti al tabernacolo e che risponde a quella originaria e primaria chiamata a "stare con Lui" come i suoi più intimi amici: amicizia, tra Cristo e il suo sacerdote, che richiede, come ogni amore, tempi prolungati e frequenti di intimità e deserto, dove prevale non il "dirsi" ma lo "stare" davanti all’Amato, paghi della sua presenza. Allora il cuore si purifica, si centra, si colma: la preghiera provoca alla conversione e incide sul cambiamento della vita. Si può, infatti, pregare per ore anche davanti al Santissimo Sacramento e non cambiare per nulla la vita concreta, non correggere i comportamenti e le abitudini incoerenti. La preghiera, allora, non è preghiera, cioè incontro reale con il Signore. Si può stare davanti a Dio con il corpo ma avere il cuore altrove: è come tenere Cristo fuori di casa".

 

Fraternità sacerdotale

Nella relazione un posto di riguardo lo dobbiamo alla fraternità sacerdotale. È componente dell’identità del singolo presbitero, non esiste –infatti- identità, dal punto di vista psicologico, senza appartenenza. Chi si tira dunque fuori dal gruppo, o vive rapporti inconsistenti coi propri fratelli sacerdoti, o si sente e agisce da persona autosufficiente, snobbando tutto quel che sa di comunità e condivisione, di collaborazione e fraternità, mostra d’avere un io assai piccolo, inconsistente, immaturo. Sappiamo bene che il virus dell’individualismo nella Chiesa indebolisce proprio quello che dovrebbe essere uno dei segni più convincenti del vangelo: la fraternità dei suoi annunciatori, poiché il vangelo s’annuncia non da soli, ammonisce la stessa Parola, ma in coppia, meglio se in 12, e ancor meglio in 72. L’individualismo genera percorsi solitari, a volte solitudini tristi e disperate, altre volte –ed è peggio ancora- solitudini compiaciute e cercate, c’impedisce di condividere il dono ricevuto rendendoci estranei gli uni agli altri, ci illude di trovare felicità e realizzazione nella ricerca miope del proprio interesse, impedendoci di provare la gioia del vivere rapporti significativi, del "vivere insieme", del pregare insieme, ma anche del mangiare assieme, del ridere assieme, del programmare assieme, del tentare vie nuove assieme; diventa prima o poi stile di vita contrario al vangelo, fatto di apostolati privati, di gestioni individualistiche d’un bene che è poi comune, senso di proprietà dell’altro, della parrocchia, del gruppo, dell’amico, gelosie infantili; con gravissima ricaduta sul popolo di Dio, che ha bisogno e diritto di vedere questa fraternità sacerdotale in atto.

D’altro canto la fraternità presbiterale sgorga spontaneamente dal dono ricevuto nell’Ordine. La prima, naturale comunità per il presbitero è la comunità dei preti. Il Concilio Vaticano II è stato esplicito al riguardo: "I presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono tutti tra loro uniti da intima fraternità sacramentale"(PO, 7-8).

Già Paolo VI chiedeva di fomentare al massimo la "intima fraternità sacramentale" (Celibato sacerdotale, 79) poiché particolarmente i sacerdoti in difficoltà devono poter "contare sulla carità senza limiti di quelli che sono e devono essere i loro più veri amici" (idem, 81), ovvero i loro fratelli presbiteri. Le comunità presbiterali non s’improvvisano, implicano una notevole libertà interiore e disponibilità alla condivisione. A volte si ha davvero l’impressione che tali comunità presbiterali siano come convivenze coatte con scarsa condivisione di vita, "unioni di fatto presbiterali" che non espressione di reale vita fraterna tra presbiteri.

Noi in quanto Figli dell’Amore Misericordioso sappiamo come la relazione fraterna sta molto a cuore a Madre Speranza tanto che le Costituzioni ce lo ricordano dettagliatamente: "All’interno delle nostre comunità viviamo le relazioni fraterne riconoscendo il valore di ogni persona. La comunità accoglie ogni confratello in modo incondizionato, così come il Signore accoglie ognuno di noi, con amore e misericordia; lo accetta, valorizzando le sue capacità di natura e di grazia; gli assicura le ore di preghiera, di lavoro e di riposo, gli provvede il necessario per la sua promozione personale e per l’adempimento delle sue mansioni; lo sostiene nei momenti di difficoltà.

La comunità è il luogo dove ogni fratello deve sentirsi aiutato a superare i propri limiti e le proprie debolezze, nel rispetto dell’intelligenza e della libertà personale" (Art. 66).

 

Relazione con il popolo di Dio

C’è anche la relazione con le persone che il Signore ci affida, quelle particolarmente con le quali normalmente ci relazioniamo. Il vero senso della nuova evangelizzazione, come diceva Giovanni Paolo II, è soprattutto questione di nuove relazioni, davvero umane, che s’arricchiscono dell’umanità di coloro che entrano in questo scambio comunicativo.

Ovviamente non si tratta di un semplice gioco tra le parti, ma si tratta per il prete di vivere con tutta la propria carica d’umanità il rapporto che lo lega alla sua gente, o –come diceva Teilhard de Chardindi "amorizzare il mondo". Il presbitero deve capire che non si evangelizza ciò che non si ama, o coloro che non ama; per questo –come dice Pastores dabo vobisegli è chiamato ad "amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di ‘gelosia’ divina, con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei ‘dolori del parto’ finché ‘Cristo non sia formato’ nei fedeli" (Pastores dabo vobis, 22).

Il prete che si sacrifica per la sua gente, in termini di tempo ed energie donate, anche con reale sacrificio di sé, sceglie di agire così, di stare vicino a chi soffre, di andare a trovare persone in difficoltà…, perché sente quelle persone come "la sua gente", perché gli vuol bene. In tal senso il celibato non è semplicemente ciò che lo solleva dalle preoccupazioni d’una famiglia garantendogli spazi di tempo libero, ma è semmai un grande spazio affettivo, che gli consente appunto di amare con cuore assolutamente libero le persone che gli sono state affidate.

