CON I SACERDOTI
SULLE ORME DI MADRE SPERANZA – 9

Don Ruggero Ramella
 

 

Il sacerdote diocesano con voti e in vita comune
secondo lo Statuto dei Sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso

 

 

 

Edizioni "L'Amore Misericordioso" - Maggio 2015

Introduzione

Il presente libretto ha avuto, in realtà, una redazione lunga 10 anni, perché tale è stato il tempo della mia riflessione, iniziata, appunto, con la mia prima conoscenza della Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso nel 2005, a Collevalenza. Ancora di più, in verità, la mia riflessione sulla cura del clero e la fraternità sacerdotale è cominciata fin dai tempi del seminario, anni ‘70-’80. Insomma, quanto vengo a dire ha radici lontane e ben radicate, sia intellettuali che esperienziali, e questo mi dà l’ardire di offrire ad altri le mie conclusioni, certo della loro utilità, soprattutto per i miei confratelli diocesani, che avranno la pazienza di ascoltarmi.

Quanto vengo ad esporre è sostanzialmente un commento allo Statuto dei Sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso (sdfam), in cui viene condensato l’essenziale della vocazione Sdfam all’interno della Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso (Fam). Tale Statuto è parte integrante delle Costituzioni Fam, che reggono l’intero Istituto con tutti e quattro i suoi rami, tra cui appunto i Sacerdoti diocesani con voti. Toccherò solo alcuni numeri dello Statuto, specialmente tra i primi dieci, perché parlano dei fondamenti della vocazione sdfam, facendo, infine, anche qualche sortita in altri pochi numeri per sottolineare alcune implicanze pratiche dei principi fondanti.

Il risultato è una sorta di dottrina spirituale della vocazione sdfam. Infatti già altri miei confratelli, sia in passato, sia al presente, hanno studiato e scritto sulla materia, penso in particolare ai miei confratelli Padre Gabriele Rossi e Don Angelo Spilla per gli aspetti giuridici, teologici e pastorali; il mio contributo, appoggiandosi proprio sulle loro fatiche, vuole mettere più in luce, appunto, gli aspetti spirituali, nei quali, anche per i miei studi accademici, sono più competente.

Nell’esposizione, infine, mi attengo all’impostazione redazionale dello Statuto, seguendo articolo per articolo (con il numero in grassetto ed il testo in corsivo), secondo l’ordine numerico, nonché le sezioni in cui i vari articoli vengono raggruppati, secondo uno sviluppo logico degli argomenti, limitandomi solo ad aggiungere di tanto in tanto dei titoli, sottolineati o tra parentesi, per agevolare di più la lettura e la visione d’insieme: questo per essere il più fedele possibile alla ratio del documento e, nello stesso tempo, far emergere le profondità che si celano nelle formule dei vari articoli, necessariamente concentrate e brevi.

PARTE PRIMA
(principi costitutivi)

DEFINIZIONE

L’identità giuridica del sacerdote con voti

1. I Sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso, sono chierici diocesani consacrati i quali, senza mutare la propria condizione canonica, si uniscono in quanto singoli, all’Istituto religioso dei Figli dell’Amore Misericordioso mediante la professione dei consigli evangelici di castità, povertà ed obbedienza e partecipano alla vita comune, a norma degli art. 10 e 20 delle Costituzioni e del presente Statuto.

Dunque i sdfam emettono la professione religiosa pubblicamente (non è una consacrazione privata), ma questo non li immette nello stato canonico di religiosi, non potendo coesistere questo con quello diocesano contemporaneamente; infatti sono uniti all’Istituto FAM solo a titolo personale, anche se questa unità ai FAM è comunque pubblica e totale.

Cito per intero l’art. 10 delle Costituzioni FAM, per chiarire ulteriormente la delineazione della figura sdfam:

10. La Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso si compone di Religiosi: Sacerdoti, Fratelli che esercitano mansioni interne, Fratelli in abito civile impegnati in attività secolari, e di Sacerdoti diocesani con voti.
Questi Sacerdoti diocesani, poiché non mutano la propria condizione canonica, hanno un modo proprio di appartenere alla Congregazione. Anche dopo l’unione perpetua con l’Istituto tramite l’assunzione dei consigli evangelici con voti, conservano l’incardinazione nella propria Chiesa particolare (diocesi) con tutti i diritti e doveri connessi.
In quanto Sacerdoti diocesani, essi sono tenuti ad obbedire, in maniera giuridicamente prevalente, al proprio Ordinario locale, nella piena disponibilità di servizio alla Diocesi, secondo le prescrizioni delle leggi comuni e particolari.
In quanto Sacerdoti consacrati nella Congregazione, essi sono tenuti ad osservare il diritto proprio dei Figli dell’Amore Misericordioso, nei limiti definiti da uno Statuto proprio, approvato dalla Santa Sede.

Nell’art. 10 delle Costituzioni FAM, si dice quindi che i sdfam sono uno dei quattro rami in cui si articola la Congregazione FAM; perciò i sdfam non sono qualcosa di parallelo alla Congregazione, ma parte integrante di essa; non sono un Istituto, per es. secolare, a parte, frutto della sorella maggiore, ossia la Congregazione; né sono tantomeno un Terz’Ordine, i cui membri usufruiscono delle grazie spirituali della Congregazione; né sono, infine, una Associazione di membri esterni che vengano ad usufruire delle medesime grazie spirituali. I sdfam sono membri a tutto tondo della Congregazione, lo sono a titolo pieno, e a pari dignità con i membri degli altri tre rami; sono dei consacrati come gli altri, ma con delle caratteristiche peculiari proprie: quest’ultime caratteristiche proprie non diminuiscono in nulla la loro dignità di appartenenti come gli altri membri; non sono esterni, ma interni come gli altri membri.