A questo punto, in riferimento alla affettività e stile relazionale celibatario, va fatta qualche altra precisazione per noi presbiteri. È necessario cercare di chiarire cosa voglia dire "stile relazionale celibatario". Non siamo chiamati a seguire un criterio elettivo-selettivo nelle sue relazioni, quasi a frequentare solo alcuni, facendo preferenze tra quelle persone che ci sono simpatiche e quelle che ci infastidiscono. Niente preferenze ma stare vicini a tutti, amandole di vero cuore e se una preferenza dobbiamo fare occorre lasciarci guidare dal vangelo e fare come Gesù che preferiva gli ultimi, i miseri, i poveri, coloro che si sentivano non amati.

Come amava fare San Francesco quando ha abbracciato e baciato il lebbroso.

Un’altra attenzione va fatta nell’ambito della relazione. Con le persone dobbiamo stare attenti e cioè non occupare mai il centro d’una relazione perché questo appartiene a Dio; se qualche persona pensasse di mettere noi al centro della loro vita, dovremmo far capire che è il Signore che deve occupare il proprio cuore e non noi. Così pure bisogna stare attenti a non pretendere di diventare noi il centro della vita di quella data persona; è Dio il nostro tutto e le persone lo devono percepire.

Sappiamo che la nostra relazione celibataria nasce al di fuori dell’incontro sessuale, dunque non è di per sé motivata dal corpo e dalla sua attrazione. Per cui siamo chiamati a trattare con le persone con assoluta e infinita delicatezza, non dobbiamo invadere gli spazi e le intimità degli altri, rispettando quindi e soprattutto il loro corpo.

Ricordiamoci comunque che stile relazionale celibatario non significa affatto negare la propria sessualità: il vergine per il regno non rinuncia alla propria sessualità, anche perché non è possibile; il sacerdote celibe rinuncia all’esercizio della genitalità, ma vive la propria sessualità rispettandola nella sua natura, come risorsa di energia preziosa, energia relazionale che lo apre al rapporto con gli altri e in particolare al rapporto con l’altro-da-sé, rendendo la vita feconda. Siamo chiamati a vivere però "sessualità pasquale", una sessualità che si lascia ogni giorno provocare, purificare, orientare, liberare, salvare, rendere feconda… dalla croce di Cristo, che è l’espressione più grande dell’energia relazionale, aperta all’alterità e feconda di vita piena.

Solo così vivremo fino in fondo la propria umanità; sapremmo dire e testimoniare agli altri di avere messo Dio al centro della nostra vita attraverso la propria affettività e capacità relazionale, volendone fare un dono per tutti.

 

 

3. "Dacci oggi il nostro pane quotidiano": Solitudine nella vita del presbitero

Con la richiesta del pane abbassiamo lo sguardo sulla vita quotidiana, su cosa ci è indispensabile per la vita. Chiediamo che ci dia il vero necessario, nutrimento terreno per il nostro sostentamento, liberandoci dai desideri inutili. Ma soprattutto che ci dia il Pane di vita, Parola di Dio e Corpo di Cristo, Mensa eterna preparata per noi e per molti fin dall’inizio dei tempi.

Con questa richiesta noi presbiteri chiediamo anche di potere vivere particolarmente in comunione con Lui; chiediamo di vivere la solitudine e il silenzio come luogo dove incontrare Dio, dove ci si ritrova in comunione più profonda con sé stessi e con gli altri. Una solitudine riempita di comunione.

Per questo abbiamo bisogno di riscoprire il valore della solitudine, quella vera, positiva, come dono di grazia per custodire il cuore libero da legami affettivi disordinati. Un pane che ci sazia della sua presenza e della sua santa grazia.

 

Capacità di solitudine

La capacità di solitudine è una delle grandi sfide dell’età contemporanea perché riguarda tutti. Diceva Igino Giordani che «ci si può sentire soli anche in mezzo alla folla di uno stadio». E la solitudine esiste per tutti perché «è il fondo ultimo della condizione umana». Riguarda le famiglie perché come scrive lo psicologo Willy Pasini: «Si può vivere bene accanto a un’altra persona soltanto se si è diventati un "intero"». Ed essere interi significa essere una persona già completa in sé, autonoma. Se vale per tutti, vale anche per chi ha scelto una via di consacrazione a Dio, sia essa laica o religiosa, o la via del sacerdozio. Come la solitudine da un lato è presupposto di ogni rapporto che voglia essere veramente gratuito, dall’altro può diventare negativa se non si riempie di comunione. Sfida per tutti, e non ultimo il prete, nel suo essere senza una vita d’intimità affettiva, nel vivere spesso da solo in una canonica, nell’affrontare le difficoltà della vita, le prove spirituali e la sua missione da compiere.

Rimangono inquietanti, oltre che attuali, le parole di Paolo VI rivolte ai sacerdoti: "Non siamo talvolta dei solitari in mezzo a una moltitudine che dovrebbe essere di fratelli e costruire una famiglia? Non preferiamo talora d’essere isolati, d’essere noi stessi distinti, diversi, ed anche separati, e forse anche dissociati, e perfino antagonisti, in mezzo alla nostra compagine ecclesiastica? Ci sentiamo davvero ministri solitari nel medesimo ministero di Cristo? È sempre viva fra noi un’affezione fraterna, che ci fa solleciti e lieti del bene dei nostri confratelli, umilmente e santamente fieri della nostra vocazione fra le file del proprio presbiterio?".

E, se non vissuta positivamente, la solitudine provoca delle sofferenze che feriscono l’animo umano rendendolo vulnerabile e fragile. Lo apre a fughe, tentazioni, compensazioni, iperattivismo, egocentrismo. Eppure l’esperienza della grande maggioranza dei preti ci dice che la solitudine può diventare risorsa e serbatoio di fecondità che si riempie d’unione con Dio e comunione con gli altri. E che apre alla costruzione della comunità cristiana.

L’esperienza della solitudine rimane un’esperienza concreta e fondamentale. Non intendiamo riferirci adesso alla solitudine imposta dagli uomini anche se ci rendiamo conto come oggi sta diventando un fenomeno drammatico, tanto che, come dicono i sociologi, "il nuovo nome della povertà oggi è la solitudine". E qui si tocca l’argomento dell’emarginazione degli anziani, dei più deboli, delle persone malate, ecc. Questa forma di solitudine fa appello alla solidarietà e va combattuta con tutte le forze.

Facciamo, invece, riferimento ad un’altra forma di solitudine che è nell’esperienza di tutti, a prescindere dalla condizione sociale, o da fattori esterni che possono intervenire.

Ci sono due forme di solitudine. Si tratta di una solitudine che uccide e una solitudine esistenziale. La prima nega il significato della vita e di ogni vocazione, la seconda è inevitabile nella vita di chiunque perché è inerente alla condizione umana in quanto tale.

La solitudine che uccide. È la chiusura, la non comunicazione, l’isolamento, la diffidenza che paralizza, la paura che induce a tirarsi indietro invece che vivere intensamente. È una solitudine che può esprimersi come rabbia e rancore, come scoraggiamento, depressione, autoritarismo, bisogno di controllo sugli altri, e in tante altre forme.

Questa solitudine va combattuta e superata. A tutto questo bisogna reagire, perché nega l’uomo come persona, nel suo mistero più profondo.

Proviamo a capire, invece, cos’è l’altra forma di solitudine che denominiamo esistenziale.

Per comprenderla bisogna fare riferimento alla propria esperienza. Basta ascoltare il proprio cuore, osservare la realtà della vita per costatare che nel profondo di noi stessi nessuno ci può fare compagnia: siamo mistero persino a noi stessi, e tanto più lo siamo agli altri, anche quando si trattasse dell’amico più intimo. C’è una profondità nel segreto del cuore umano nella quale nessuno può entrare. E ciò vale sia per i singoli come anche per le coppie più riuscite.

Su un piano di fede capiamo molto bene perché è così: l’uomo è molto più grande di qualsiasi cosa possa fare e sperimentare. Siamo ad immagine e somiglianza di Dio, siamo fatti per lui e, riprendendo un’affermazione famosa di S. Agostino, «il nostro cuore non trova pace se non incontra lui». Vuol dire che siamo persone capaci di apertura e relazione, ma lo siamo per il Signore e in realtà è lui il vero ultimo tu dell’uomo, colui che solo ci può chiamare per nome anche nel più profondo del nostro essere. È quello che afferma la Gaudium et Spes, quando dice che "nel segreto della coscienza ognuno è solo davanti a Dio" (n.16). Questo spiega perché siamo soli quando ci mettiamo davanti a noi stessi e ci interroghiamo davvero sul senso della nostra vita.

Noi però l’abbiamo capito e sappiamo che il Signore ci conosce fino in fondo e ci raggiunge là dove nessuno può entrare, nel nostro vero nome e nel mistero che ci caratterizza. Questo significa allora che la nostra solitudine è in realtà "abitata": c’è una presenza, la sua, a segnarci con il suo sigillo e questo cambia tutto.

Si tratta dunque di una solitudine che ha un senso e che può essere accettata senza che ci schiacci. Non siamo più condannati a fuggire da essa, non fa più paura, la possiamo portare senza ansie, come il luogo dove essere più pienamente noi stessi, luogo della comunione nel senso più profondo. E proprio perché è abitata può essere vissuta come una solitudine aperta, che ci mette in comunione con tutto e con tutti.

Ne consegue anche questa cosa fondamentale: che solo a partire da qui si diventa capaci di incontro, di rapporti interpersonali veri. Solo chi è capace di solitudine, di questa solitudine, è capace di comunione. Mentre chi non l’ha capita e non ne è capace è dominato dall’ansia e dalla paura, è possessivo, incostante negli affetti e nelle scelte, usa gli altri per darsi sicurezza e far tacere l’ansia, è affettivamente dipendente, cioè ha assoluto bisogno di un certo tipo di gratificazione altrimenti sprofonda; è "inconsistente" e manca di stabilità interiore; è uno che non ha trovato se stesso e, non avendo intuito il mistero che porta dentro, non sa neanche che cosa vuol dire sentirsi rassicurato nel profondo nel cuore.

Sono consapevolezze fondamentali, ma che non vengono da sé, presuppongono una adeguata interiorità: aver capito il significato delle cose e rimanerci immersi. Una interiorità che è anche maturità nel senso forte. Chi vive la solitudine nel suo vero significato è una persona che sa stare in piedi ed è in pace. Uno che ha trovato perché è stato trovato. Tutto questo per la vita del presbitero che cosa significa concretamente?

 

Soli davanti a Dio

Una prima osservazione la ricavo da G.S. 16: «Nel segreto della propria coscienza ciascuno è solo davanti a Dio». Qui non si parla solo di solitudine ma si dice che siamo "soli davanti a Dio". Non bisogna dimenticare questa connotazione decisiva della componente della fede, del rapporto con Lui, il Signore. La nostra solitudine, che è di tutti, è per noi abitata perché la viviamo davanti a Dio e questo è ciò di cui siamo chiamati a rendere testimonianza. La vita consacrata, si è soliti dire, è un segno dell’assoluto di Dio nel mondo: è la testimonianza detta con la vita che Cristo è vivo, che si fa conoscere ed è possibile incontrarlo: si rivela come uno che dà senso alla vita, ci rassicura e ci salva, sostiene ed orienta. Noi siamo chiamati ad essere un segno vivente di tutto questo, del mistero che la nostra solitudine è conosciuta dal Signore ed è abitata da lui.

Siamo un annuncio detto con la vita a tutti che siamo fatti per il Signore e solo in lui possiamo trovare noi stessi. E questo avviene veramente, tanto che c’è chi per lui ha lasciato tutto, perché davvero ha le risposte che occorrono e che riempiono il cuore. La nostra presenza allora diventa un aiuto dato alla gente e forse soprattutto ai giovani, perché non fuggano dalla solitudine, dall’interiorità e dal silenzio: non abbiano paura di guardarsi dentro, di scrutare il cuore, di cercare e trovare chi lo abita. Se oggi c’è tanta inquietudine e tanta ansia, è perché non si è trovato colui che solo può rispondere alle attese vere che portiamo nel cuore.