Una della peculiarità dei sdfam, per cui si distinguono dagli altri membri, ma senza diminuire il grado di appartenenza interna alla Congregazione, è il fatto che restino comunque anche sacerdoti diocesani con tutti i diritti e doveri connessi. Né potrebbe essere altrimenti, altrimenti perderebbero il senso della novità originale e unica del loro stesso essere sdfam. È proprio il loro essere sempre diocesani che li rende particolarmente presenti e necessari nella Congregazione stessa, che ha come scopo la fraternità e la cura dei sacerdoti diocesani: sono infatti l’immagine plastica di questa cura e di questa fraternità; i sdfam perciò non sono dei religiosi minori, o dei religiosi mancati, ma piuttosto dei religiosi pieni proprio perché contemporaneamente, e paradossalmente, restano diocesani; la Congregazione senza di loro mancherebbe di un elemento imprescindibile e dell’essere e della missione della Congregazione stessa. La loro presenza caratterizza particolarmente la tipologia della missione al clero della Congregazione FAM, che non si limita genericamente alla cura del clero, come fanno altre Congregazioni (l’Oratorio di S. Filippo Neri, quello di Berulle, la Congregazione di SainSulpice, i Lazzaristi, i Vittorini, i Sacramentini, per citarne solo alcuni), in quanto mentre le altre Congregazioni trattano sempre il clero come cosa esterna a loro da curare, i FAM lo inglobano a sé, per trasmettere ad esso uno stile di vita improntato alla fraternità sacerdotale, come elemento costitutivo del clero in se stesso, sia per il fondamento comune del Sacramento dell’Ordine, sia per le numerose ed importanti, direi sostanziali, conseguenze pratiche nel campo della spiritualità, dell’affettività, della formazione in genere, e culturale in specie, nonché nel campo dell’azione pastorale medesima.

La loro diocesanità è sottolineata, per togliere ogni qualsiasi dubbio, dal fatto che anzitutto sono tenuti all’obbedienza giuridica, in maniera prevalente e indiscussa, al proprio vescovo diocesano, nonché dal fatto conseguente di dover essere obbligatoriamente disponibili a qualsiasi servizio richiestogli e necessario alla diocesi, come è per qualsiasi prete diocesano.

A proposito di ciò, in quanto sacerdoti anche membri della Congregazione, devono però obbedire anche al diritto proprio dei Figli dell’Amore Misericordioso, come lo è per qualsiasi Figlio, sacerdote o fratello che sia. È ovvio che, proprio per quanto detto sopra in rapporto al vescovo e alla diocesi di appartenenza, la loro obbedienza giuridica all’interno della Congregazione è definita nei suoi confini realistici, nonché giuridicamente obbliganti, da uno Statuto proprio, approvato dalla Santa Sede, come è quello in oggetto al nostro presente studio. Ma, la diversità delle modalità pratiche di vivere all’interno dell’Istituto, nulla toglie allo stesso grado di appartenenza condiviso con gli altri membri "religiosi" dell’Istituto medesimo.

La fraternità sacerdotale

Il discorso sopra continua con l’art. 20 delle Costituzioni:

20. I Sacerdoti uniti a norma dell’art. 10, senza nulla togliere alla loro natura di diocesani, debbono essere considerati come membri dell’Istituto.
Consapevoli del beneficio che questa forma di consacrazione può apportare al clero e alla stessa Congregazione, siamo chiamati ad attuarla secondo le sue specifiche finalità.
Il sacerdote che desidera vivere in unione ai Figli dell’Amore Misericordioso per mezzo dei voti può sempre farlo, ma con il solo fine che questi siano il canale attraverso il quale il buon Gesù comunichi sempre più le sue grazie per aiutarlo a santificarsi e a fare in modo che il suo ministero sia fruttuoso con le anime.
Per questo i Sacerdoti Diocesani con voti hanno diritto a partecipare alla vita di comunità dell’Istituto, in modo che, religiosi e sacerdoti diocesani si aiutino fraternamente con il buon esempio della carità, dell’amore alla povertà, dello spirito di sacrificio e di mortificazione.
Il profondo inserimento di questi Sacerdoti Diocesani all’interno della Congregazione è espressione peculiare di quell’unione fraterna che i Figli dell’Amore Misericordioso sono tenuti a perseguire nei confronti del clero; allo stesso tempo, ne è anche strumento prezioso per una più incisiva azione apostolica nel presbiterio.

Nell’art. 20, si insiste sulla piena appartenenza dei diocesani con voti all’Istituto. Inoltre si sottolinea il beneficio che questa appartenenza può apportare sia al clero che alla Congregazione: la piena comprensione di questo concetto, che qui è enunciato soltanto in nuce, ha sicuramente bisogno di ulteriore sviluppo. Infatti, tale enunciato, in verità, dice una cosa eccellente: ossia, c’è un elemento comune che si possono scambiare mutuamente sia il clero che la Congregazione, e questo elemento è la "fraternità sacerdotale"; i preti, almeno idealmente, trovano la fraternità storicamente realizzata nella vita religiosa, e la Congregazione FAM trova una sua specifica missione nel mutuare la sua esperienza di fraternità al clero medesimo; ciò non viene fatto, come negli altri Istituti, dall’esterno, ossia la vita fraterna religiosa dice a tutti i cristiani che la fraternità è un obiettivo per tutti, ma nella Congregazione FAM viene, oltre che detta, come è per tutte le Congregazioni, anche resa in pratica, coinvolgendo direttamente il clero in questa sua fraternità, che così non è più solo sua, ma è finalmente vera in concreto anche per il clero, vivendola questo in prima persona in seno alla Congregazione medesima. Quasi che si raggiungesse già da adesso l’escaton della vita religiosa: essa, infatti, non resterà nell’eternità, poiché è fatta per richiamare tutti ad un valore che nell’eternità sarà finalmente condizione normale di vita, vivendo in pieno in seno alla Trinità, essendosi realizzata in pieno la ricapitolazione di tutto in Cristo, dove tutto è uno in Cristo, dove tutto si identifica con Lui, unità perfetta in se stesso e con il Padre, nel fuoco dello Spirito Santo. Ciò renderebbe, paradossalmente, inutile la Congregazione FAM medesima, avendo raggiunto già ora lo scopo del suo sussistere, facendo vivere già ora la fraternità eterna ai sacerdoti; rimarrebbe la sostanza della fraternità della stessa Congregazione, il nucleo centrale, che non è specifico della Congregazione, ma dell’intera Chiesa, e del mondo. A scopo raggiunto, i membri della Congregazione servono solo a vivere essi stessi, come gli altri, la fraternità, senza una patente specifica, se non quella del vissuto reale della fraternità medesima. È chiaro che tutto il discorso è paradossale, perché solo idealmente, nel suo costitutivo significante del suo sussistere, la Congregazione avrebbe raggiunto lo scopo, mentre la realtà continua a rimanere distante dal medesimo raggiungimento. Di fatto, anche se all’inizio la fraternità, come sostanza di vita, è resa possibile, anche concretamente, almeno per il clero, per qualcuno del clero, è ovvio che c’è ancora moltissimo da fare per vivere pienamente la fraternità, anche in coloro che già vivrebbero questa condizione escatologica, ossia i FAM e i sdfam.