Ma non sono cose che vengono da sé. Pure noi dobbiamo imparare a non fuggire dalla solitudine e dal silenzio: dobbiamo noi per primi imparare a viverlo come il luogo dove ci si ritrova, dove si entra in comunione più profonda con sé stessi e con gli altri perché lo spazio che qui si apre è su Dio.

 

Soli davanti agli altri

La prima cosa allora è che la nostra solitudine la riempie Lui, il Signore.

Ma c’è pure quest’altro aspetto: che la nostra solitudine è abitata anche dagli altri. Abitata in particolare da tutti quelli che Dio ci dà e che ha legato più strettamente alla nostra vita. C’è qui nascosto il centuplo promesso da Gesù a Pietro che gli domandava: e di noi, che ne sarà, di noi che abbiamo lasciato tutto? «Avrete il centuplo in fratelli, sorelle, padri, madri, figli, campi, insieme a tribolazioni, e nel futuro la vita eterna». È importante ricordare questo punto: pure gli altri, quelli che incontriamo in Cristo, nella linea della nostra vocazione e missione, riempiono la nostra vita e la nostra solitudine. Noi a volte pecchiamo di uno spiritualismo che non ha senso nella logica del Vangelo. Non possiamo dimenticare la parola di Gesù quando ci dice che chi ha lasciato tutto per lui, ritrova tutto al centuplo. C’è qui perfino un criterio di discernimento per sapere se il nostro seguire Cristo è autentico: vedere come va con la presenza degli altri nella nostra vita, che spazio c’è per loro nel nostro cuore.

Che cosa riempie dunque la nostra solitudine?

  • il Cristo Gesù con tutto quello che significa per noi;

  • quelli che Dio ci ha dato e per i quali spendiamo la nostra vita;

  • la nostra vocazione vissuta con autenticità.

Sono questi i presupposti che sbloccano l’affettività. Anche il terzo aspetto e cioè il sentirsi contenti della propria vita e vocazione. Chi è contento si sente anche amato, è uno che vive con gioia e profonda consapevolezza ciò che Dio gli dona di vivere, ed è questa la vera risposta alla solitudine che potrebbe indurre a chiudersi.

Queste cose non vengono da sé e si fondano su alcuni presupposti essenziali:

  • che si creda alla verità e alla bellezza della propria vocazione;

  • che si creda che un vincolo vero di vita e di amore ci lega a quelli che Dio ci affida;

  • che si ricordi e si viva l’importanza dell’interiorità e della preghiera.

Sono consapevolezze, come valori veramente integrati, che si raggiungono solo con la preghiera, intesa come ricerca appassionata di Dio e del vero senso della vita.

 

Quando il cuore si chiude

È veramente qui la vera sfida per noi presbiteri: è la sfida dell’amore, del saper amare come Gesù ha amato, in pienezza di cuore e con tutto il cuore. Perché, o il cuore si apre davvero ad amare, oppure scattano altri meccanismi, che possono portare anche molto lontano, sulla via amara del fallimento.

E scattano, quindi, le cosiddette compensazioni, che intervengono inevitabilmente quando il celibato, anziché risolversi in una vera scelta di amore, si chiude in un’affettività atrofizzata e repressa. La stessa esperienza, ancor prima delle scienze umane, ricorda che ci possono essere dei religiosi e dei preti a posto in tutto per ciò che riguarda la continenza e ciononostante falliti proprio nel loro celibato. Come ad esempio un prete che non conosce in nulla le "debolezze della carne", ma è duro e intransigente, autoritario e paternalista, uno che non sbaglia mai, avaro, prima di tutto nei sentimenti e nella capacità di dar credito agli altri, freddo razionalista, attivista e alienato nel lavoro; un prete incapace di un fremito di tenerezza e di compassione, ignaro della bontà così profondamente umana di Cristo. Non si tratta solamente di comportamenti sbagliati, si tratta invece di vere e proprie compensazioni, per cui bisogna risalire più a monte, al mondo complesso e misterioso dell’affettività e sbloccarla. Le compensazioni sono il riflesso di una sessualità repressa, un’affettività che non si è mai realizzata veramente.

Quando si parla di affettività nella vita dei consacrati, il discorso viene spontaneamente e facilmente riferito alla sfera erotico-sessuale: diventa il problema di come custodire il cuore libero da legami affettivi disordinati, come amare senza naufragare nell’innamoramento. Ma il punto difficile e la vera sfida non è lì, bensì nel saper conservare il cuore libero da ogni ombra di invidia, di malevolenza, di cattivo sospetto e cattiva volontà. La sfida vera è nell’avere sempre nel cuore l’accesa carità, è nel far sì che ogni presbitero sia sempre lieto, pieno di fede, di carità e di speranza in Dio. Da qui proviene il resto.

Bisognerebbe ritornare più decisamente ai padri antichi. S. Isacco il Siro si domanda che cos’è la purezza, il cuore puro, e risponde: «È il cuore che nutre compassione per tutta la natura creata, gli animali, le piante e ogni essere creato». E qual è allora il segno che un uomo ha raggiunto la purezza del cuore? È veramente puro nel cuore risponde chi ritiene che tutti gli uomini siano buoni e nessuno di essi appare ai suoi occhi impuro e contaminato. San Macario vede la purezza di cuore nel «lottare per ogni cosa e non giudicare nessuno». Lottare, essere persone impegnate ma non giudicare mai, «ne la prostituta, né i peccatori, ne i dissoluti, ma guardare tutti con semplicità ed occhio puro, affinché diventi come naturale e istintivo non disprezzare, non giudicare, non odiare nessuno, non fare differenze tra l’uno e l’altro».

Significa, allora, che non soltanto il peccato contro la castità offende la verginità, ma ogni peccato. È il non-amore che nega la verginità consacrata, cioè ciò che ci porta a riprendere il dono dopo la consegna che abbiamo fatto di noi stessi, tutto ciò che cammina al contrario dell’amore, della consegna e del dono di sé. Se la verginità significa sponsalità, la sponsalità è questo essersi donati e rimanere donati/consegnati. In quanto consacrati abbiamo aperto il nostro cuore, ci siamo consegnati e rimaniamo consegnati. Come Maria nel suo "Sì. Sono la serva del Signore".