Certo è che, visti così, i sdfam sono veramente qualcosa di originalissimo (per lo meno fuori dell’attuale ordinamento canonico, che ovviamente non codifca l’escaton), ma appunto ciò è perché si insiste sull’idea forza della vita fraterna per il clero, che finora è stata generalmente negletta, e che invece è sostanziale (sia per l’Ordine, come già detto, sia per le conseguenze a tutto campo nella vita del clero medesimo), e su cui la fraternità (storicamente peculiarità della vita religiosa = vita apostolica dei Dodici) ha molto da dire nel mescolare la vita religiosa e secolare, dando una novità apostolica, come detto sopra, almeno nel metodo che peculiarmente si identifica col fine, e al clero e ai religiosi, sdfam e FAM nella fattispecie.

La santificazione sacerdotale

L’art. 20 poi cita la Madre per delineare lo scopo personale del perché un sacerdote diocesano dovrebbe diventare sdfam. Il fine è per avere dal buon Gesù le sue grazie, sia per aiutarlo a santificarsi sia per rendere più fruttuoso il ministero sacerdotale con le anime. Ma il contesto della comprensione generale della figura del sdfam, come riportata dallo Statuto e come stiamo comprendendo più approfonditamente con questo studio, ci fa intuire la portata più profonda di quello che dice la Madre.

Riprendendo l’art. ci si deve chiedere il vero significato di quel "per aiutarlo a santificarsi e a fare in modo che il suo ministero sia più fruttuoso con le anime", in riferimento al sacerdote diocesano che entra tra i sdfam. Quale è la radice della santificazione di un sacerdote, nonché di un suo ministero più efficace? I documenti del Vaticano II, penso particolarmente al Presbyterorum Ordinis, dicono che un sacerdote si santifica, non necessariamente attingendo, come un qualsiasi fedele, a qualche spiritualità, mutuata dai Fondatori dei vari Ordini religiosi, o dai loro Maestri di vita spirituale, ma nell’esercizio "vissuto" del suo ministero: ogni predicazione, ogni azione sacramentale, sono atti di santificazione non solo per i fedeli che ne usufruiscono, ma prima di tutto per il sacerdote medesimo, predicatore o/e celebrante, in quanto si identifica vitalmente, nella sua autocoscienza più profonda, con l’attore e l’azione medesima, che sono il Cristo stesso e la sua opera di salvezza, che passa attraverso questo sacri gesti. È il sacerdote per primo che usufruisce (altare, vittima e beneficiato) della grazia cristica dei suoi gesti, non per influenza esterna, ma piuttosto per un vissuto esistenziale nella sua stessa persona. Battezzando, sente che sta generando, con tutte le doglie del parto, un nuovo figlio di Dio, come fosse lui stesso la madre che sta per partorire; consacrando l’Eucaristia, non è solo il Cristo che egli offre al Padre per i fratelli, ma è lui stesso che con il Cristo, unito, nelle sue viscere più profonde, a Lui, si offre, identificandosi con il Cristo stesso, e sentendo dentro il suo intimo, dentro il suo universo interiore, dentro la radice della sua stessa affettività coinvolta in toto, gli stessi sentimenti di misericordia e di dolore del Cristo medesimo, lo stesso sentimento del Cristo verso il Padre, vivendo in prima persona la condizione di Figlio di Dio, ipostaticamente unito a questi, sentendo tutto il fuoco dello Spirito Santo, fino a sentirsene mancare il respiro, fino a sentirsi stremato dopo ogni celebrazione, nonché lo stesso amore per gli uomini, che con il Cristo vorrebbe salvare a tutti i costi, dando, dando e ripetutamente dando tutto se stesso, sentendo l’agonia del Getsemani per gli uomini che invece vanificheranno il suo sacrificio. E così via, in tutte le sue azioni liturgiche, catechetiche, e persino di governo. Vive il Cristo, anzi, il suo io non è più il suo io, ma l’Io di Cristo stesso; per cui sente, pensa, vede, fa...come Lui, anzi è Lui. È chiaro che per arrivare a questa alta coscienza di sé, e di quello che egli è e diviene nell’esercizio del suo ministero, il sacerdote deve passare molto tempo con Lui (=preghiera), tempo materiale fino a poter riempire tutto il suo tempo psicologico, interiore, affettivo, operativo infine.

Ma le due cose non sono in successione, vanno piuttosto contemporaneamente, anche se pedagogicamente e temporalmente, almeno nella fase iniziale, la preghiera viene prima.

Inoltre, dentro questa sua autocoscienza, che sempre più avverte la sua contemporanea fragilità, il sacerdote in questione sente il bisogno del conforto, di non essere solo, di non essere lasciato solo con il peso di tanta responsabilità: ecco uno dei motivi della fraternità sacerdotale, ossia portare i pesi gli uni degli altri, condividendo il Sacerdozio di Cristo, e non permettendo così che le nostre fragilità umane compromettano la salvezza degli uomini, perché la mia fragilità viene soccorsa dalla virtù di un altro sacerdote e viceversa, e questo perché tutti portiamo lo stesso peso dello stesso Sacerdozio di Cristo: questo, infatti, è troppo grande per un uomo solo! È vero che siamo uniti a Lui, ma nel fragile cammino umano, che condividiamo nelle nostre povere persone con tutti gli altri uomini e donne dell’umanità, abbiamo bisogno di sostegni lungo la strada, come tutti, attraverso cui passa la grazia stessa di Gesù, perché infine, in Lui, tutti siamo membra gli uni degli altri, in specie, e a maggior ragione, nell’intero Corpus Sacerdotalis Christi.

La missione al clero

Se è vero tutto quanto detto sopra: perché un sacerdote dovrebbe andare a cercare altre spiritualità, quando ha un tale patrimonio di grazia nelle sue povere, ma unte, mani?! D’altra parte, quanto spazio c’è per l’opera sacerdotale di noi FAM! Chi farà comprendere ai sacerdoti chi sono e cosa sono? Chi li guiderà a prendere coscienza profonda del loro essere, solo scandagliando in profondità alcuni documenti magisteriali che li riguardano particolarmente, come il già citato Presbyterorum Ordinis (Vaticano II), la Pastores dabo vobis (Giovanni Paolo II), la Coelibatus Sacerdotalis (Paolo VI), solo per citarne alcuni? Se, specialmente negli ultimi capitoli del Vangelo di S. Giovanni, emerge soprattutto la preoccupazione di Gesù per gli Apostoli, e con loro i loro successori, appunto i vescovi e i sacerdoti, nonché la loro comunione, portata ai livelli di quella nella Trinità, a chi la cosa dovrebbe interessare di più se non ai FAM stessi?

Ricollegandomi al bisogno che noi sacerdoti abbiamo gli uni degli altri, riprendo a tale proposito il testo già citato dall’art. 20 delle Costituzioni, che stiamo commentando, riguardo al "diritto dei sdfam a partecipare alla vita di comunità dell’Istituto, in modo che religiosi e sacerdoti diocesani si aiutino fraternamente". Il testo, con quanto ho detto pocanzi, assume tutta un’altra luce, anzi tutto si rischiara. In più dà tutto il peso al compito dei FAM nella Chiesa e nell’universo sacerdotale in specie. Ciò lo si vede ancora più chiaramente con le righe successive dello stesso art. già citate, che qui, per comodità, riprendo: "Il profondo inserimento di questi Sacerdoti Diocesani (sdfam) all’interno della Congregazione è espressione peculiare di quell’unione fraterna che i Figli dell’Amore Misericordioso sono tenuti a perseguire nei confronti del clero". Oltre che insistere sull’appartenenza dei sdfam alla Congregazione, fino a definirla "profondo inserimento", tanto che più non si può dire oltre a riguardo, l’attenzione viene portata proprio sulla fraternità, anzi sull’"unione fraterna", dove la parola unione ha più forza della semplice fraternità, troppo usata genericamente; la presenza dei sdfam in Congregazione, come membri a pieno titolo della Congregazione medesima, è vista addirittura "come espressione peculiare di quella stessa unione fraterna" che è lo scopo dei FAM nei confronti del clero: i sdfam esprimono la fraternità escatologica già realizzata dai FAM con i preti su questa terra. È la sintesi di quanto si è venuto dicendo appena sopra, con il testo scandagliato alla radice, in profondità, per renderlo così luminoso e illuminante.

Infine, dopo esserci concentrati più sull’essere del sacerdote sdfam in se stesso, l’art. conclude con la missione che a questo punto coinvolge in modo peculiare i sdfam stessi: la presenza dei sdfam in Congregazione "è anche strumento prezioso per una più incisiva azione apostolica nel presbiterio". Il detto di Gesù, che lui ripete più volte tra il capitolo 13 e il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, "da questo vi riconosceranno...", descrive benissimo il tipo di azione apostolica che i Fam e i sdfam insieme fanno con la loro unione fraterna: dalla loro unione il clero si sentirà provocato in bene, apprezzerà la fraternità, la imparerà, la realizzerà concretamente; i preti con voti, con alle spalle la fraternità dei FAM, "parleranno" tra i loro confratelli diocesani, e agiranno nel senso di una unione sempre più perseguita con il proprio clero diocesano; diventeranno vero e proprio traid union tra il clero diocesano e la proposta di fraternità e comunione dei FAM, nonché della cura in generale del clero.

FINALITÀ

La vocazione dei sacerdoti con voti

2. Questi Sacerdoti, partecipano con i confratelli religiosi di un’unica vocazione e di un medesimo dono di grazia, sono chiamati a perseguire le stesse finalità della Congregazione, secondo modalità proprie e in maniera compatibile con gli impegni diocesani.

Anche il presente testo ribadisce l’identità del sdfam con il fam, sottolineandone la stessa vocazione, nonché il dono di grazia e le finalità, con la sola eccezione riguardo alle modalità per mettere in atto queste finalità, che non devono entrare in contrasto con il normale lavoro diocesano di cui è incaricato prioritariamente. Sottolineo particolarmente "la stessa vocazione"; infatti quella del sdfam è una vera e propria vocazione: tutti i sacerdoti sono chiamati alla fraternità, ma non tutti hanno la vocazione a lavorare carismaticamente per perseguire questo scopo, aiutare specificatamente il clero a scoprire e vivere la fraternità fra di loro; questo ribadisce chiaramente che la vocazione sdfam non è una devozione personale per crescere solo spiritualmente, come può essere sufficiente per appartenere ad un Terz’Ordine, legato ad un Ordine o Congregazione.

La testimonianza dell’Amore misericordioso

3. Essi (sdfam) sono chiamati, innanzitutto, ad annunciare la pienezza di bontà di Dio Padre, il quale ama tutti i suoi figli e li vuole rendere felici: per questo in Gesù Cristo si è rivelato particolarmente ricco di amore e di misericordia, affinché l’uomo, anche il più malvagio e peccatore, non temesse di tornare pentito alla casa del Padre, per esservi di nuovo accolto in qualità di figlio.