 

 

4. "Rimetti a noi i nostri debiti…": Umanità del prete

Sono poche le cose che ci sono veramente necessaria. Penso che oltre al pane abbiamo bisogno del perdono. Parliamo di perdono perché non possiamo vivere senza di esso. Il perdono dice la pace del cuore.

Nel caso di noi presbiteri sentiamo il bisogno di sentirci pacificati e in armonia con Dio, con gli altri e con noi stessi. Questo ci è necessario. Riconosciamo i nostri peccati e chiediamo, quindi, il perdono a Dio e alla comunità offesa dal nostro comportamento, dando così la possibilità di porre gesti concreti di rinascita.

Pertanto la cosa migliore per noi presbiteri in questo caso risulta la dimensione penitenziale, il riconoscere cioè la nostra fragilità e affidarla a Dio. Nella nostra umanità noi presbiteri siamo invitati a fare l’esperienza del perdono prendendo coscienza dei nostri limiti e, perciò, accettare quelli degli altri. Chiediamo perdono, sì, ma vincolandolo al nostro modo di come perdoniamo. Chiediamo a Dio di guardarci come noi guardiamo agli altri.

Ecco perché siamo chiamati a rivedere la nostra umanità per lasciare trasparire l’amore di Dio nelle diverse situazioni che viviamo. E ciò non ci esime dal riconoscere le tentazioni, le difficoltà e le debolezze nel cammino che facciamo. Chiedendo il perdono a Dio ci mettiamo in una continua conversione e maturazione affettiva che come presbiteri ci educa a valorizzare non solo i valori superiori della propria crescita ma anche a rispondere alla propria missione sacerdotale lasciandoci trasformare dall’amore di Cristo.

"L’umanità del prete è la normale mediazione quotidiana dei beni salvifici del Regno" (CEI, La formazione permanente dei presbiteri nelle nostre Chiese particolari, Roma 2000, 23). Così ricorda il documento sulla formazione permanente dei presbiteri di qualche anno fa. Ci ricorda che non abbiamo altra via per annunciare il messaggio di salvezza al di fuori della nostra umanità, così come un tempo l’umanità del Figlio è stata pensata e voluta dal Padre come sacramento della redenzione del genere umano.

Occorre ricordare, anche, che l’umanità del prete è comunque mediazione dei beni salvifici del Regno, anche se non l’unica evidentemente. Dunque in ogni caso il cuore e la capacità di relazione, il gesto e il tratto relazionale, i sensi esterni e interni, l’atteggiamento interiore e la libertà di esprimere i sentimenti, la lucidità della mente e il coraggio della volontà, insomma tutto ciò e quant’altro è parte ed espressione dell’umanità del presbitero e dell’annunciatore; è di fatto mediazione della grazia che giunge all’uomo che ascolta. E ciò vale anche per una eventuale immaturità o debolezza o contraddizione interiore o inconsistenza. Non è qualcosa insomma che riguarda solo il presbitero.

 

Riconoscere le difficoltà

Il ministero sacerdotale è un dono da accogliere ma anche una risposta concreta da dare ogni giorno attraverso la testimonianza schietta e autentica del Vangelo, vissuta e realizzata con uno stile di vita pastorale che lasci trasparire l’amore di Dio nelle diverse situazioni in cui ognuno opera. Eppure, la dignità di questo ministero non ci esime dal riconoscere le difficoltà, le tentazioni e le debolezze che a volte scuotono e mettono a dura prova il cammino verso la santità. La fedeltà al dono ricevuto non è per niente scontata, per cui «anche i presbiteri, immersi e agitati da un gran numero di impegni derivanti dalla loro missione, possono domandarsi con vera angoscia come fare ad armonizzare la vita interiore con le esigenze dell’azione esterna» (PO, 14). Pertanto, integrare la chiamata vocazionale con le vicende umane di ognuno implica una partecipazione attiva e permanente al proprio processo di crescita. Le diversità culturali, le difficoltà di comprensione e di collaborazione, la complessità della propria storia psichica, i disturbi della propria affettività sono soltanto alcune delle condizioni che possono mettere a dura prova l’armonia tra vita interiore e azione esterna. Anche noi presbiteri possiamo avvertire la fatica della fragilità e delle debolezze, specialmente se non riusciamo a porci dei limiti nella dedizione né sappiamo prenderci cura di noi stessi.

Madre Speranza è stata molto chiara nel raccomandarlo ai propri Figli quando avverte: "State molto attenti, figli miei, a calcolare bene il tempo per non lasciare mai la meditazione e gli atti di comunità, se non volete un giorno arrivare a dire pieni di amarezza: Dio mio, la mia abnegazione mi ha rovinato, la mia natura mi ha portato a trovare soddisfazione nel darmi tutto intero a fare il bene agli altri, tralasciando l’orazione, e mi sono compiaciuto dell’apparente buon risultato della mia attività, che mi ha fatto prendere un abbaglio nel mio lavoro interiore; così mi sono gettato nel precipizio e il mio apostolato non è stato secondo il desiderio di Dio. La mia fede si è affievolita, le mie energie sono venute meno, si sono moltiplicate le mie cadute a discapito della carità e a danno delle anime che mi circondano" (El pan 14, 17-18).