La prima finalità di un sdfam riguarda il suo essere prete, il quale è anzitutto testimone dell’Amore Misericordioso del Padre, che si incarna in Gesù: l’annuncio è ovviamente verbale, ma è altrettanto ovvio che quello che il sacerdote dice passa soprattutto attraverso il suo reale atteggiamento, che deve far percepire la misericordia divina di cui parla; tale annuncio passa attraverso tutte le sue azioni sacerdotali, ma anche umane, ossia tutta la sua persona umana e sacerdotale deve essere improntata a far vedere e toccare la misericordia di Dio, poiché Dio in qualche modo è particolarmente presente alle persone proprio mediante la persona dell’uomo sacerdote. Ciò presuppone che l’uomo sacerdote sa di ciò che sta parlando, conosce a fondo la cosa perché, non solo l’ha studiata sui libri, ma l’ha conosciuta nella sua stessa storia personale, l’ha sperimentata in prima persona, in modo che il suo "racconto" sia un racconto di vita: ecco, più che annunciare, parlare, dire, egli sta raccontando la misericordia di Dio nella sua vita, sta raccontando ciò che ha visto, ciò che ha toccato, ciò che ha udito (cf. 1Gv 1,1 e ss.). Egli crede, ossia ha visto con i suoi sensi spirituali più profondi quello che non dubitano più i suoi sensi fisici più maturi. Quindi ha dovuto avere per forza un suo incontro con Dio Amore Misericordioso nella sua vita esperienziale, nonché nella sua vita di preghiera, dove ha potuto anche elaborare questa esperienza, e in qualche modo codificarla, sia per poterla capire lui stesso fino in fondo, comprendendo fino in fondo anche se stesso, sia per poterla poi trasmettere agli altri, come è del suo ministero sacerdotale. Particolarmente nel ministero della Confessione, luogo privilegiato della trasmissione misteriosa dell’Amore Misericordioso che perdona : tanto più ne sarà capace, quanto più egli stesso nella sua vita comprenderà la centralità decisiva di tale Sacramento nella sua esperienza di penitente a sua volta. Quanto più avrà pietà di se stesso, tanto più avrà compassione degli altri; quanto più si sentirà sulla stessa barca, tanto più comprenderà il bisogno di perdono che attanaglia ogni persona, anche quella che sembra più refrattaria a tale perdono e persino a chiederlo; quanto più comprenderà esperienzialmente sulla sua persona il bisogno di essere amato, compreso, capito e accettato così com’è, tanto più sentirà il bisogno di far capire tutto questo a qualsiasi persona, e soprattutto a fargli fare l’esperienza diretta, mediante anche la sua persona umana e sacerdotale, di questo essere capita, accolta, accettata e amata per come è, dandole anche la fiducia che viene dalla liberazione interiore profonda che ne consegue necessariamente: il sentirsi amati, infatti, spinge ed incoraggia a sua volta ad amare, a compatire, ad accogliere senza riserve, ad avere misericordia, infine.

La vocazione "religiosa" dei sacerdoti con voti

4. Entrando a far parte della famiglia dei consacrati, essi devono tendere con rinnovato impegno alla propria santificazione, così da conseguire una maggiore armonia tra vita interiore ed azione apostolica, al fine di operare più efficacemente per il bene delle persone loro affidate e per l’edificazione della Chiesa.

Qui si tocca il valore aggiunto che ha un sdfam rispetto agli altri sacerdoti diocesani. Infatti, egli, che è già un consacrato (messo a parte per il Signore, sia per il Battesimo, sia per l’Ordine), si consacra ulteriormente entrando tra le fila di coloro che assumono la vita religiosa come modo di vita del proprio cristianesimo. I religiosi sono persone cristiane che sentono insito il bisogno di appartenere al Signore in maniera esclusiva concretamente nella propria vita; vogliono appartenere solo a Lui; a Lui vogliono dare tutta la loro vita, il loro cuore, la loro mente, il loro corpo, i loro beni; Lui è il loro sposo, Lui il loro unico amico, Lui il loro tutto, come una sposa vuole per sé esclusivamente il suo sposo: Lui, infatti, è la sua unica causa, la sua unica ragione, la sua unica sussistenza; Lui la sua unica ragione di vita; di Lui, il consacrato, è innamorato; di Lui è appassionato; con Lui vuole sempre stare; non finirebbe mai di contemplarLo; non si stancherebbe mai di guardarLo; Lui solo seguirebbe dovunque; per Lui farebbe qualsiasi cosa; Lui solo ascolterebbe; da Lui solo aspetta di sapere cosa deve fare, in qualsiasi situazione, in qualsiasi istante; di Lui vuole sapere tutto, fin nei minimi particolari; di Lui vuole assumere il pensiero; di Lui vuole dire solo le sue parole; vuole parlare come Lui; vuole sentire come Lui; vuole agire come Lui; vuole guardare e vedere tutto ed ogni cosa come la vede Lui; vorrebbe entrare nel Suo intimo più profondo; vorrebbe conoscere i minimi particolari della Sua anima, dei Suoi moti più intimi; di Lui vorrebbe penetrare e conoscere fino in fondo il Suo segreto; vuole unirsi talmente a Lui da identificarsi con Lui, da non avere più il suo io ma l’Io di Lui, umano e divino insieme; vorrebbe respirare del Suo respiro; vorrebbe che il Suo sangue finalmente scorresse nelle sue vene; vorrebbe passare tutto il tempo con Lui; vorrebbe averLo presente continuamente, senza l’interruzione di un attimo di secondo; la sua mente la vorrebbe tutta piena di Lui; vorrebbe che il suo cuore scoppiasse perché pieno, stracolmo di Lui; vorrebbe abbracciarLo continuamente con passione diuturna fino allo sfinimento, fino alla morte; vorrebbe fissare i Suoi occhi, qualsiasi cosa stesse facendo nel banale della quotidianità; vorrebbe vederLo sempre, anche quando guarda il volto di altri; vorrebbe trovarLo ad ogni suo sguardo, qualunque sia l’oggetto su cui lo fissa; vorrebbe parlare continuamente con Lui; vorrebbe accoccolarsi tra le sue braccia, nel suo grembo, dentro il suo grembo, sentirne l’odore ed il calore, il suo respiro su di sé; vorrebbe morire, infine, piuttosto che rinunciare a tutto questo anche fosse solo per un attimo; vorrebbe sì morire per vederLo per sempre nella pienezza dell’eternità, senza più la paura di perderLo; vorrebbe condividere tutto di Lui, anche la Sua sofferenza, la sua Croce, la sua Morte, per non lasciarLo mai solo, anche in questi momenti tragici della Sua vita; una compassione struggente sente di fronte a Lui, come lo descrive Is 53; sente il fuoco che brucia, di fronte a Lui, del profeta Geremia, come questi stesso dice in Ger 20, 7; sente di poter morire, schiacciato dolcemente dal peso enorme della passione per Lui. Non si finirebbe mai di descrivere lo stato d’animo di un religioso di fronte a Lui, di ciò che lo spinge appunto a fare della sua vita una consacrazione nella vita religiosa. È vero che questo dovrebbe essere lo stato d’animo di un qualsiasi battezzato, ma è anche vero che poi non è così, per cui il religioso, con la sua scelta radicale in questa direzione, diventa un richiamo continuo per tutti a mantenere vivo questo ideale, rendendolo visibile proprio nella sua vita di tutti i giorni. È anche vero che non tutti i religiosi sono così, appunto, ma questo non toglie che alcuni lo fanno e diventano a loro volta un richiamo anche per i loro confratelli a mantenere vivo quell’ideale antico che li ha portati a quella scelta radicale un giorno, una scelta di santificazione, che anche i sdfam fanno scegliendo questa ulteriore consacrazione, la terza, nella loro vita, una santificazione anzitutto per se stessi, e apostolica nello stesso tempo, a causa della testimonianza fulgida che ne consegue, senza fare altro che non sia già vivere questo ideale concretamente, nello spicciolo della vita quotidiana, ossia vivere esclusivamente di Lui e per Lui soltanto.

Il fondamento dell’azione caritativa della vita religiosa

"Così da conseguire una maggiore armonia tra vita interiore ed azione apostolica". In questa frase c’è delineata in nuce la seconda motivazione della vita consacrata, che per un sdfam assume una duplice veste, sia in quanto religioso, sia in quanto sacerdote in se stesso. La motivazione apostolica generale della vita religiosa già l’abbiamo sottolineata nel parlare pocanzi della testimonianza e del richiamo a tutti di fare di Dio l’Assoluto delle proprie vite; resta poi da specificare la missione apostolica particolare che si traduce nelle opere riconoscibili di carità in genere, e di educazione, assistenza ai poveri, ai malati e quant’altro in specie, per cui si caratterizza la vita apostolica di una specifica Congregazione, nata per rispondere ad un bisogno storico preciso che si può più o meno perpetuare nel tempo. La motivazione apostolica di un prete è definita dalle parole seguenti "il bene delle persone loro affidate e l’edificazione della Chiesa", ossia condurre il gregge alla salvezza di Gesù Cristo, mediante le azioni prettamente sacerdotali, ma incarnate nel senso cristologico da un uomo, perché questo gregge diventi nello stesso tempo e alla fine il popolo di Dio, la Chiesa, il Corpo di Cristo, figli nell’Unico Figlio, che è poi il coronamento finale della salvezza stessa di Cristo.

Un prete già di per sé ha tutte le potenzialità per fare questo, ma è anche un uomo, che ci mette tutta la sua vita a mettere insieme questa sua doppia natura, di prete e di uomo, poiché il prete non esiste in astratto, ma è Gesù Cristo stesso, ma, come Lui, è un uomo che, a differenza di Gesù, è però anche peccatore; quindi, mentre in Gesù l’identificazione del Sacerdote e dell’uomo era, diciamo, connaturale, essendo l’Io costitutivo quello divino anche per la parte umana, nell’uomo che è anche prete c’è una distanza proprio tra il prete e l’uomo, a causa della fragilità dell’uomo stesso; e come esiste una distanza da colmare tra il battezzato, nuova creatura, e la creatura medesima che resta con le ferite del peccato originale, benché questo viene tolto, ma non quelle, con il Battesimo, così la stessa cosa avviene nel prete, che anzi deve colmare due distanze, ossia quella tra il battezzato e l’uomo ferito, e tra l’ordinato e il medesimo uomo ferito; quanto più diminuisce la distanza tra il battezzato e l’uomo ferito, tanto più diminuisce la distanza tra quest’ultimo e l’uomo ordinato; però nel prete questi due processi non avvengono in successione di compimento, ma contemporaneamente, con uno stress maggiore che è facile immaginare, per il doppio sforzo, ma nello stesso tempo è anche più facilitato questo uomo ferito nel colmare le due distanze, perché l’Ordine aggiunge la sua grazia a quella del Battesimo per tutti; ossia, nell’Ordine il prete trova una via particolare nel colmare la distanza che c’è già tra il battezzato e l’uomo ferito, una via, direi, privilegiata, in vista del compito di guida, santificazione e istruzione che il prete ha nei confronti del popolo di Dio. Come dire che è aiutato di più e più velocemente per l’urgenza che si ha nel soccorrere il resto dei fratelli, più potenziato per sostenere tutto il peso del popolo a lui affidato, suo malgrado. E la facilitazione è proprio nel far loro, ai preti, "conseguire una maggiore armonia tra vita interiore e vita apostolica". Per fare questo ci sono varie strade, penso particolarmente a far conoscere al prete tutta la profondità teologica e spirituale del suo stato sacerdotale, dandogli anche i mezzi concreti, gli strumenti, come la preghiera, oltre che lo studio sapienziale, al fine di un incontro sempre più saputo della persona stessa di Cristo, un incontro che alla fine è un incontro di amore tra due persone, che si danno l’un l’altro in maniera totale e totalizzante le loro vite, in relazione l’una con l’altra. La vita consacrata nella forma della vita religiosa in genere assolve particolarmente a questa esigenza.

I sdfam così sono dei preti secolari, in se stessi, che usufruiscono, pur rimanendo preti diocesani in se stessi, dei mezzi di santificazione della vita religiosa, trovando in questo connubio, pur rimanendo nella loro condizione originale di preti secolari, quell’armonia tra vita interiore, come l’abbiamo descritta nell’art. precedente, ed azione apostolica tipica del sacerdote secolare. I sdfam hanno così più strumenti in mano, rispetto ai loro confratelli diocesani, per ridurre la famosa doppia distanza tra il battezzato e l’uomo, e tra il medesimo uomo e l’ordinato. Questo li distingue e dal religioso in se stesso e dal prete secolare in sé: poiché il religioso non ha la stessa "vocazione" apostolica del prete diocesano, né il prete secolare ha la stessa vocazione religiosa, ma il sdfam le ha ambedue in un connubio nuovissimo, e per certi aspetti misterioso, nonché profetico, perché riesce a sintetizzare in sé le differenze storiche e funzionali, che in verità al fondo non sussistono, perché al fondo c’è solo un uomo in rapporto con Gesù per l’eternità. È una profezia non solo del futuro, ma della lettura profonda della realtà radicale, che poi sarà anche quella ultima dei tempi escatologici, in quanto nell’eternità piena della gloria non ci sarà più bisogno né del religioso, né del prete, perché tutto è finalmente diventato uno con Gesù Cristo, ragione per cui sussistono ed agiscono terrestramente ambedue le due vocazioni, anche se la gloria e la grazia dei due stati di vita, nella singola persona, restano fissi anch’essi nell’eternità, particolarmente per quello sacerdotale.