Dobbiamo comprendere, quindi, che abbiamo il compito di tutelare la propria storia di maturazione, in modo da vivere la missione come un’opera di santificazione da realizzare nel quotidiano. La pastorale centrata sulle tante cose da fare col tempo logora non solo le energie fisiche ma anche le certezze motivazionali della persona: la fatica che ne deriva non riguarderà solamente il carico di lavoro, o le poche ore di sonno, o le tante riunioni da attendere, o i momenti di preghiera mancati. Ma sarà una fatica di tipo esistenziale, che emerge con sempre più forza man mano che l’individuo non riesce più a dare un senso alle proprie difficoltà o alle proprie crisi psico-affettive, lasciando così atrofizzare la chiarezza profetica della propria vocazione sacerdotale. Ne escono fuori così: nevrosi pastorale, malattia dello spirito, crisi spirituale o di senso, rischio di mediocrità, interrogativo angosciante, con la comune accezione di un malessere che si insidia nelle radici spirituali e carismatiche dell’essere prete. Succede così che quando vacilla la chiarezza vocazionale, o quando è soppiantata da uno stile di vita normalmente apatico e superficiale, anche il modo di amare nonché la stessa carità pastorale ne risentirà negativamente. E il caso di chi si accontenta di fare il minimo indispensabile, o di chi riduce il ministero a un attivismo sterile, che però preclude la creatività dello Spirito.

 

Prendersi cura di noi stessi

Occorre che rivediamo noi stessi e renderci conto di che significa prenderci cura di noi stessi. Prendersi cura della propria storia vuol dire custodire questo atteggiamento di consapevolezza e di attenzione verso se stessi, ma anche di gratitudine propositiva verso colui che chiama al servizio dell’amore pastorale, cogliendo le tante opportunità di crescita umana e spirituale che emergono lungo il cammino della vita. Ma vuol dire anche saper guardare alle proprie difficoltà pastorali con un’ottica di sano realismo, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte perché siano coerenti con il progetto vocazionale, imparando a differenziare con onestà e rettitudine i valori positivi presenti dalle situazioni disfunzionali.

Occorre, quindi, vigilare su se stessi.

Vigilare su se stessi, aver cura di se stessi, è una condizione necessaria per la qualità del nostro ministero e la fedeltà ad esso. Ciò comporta una continua conversione e maturazione affettiva che educa noi presbiteri a realizzare costantemente i valori superiori della propria crescita, senza regredire a forme ambivalenti di permissivismo superficiale e mediocre, oppure di onnipotente e rigido narcisismo (cfr. Orientamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale, 32).

Non si può quindi parlare di vocazione presbiterale senza riferirsi al processo di crescita che ogni sacerdote avvia lungo il percorso della propria esistenza, nel proprio modo di essere e di amare. Non possiamo pensare che, per il solo fatto di essere a servizio degli altri, o perché depositario di un mandato ministeriale, il prete sia "naturalmente altruista". Si tratta invece di un lavoro di continua conversione ai fratelli con cui lavora, per essere disponibile «a farsi epifania e trasparenza del buon Pastore che dà la vita» (Pastores dabo vobis, 49). Tale ottica pedagogica della capacità di amare del prete contrassegna non tanto la quantità delle proprie azioni e dei propri progetti pastorali, ma la qualità, cioè il modo con cui ci si dedica alle persone. Si risponde alla missione sacerdotale se ci si lascia trasformare dall’amore di Cristo, per assumere uno stile di dedizione qualitativamente orientato verso le persone e verso le loro reali richieste, motivati e sintonizzati con le aspirazioni profonde del metodo evangelico. Solo così si vive, sull’esempio di Cristo, un atteggiamento di autentica carità pastorale, connaturale al proprio essere sacerdote e coerente con le scelte esistenziali.

È questa centralità di un amore autentico, mediato da un profondo cammino di fede, che dà significato ai comportamenti e alle scelte pastorali, anche quando si vivono emozioni difficili e negative, o quando si è stanchi, o quando si ha un carattere problematico, o quando le persone non corrispondono alle nostre aspettative. La carità pastorale non può restare imprigionata nel torpore del proprio egoismo, deve invece aprirsi con un atteggiamento di costante ricerca, al mistero di Dio presente nei fratelli e nelle sorelle che ci vengono affidati.

 

 

5. "Liberaci dal maligno": formazione permanente

"Liberaci dal maligno". Con questa invocazione intanto affermiamo che esiste il Maligno e lavora per tenerci lontani da Dio. Ma noi siamo sicuri che la guerra tra luce e tenebra è già vinta dal Cristo risorto dai morti. Questa certezza ci accompagna anche nella nostra vita di presbiteri, anche quando la miseria, la debolezza e la fragilità sembrano prevalere. Abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio anche perché sperimentiamo di essere fragili rispetto alla tentazione. E chiediamo dunque di liberarci da ogni male, da tutto ciò che ci fa del male. Noi apparteniamo al Signore.

Abbiamo bisogno quindi di una formazione in questo per renderci persone mature, forti e libere, che non temono la tenebra, che vivono nella dignità secondo la vocazione ricevuta, che rende la persona del presbitero consistente con ciò che siamo chiamati ad annunciare.

Quando parliamo di formazione per il presbitero vogliamo pensare alle varie componenti della crescita armonica della persona del sacerdote.

C’è però un rischio ed è quello che ci fa pensare ad una classificazione, come se si dovessero prevedere diverse dimensioni strettamente indipendenti tra di loro. Non solo va evitato questo rischio ma va tenuto anche presente un altro dato e cioè che non può esserci neppure separazione di tempo, come se la formazione va classificata a qualcosa che viene prima e qualcosa che venga dopo.

 

Obiettivo della formazione

Il compito educativo non va distribuito a diversi livelli o ‘strati’ tra loro relativamente indipendenti", come ad esempio dedicarsi prima all’educazione umana e poi a quella cristiana. Il rischio sarebbe la frammentazione del processo formativo, per cui gl’insegnanti si dovrebbero occupare dell’aspetto intellettuale, gli educatori della condotta esterna, il direttore spirituale della vita spirituale, il parroco nel guidare il giovane prete per l’acquisizione delle competenze pastorali, ecc…

Il rischio sarebbe proprio quello di perder di vista la persona nella sua globalità e unità, determinata proprio dalla sua umanità, luogo in cui convergono tutte le sue varie componenti.

Non si forma il prete, dunque, senza formare contemporaneamente l’uomo e il credente, solo allora la formazione diventa vera e anche fenomeno complesso.

È utile a questo proposito far conoscere il pensiero di Amedeo Cencini il quale a questo riguardo afferma dicendo: "L’espressione prima riportata mi sembra ci aiuti a comprendere l’obiettivo della formazione: "L’umanità del prete è la normale mediazione quotidiana dei beni salvifici del Regno", (CEI, La formazione permanente dei presbiteri nelle nostre Chiese particolari, Roma 2000, 23), se ciò è vero la formazione mira a rendere l’umanità del prete trasparente, mediazione che non frappone ostacolo, e che consenta il più possibile un passaggio lineare della grazia da Dio all’uomo. È esattamente questa trasparenza che rende la persona del presbitero consistente, consistente con ciò che deve annunciare. A questa consistenza è connessa l’efficacia del suo ministero, da non confondere con l’efficienza, che invece è legata al possesso di competenze e abilità varie per svolgere il ministero" .

E più avanti lo stesso autore, poi, aggiunge: "E per formazione non dobbiamo intendere solo contenuti, intendiamo per primo formazione dell’umano, del cuore e della mente, ovvero della capacità affettiva e mentale, a livello conscio e inconscio, formazione dei sensi interni ed esterni, della sensibilità e della coscienza (che non si forma solo sui testi di teologia morale), dei gusti (aver un palato da Beatitudini) e dei desideri, della capacità di prender decisioni e di commuoversi dinanzi a ciò che è vero e bello, della libertà di voler bene, di lasciarsi voler bene, della sessualità come risorsa infinitamente preziosa che abilita alla relazione, alla relazione con l’altro-da-sé e rende feconda la vita, della responsabilità per gli altri che dà un tocco drammatico alla vita, della memoria come organo non solo che recupera e registra fatti e volti, ma come capacità d’integrare tutto il vissuto personale, e non solo per accettarlo o tentare di riconciliarsi con esso, ma per dargli un senso, formazione di ciò che di più umano c’è nell’uomo,

È la vera sfida della vita del prete oggi; significa l’azione del Padre che plasma in noi i sentimenti del Figlio, il Bel Pastore, allora tale azione non solo non si può compiere in una stagione privilegiata della vita, o in quella che noi chiamiamo la formazione iniziale, ma nemmeno è azione che conosce tregue né tempi morti, ma si compie ininterrottamente, in ogni stagione esistenziale, in qualsiasi contesto di vita, nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nell’infermità, nel pieno vigore dell’impegno apostolico così come nell’età del ritiro e dell’abbandono dell’apostolato attivo. Perché in ogni età della vita c’è un particolare passo da fare in questa identificazione, particolari esigenze del valore da vivere, nuove debolezze cui far fronte ma anche nuove risorse su cui contare (e che possono anche aumentare nel corso della vita), o particolari sorprese della vita ecc.

Bisogna tenere presente che ci sono due tipi di formazione: esiste una formazione ordinaria e una straordinaria. La prima è quella fondamentale, ne è responsabile il soggetto e si attua ogni giorno della vita, nella situazione ordinaria ove è chiamato a svolgere il proprio ministero e nel proprio ministero, per esser sempre più libero (o docibilis) di lasciarsi formare dalla vita secondo il modello del Figlio; mentre la formazione straordinaria sarebbe quella organizzata dall’istituzione, si compie in alcuni momenti e corsi speciali, che riguardano l’aggiornamento del presbitero in aree specifiche" (da: Formazione umana e umanità del prete).

È tempo quindi di intendere la formazione permanente come un "assoluto necessario" e non un optional facoltativo; un processo di strutturazione della personalità presbiterale sollecitata continuamente dal Magistero della chiesa, che ravvivi l’itinerario di crescita e di cambiamento, anche quando emergono le reali difficoltà del singolo, senza lasciarle inascoltate o senza relegarle a fatti marginali da risanare o da accomodare (cfr Pastores dabo vobis, 71). Ma, al contrario, integrandole con chiare opportunità di scelta, per «riaccendere come si fa per il fuoco sotto la cenere, il dono divino, nel senso di accoglierlo e di viverlo senza mai perdere o dimenticare quella "novità permanente" che è propria di ogni dono di Dio, di Colui che fa nuove tutte le cose, e dunque di viverlo nella sua intramontabile freschezza e bellezza originaria» (Pastores dabo vobis, 70). Solo così sarà possibile riscoprire il proprio cammino di perfettibilità e di santificazione come un processo evolutivo che permette di elaborare delle risposte efficaci che siano coerenti con la propria vocazione, sulla base di un comune rinnovamento interiore e di una permanente fedeltà alla comunione col Cristo.

 

Per consacrarsi con gioia a Dio e agli uomini è necessario un alto grado di maturità umana

La consacrazione al Signore nella Chiesa esige che il "chiamato" abbia acquisito la capacità di donarsi, cioè di amare autenticamente, con vitalità e gioia. Ciò significa che non può essere vero consacrato chi non abbia conquistato una maturità affettiva e globale della persona. Tale maturità infatti è indispensabile per il genere di vita dei sacerdoti e dei religiosi, oltre che essere richiesta dalla natura stessa della consacrazione.

Senza maturità affettiva è molto difficile rinnovare di continuo le scelte di vita che comportano solitudine e un certo vuoto interiore. Il sacerdote o il religioso saranno fatalmente portati a rifugiarsi in compensazioni oppure cadranno in nevrosi più o meno evidenti. Senza maturità affettiva sono praticamente impossibili, con persone di sesso diverso, amicizie che non siano in qualche modo distorte sul piano psichico o morale. Senza maturità affettiva sarà difficile mettersi nel giusto rapporto con il mondo e con le realtà terrene, sarà difficile vivere relazioni interpersonali profonde, sarà difficile amministrare correttamente i beni temporali e gestire il "potere" dell’autorità.