La missione primaria della cura al clero

5. Essi sono tenuti, inoltre, a perseguire con particolare interesse il fine primario della Congregazione, a norma delle Costituzioni, operando per l’unità del clero diocesano e la sua santificazione, in spirito di concreto servizio fraterno.

Dopo la finalità dell’annuncio dell’Amore Misericordioso, e dopo la finalità del conseguimento della santificazione, nonché della maggiore armonia tra vita interiore e vita apostolica, mediante l’appartenenza alla famiglia dei consacrati, si arriva ora alla finalità prioritaria della Congregazione FAM, ciò per cui è stata posta particolarmente nella Chiesa tale Congregazione: operare "per l’unità del clero diocesano e la sua santificazione, in spirito di concreto servizio fraterno".

L’enunciato sulla cura del clero è chiaro nel parlare della fraternità sacerdotale e della cura dei preti ai fini di una sua santificazione: due proposte che si sposano perfettamente con i fini della vita consacrata in genere, quali appunto la santificazione del singolo, nonché la vita di comunità e l’azione caritativa; valori che sono suggeriti a tutti i cristiani, specialmente i primi due, particolarmente ai sacerdoti a maggior ragione, dal compito profetico della vita religiosa, che essa svolge vivendoli essa stessa in prima persona. Il sdfam ha quindi come compiti prioritari, contestualmente con l’annuncio e la testimonianza della misericordia e il perseguimento della sua personale santificazione, che fanno da sfondo generale: fomentare la fraternità e l’unità tra i sacerdoti, particolarmente i condiocesani, nonché adoperarsi per la loro cura in tutti gli aspetti perché possano conseguire la santità nelle loro vite personali e ministeriali.

TESTIMONIANZA ECCLESIALE

Il carisma religioso della missione al clero

6. L’unione alla Congregazione consente ai Sacerdoti Diocesani Figli dell’Amore Misericordioso, di offrire una chiara e tipica testimonianza ecclesiale, conforme alla natura della vita consacrata.

Un sacerdote diocesano, volendo, può operare di suo per fomentare la fraternità sacerdotale, nonché curarsi dei suoi confratelli: a Roma, in particolare, ciò è possibile per la normale convivenza dei sacerdoti in servizio presso le parrocchie, e quindi, vivendo insieme, specialmente da parte di un parroco, c’è l’opportunità di prendersi cura concretamente dei confratelli che vivono nella stessa casa (rimando ad un mio articolo, apparso in più puntate sulla Rivista del Santuario nel 2010, in cui proprio si racconta come avviene questa convivenza e cura del clero che vive in parrocchia, secondo la mia personale esperienza). Quindi, cosa aggiungerebbe l’entrata a far parte dei sdfam? Come dice il testo appena citato, la "testimonianza ecclesiale, conforme alla natura della vita consacrata", ossia il sacerdote sdfam non opera più solo a titolo personale, e con la sua sola personalissima virtù, ma con la forza di un Carisma ecclesiale, che ha appunto, nella fattispecie, la vocazione alla costruzione della fraternità sacerdotale, nonché alla cura del clero. Non farebbe questo da solo, ma con una comunità alle spalle che lo supporti, e lo contestualizzi proprio in una fraternità e in una cura vissuti concretamente in una famiglia religiosa, dandogli adito di raccontare quello che sa, perché lo vive e lo sperimenta tra dei fratelli. È con questa forza che compie così la sua opera di costruttore di fraternità e di curatore delle singole persone; una forza non solo per la sua persona, fisica, morale e spirituale, ma una forza che è quella di un dono dello Spirito a vantaggio di tutta la Chiesa, quale è per un carisma ecclesiale, inserito e trasmesso storicamente dentro e per mezzo di una Congregazione specifica, e che passa attraverso anche la sua persona, con le sue capacità naturali e virtù proprie. Non è più solo una sua "missione" personale, ma un dono dello Spirito riconosciuto dalla Chiesa, e portato avanti non da un singolo, ma da tutta una Congregazione, legittimata per questo dalla stessa Chiesa.

La testimonianza della comunione

In tutto ciò è prioritario che tutti i membri della Congregazione FAM, nella fattispecie, compresi i sdfam, vivano veramente la fraternità sacerdotale, nonché l’annessa cura dei confratelli, perché chi li vede dal di fuori possa apprezzare il loro vivere in comunità, ed innamorarsene, al punto di volerlo condividere, o con loro o con altri. Deve avvenire, con la loro testimonianza ecclesiale, quello che dice Gesù in Gv 13, 34-35 e Gv 17, 20-23, in particolare: "affinché tutti..., da questo tutti... credano, siano uno". Dovrebbe essere per tutti i cristiani nella Chiesa questa realtà, ma proprio perché la vita consacrata ha il compito di richiamare tutti a dei valori che già tutti dovrebbero vivere, ma non è così, la Congregazione FAM ha il compito di richiamare proprio il valore della fraternità, frutto e strumento principe dell’Amore Misericordioso, specialmente tra i sacerdoti, nonché l’annessa cura dell’uno per l’altro, perché questi valori possano in qualche modo essere sempre presenti alla coscienza ecclesiale in genere e presbiterale in specie, con ricaduta per tutto il corpo ecclesiale, visto il particolare compito di guida e testimonianza del corpo sacerdotale all’interno di esso. Infatti, dal vissuto comunionale degli stessi sacerdoti tra loro, ne scaturisce una testimonianza che va nella direzione propria auspicata da Gesù, in quanto i sacerdoti presiedono alla comunione di tutto il corpo ecclesiale, e questo quanto più essi stessi vivono questa comunione anzitutto con chi è più vicino a loro, ossia gli altri sacerdoti, a cui sono legati misteriosamente in virtù dell’Ordine, oltre che per il vincolo battesimale, comune a tutti i cristiani. Tutto ciò accresce le possibilità effettive della comunione ecclesiale, che è a sua volta alla base della testimonianza al mondo come la desiderava e la desidera Gesù stesso. È l’amore infatti che è la migliore testimonianza di Gesù e del suo Vangelo in faccia al mondo, l’amore vissuto e quindi raccontato, più che l’annuncio di una dottrina a tavolino, soprattutto quando la dottrina non è legata ad un vissuto reale e concreto di chi la enuncia, specialmente se si sta parlando dell’amore, e dell’amore di Dio per noi peccatori, l’Amore Misericordioso.