Saranno quasi sempre impossibili in soggetti affettivamente e psichicamente immaturi l’accettazione semplice e spontanea degli altri come sono, il superamento delle difficoltà della vita comune, l’allegria della distensione, l’accettazione delle esperienze dolorose del peccato intese come spinte al rinnovamento anziché come scuse di depressione. Sarà quasi sempre impossibile, senza una personalità matura, sopportare le ansie, le provvisorietà, le eventuali oscurità interiori. Ben difficilmente sarà possibile l’unità costante e gioiosa con Dio nell’impegno delle quotidiane attività apostoliche, ben difficilmente si riuscirà a trovare il giusto equilibrio tra azione e contemplazione. Occorre serenamente riconoscere che per consacrarsi a Dio e agli uomini nella Chiesa è necessario un alto grado di maturità umana. Per la perseveranza e la stessa santificazione dei consacrati la grazia presuppone personalità "umane" normali, sane, solide, armoniose. I benefici effetti della fede e della pratica religiosa di norma non sono sufficienti a modificare strutture psichiche distorte e tanto meno situazioni personali patologiche.

E questo vale, anche, per il candidato alla vita consacrata il quale deve avvicinarsi giorno per giorno alla pienezza della maturità affettiva in un itinerario formativo il cui arco dura tutta la vita. Forse solo pochi riusciranno ad integrare armonicamente i propri costitutivi biologici, psicologici e spirituali per assumerli e viverli con intensità propriamente "umana" in un autentico e gioioso dono di sé e in una continua ricerca di nuovi valori. Ma obiettivo obbligatorio minimo per tutti sarà vivere nella consapevolezza della propria incompiutezza e nell’impegno di una crescita costante verso una piena "umanità".

 

Conclusione

La preghiera di Gesù che noi recitiamo si chiude con un "Amen" che significa "Si, lo voglio", "Così sia".

A conclusione di questa riflessione, dal tema assai delicato ed importante, vorrei fare quattro consegne che dicono a noi presbiteri questi "Sì" che siamo chiamati a compiere nello svolgimento del nostro ministero, tenendo conto anche della sana cura che dobbiamo avere di noi stessi in quanto persone.

 

  1. Abitare il corpo. Oggi purtroppo le persone fanno tanto per il corpo estetico e pochissimo per il corpo vissuto. Noi sappiamo che l’antropologia e la teologia guardano con posività al corpo. Attraverso un’adeguata formazione, noi presbiteri siamo chiamati a essere esperti lettori dei processi psicocorporei che caratterizzano gli umani e dei significati relazionali che essi esprimono. Abbiamo bisogno dell’abbraccio di Dio per sentire quelle sicurezze psicocorporee che nascono solo dall’incontro con Lui per poter essere liberi, in quanto la libertà necessita di alcune certezze di base, senza le quali si rimane nella dipendenza o nella ribellione di chi si sente carente dal punto di vista affettivo. Non possiamo reprimere il corpo per innalzare l’anima, ma ascoltarlo, abitarlo, e offrirlo nella relazione con il Signore perché con tutta la densità della nostra umanità possiamo andare incontro a Dio ed ospitarlo nella nostra vita.

  2. Abitare il piacere. Dio vuole che ricerchiamo e liberiamo i semi di piacere che Lui stesso ha seminato, in nostro favore, lungo le vie che conducono al Regno: "Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi… ma si compiace della Torah del Signore, la sua Torah medita giorno e notte"(Sl 1). Per noi: "beato l’uomo che si lascia attrarre dalla Torah, che si lascia coinvolgere anima e corpo dalla Parola del Signore. È un invito alla meditazione della Parola di Dio, alla preghiera appassionata, all’osservanza dei comandamenti, all’amore verso il nostro ministero affidatoci, alla cura della vita fraterna, al celibato sacerdotale. Non stiamo rinunziando al piacere, stiamo cercando quel piacere che Dio ha seminato in ciascuno di noi.

  3. Abitare l’affettività. Penso che Dio non voglia impedirci quella gratificazione affettiva così cara al mondo di oggi, così come pure non vuole impedirci tanti rapporti o rapporti importanti. Egli è un Dio geloso, non delle creature, bensì degli idoli. Egli vuole da noi il centro del cuore perché noi abbiamo bisogno di Lui, ma vuole anche dilatare il nostro cuore per donarci tanti rapporti belli ed importanti nella misura in cui ciò è possibile su questa terra. Egli vuole che viviamo tutto questo in modo appassionato ed ordinato insieme; quello appassionato e non ordinato porta solamente alla follia e alla dispersione; quello ordinato ma non appassionato porta alla freddezza e alla rigidità. Né il nostro corpo lasciato a se stesso, né la nostra ragione lasciata a sé stessa, né una fede disincarnata ci aiutano, ma l’alleanza tra corporeità, ragione e fede.

  4. Abitare la propria soggettività. Siamo chiamati a rivivere la nostra vita come un dono; viverla fedelmente maturando dono di sé e passione per il servizio, per una soggettività insieme libera e responsabile. Infatti maturare adultità e dono di sé non è qualcosa di estrinseco alla natura dell’uomo, alla soggettività, ma è il suo naturale compimento, non raggiunto il quale c’è il fallimento.

Diceva Pascal che si illude chi cerca la felicità nei piaceri e nello stordimento; si illude anche chi cerca la pace nella meditazione; la felicità e la pace si trovano dentro la ricerca del regno di Dio, accogliendo tutto il travaglio che questo comporta.

E poi c’è S. Agostino che dice: " Il medico c’è ed è nascosto in fondo al cuore… Se dunque ti trovi davanti a un malato colpito da paralisi interiore, per farlo giungere al medico, apri il tetto e fa calar giù il paralitico, cioè fallo entrare in se stesso e svelagli ciò che sta nascosto nelle pieghe del suo cuore. Mostragli il suo male e il medico che deve curarlo"( Dal: Discorso sui pastori).

L’Anno della Vita Consacrata che ci prepariamo a celebrare (novembre 2014 – febbraio 2016) ci dia già una spinta per continuare a vivere una vita con cuore indiviso sull’esempio di Gesù casto, povero ed obbediente. Diventi anche un momento di grazia per la nostra crescita nella vita consacrata per vivere il presente con passione e abbracciare il futuro con speranza; tempo in cui avvertiamo la presenza dello Spirito che ci porta a vivere anche le debolezze e le infedeltà come esperienza della misericordia e dell’amore di Dio.