Il sacerdote: chi è costui?

7. Attraverso l’effettiva prassi dei consigli evangelici assunti in maniera istituzionalizzata, essi, si danno totalmente a Dio amato sopra ogni cosa e si pongono alla sequela del divino Maestro al di là della stretta misura del precetto, per seguirne più da vicino gli esempi e gli intendimenti, sotto l’azione dello Spirito Santo.

In questa prima parte dell’art., si riprende quanto già si era in parte detto addietro, riguardo in particolare al perseguimento della propria santificazione. Di per sé il sacerdote già in se stesso persegue una particolare santificazione. A questo punto mi si impone la domanda: chi è il prete, allora? Un funzionario del sacro? Un cristiano con delle mansioni particolari nella Chiesa, come tante altre mansioni svolte da altri cristiani laici? Ecco, un laico con alcune funzioni ministeriali? Le sue funzioni, sia pure particolari, caratterizzano completamente la sua vita, oppure sono funzioni avulse dalla sua vita come è organizzata? Un laico quindi che lavora come tutti, che ha famiglia come i più, e che svolge un servizio ecclesiale, finito il quale egli ritorna a casa sua dalla sua famiglia, finché domani sarà un altro giorno? Oppure il prete non è più semplicemente un cristiano come tutti, ma la sua funzione e il suo essere cristiano e uomo diventano un tutt’uno e che, se ciò non avvenisse, sarebbe un uomo lacerato gravemente al suo interno? Il prete, insomma, è un consacrato (messo a parte) o uno tra i tanti, sia pure con delle funzioni speciali, ma a tempo? La tradizione ecclesiale ne ha fatto un consacrato, ossia un messo a parte, sul modello dei sacerdoti dell’Antico Testamento. Ma tant’è, nella percezione generale ecclesiale, il prete è un consacrato e sacro in qualche modo, perché appartengono comunque al sacro le cose che lui tratta, perché l’approccio al sacro da parte di tutti riveste sempre qualcosa di incerto, titubante, misterioso, sconosciuto, qualcosa che sfugge, ma che si ha la sensazione che sia comunque presente, che ci sovrasta, che ci circonda, e che non possiamo controllare, anzi, che siamo in qualche modo controllati da esso. Il prete resta sempre qualcosa di strano e misterioso, anche in mezzo a questa cultura occidentale disincantata, "adulta", materialista e dissacratoria, anche quando il prete fa di tutto per farsi disprezzare come uomo immorale e criminale a volte. Per tutti siamo sempre degli esseri messi a parte, consacrati, che non appartengono mai alla ferialità della vita.

Le tre consacrazioni: battesimale, sacerdotale e religiosa

In verità un prete ha già una vocazione di speciale consacrazione, dopo quella del battesimo: già ho detto che il ministero, se sposato con tutta la propria persona, fino alle estreme conseguenze, fa del sacerdote un alter Christus, il consacrato per eccellenza al Padre. Rimando per i particolari al commento fatto addietro; se le cose stanno allora così: che senso ha una ulteriore consacrazione per un sacerdote? Cosa aggiunge di più? Di per sé, anche un battezzato è già consacrato, messo a parte per il Signore, rispetto agli altri uomini non battezzati. Il battesimo non serve solo a salvare il battezzato; anzi detta così la cosa non sarebbe esatta, perché così si verrebbe a dire che solo chi è battezzato è salvo; se così fosse allora la maggior parte dell’umanità sarebbe già condannata. In realtà il battesimo salva nel senso che prende un uomo e lo dedica alla salvezza degli altri uomini, compresi quelli che non saranno mai battezzati in questa vita terrena: così, un battezzato si salva, sì per il battesimo ricevuto, ma perché soprattutto, in virtù di esso battesimo, è posto in condizione di poter salvare altri, come a dire che un battezzato si salva se salva, altrimenti, no; di qui il legame inscindibile tra battesimo e cresima, che è il sacramento specifico che mette il battezzato in condizione piena di testimoniare il Cristo agli uomini, ossia, in altre parole, di porre in condizione di poter essere salvati anche gli altri uomini, battezzati o meno. La testimonianza cristiana, infatti, non è solo parlare di Lui a qualcuno, ma è far partecipe della salvezza di Lui qualcuno. È inserire qualcuno, battezzato o no, nella persona stessa del Cristo, più o meno consapevole la persona: il battezzato-cresimato che compie tale opera di testimonianza, naturalmente non si può limitare alla semplice testimonianza senza pagare nulla di persona, anche in termini di offerta di sé e della sua sofferenza personale, partecipando così al sacrificio redentivo del Cristo, in termini di preghiera, infine. Ecco, il battezzato è uno che si fa una cosa sola con Gesù e con la sua missione salvifica nei confronti del mondo, ed è per questo che può fare molto per la salvezza di qualcuno, anche se questo qualcuno non sarà mai materialmente battezzato. La mia offerta, unitamente a quella di Cristo e alla sua persona tutta intera, pagherà il prezzo del riscatto per la salvezza di qualcuno, con la moneta dell’amore che si sacrifica per il bene dell’altro, sullo stesso modello del sacrificio di Cristo: un sacrificio d’amore, così grande da poter coprire tutta l’esigenza dell’amore da parte di Dio che ha diritto a questo amore da parte delle sue creature. Questa unione sacrificale del battezzato con Gesù, richiede una unione con Lui totale, una trasfigurazione del battezzato con Lui, un trasformarsi di lui in Lui, un perdere il proprio io a favore dell’assunzione per sé dell’unico Io, quello del Cristo, l’unico interlocutore del Padre. Quindi, in questo senso, un battezzato è già di per sé un consacrato. Perciò, a che serve una ulteriore consacrazione ai fini di una santificazione? A che serve la consacrazione religiosa se già qualsiasi battezzato è un consacrato al Signore, essendo una cosa sola con Lui? È lo stesso quesito a cui si era arrivati poco sopra a riguardo del prete: a che serve che questi si consacri ulteriormente, visto che per l’unione con Gesù sacerdote, questi è già un consacrato? E che consacrato! Il battezzato e il prete sono già ambedue consacrati, ciascuno a titolo particolare, per la salvezza degli uomini: cosa aggiunge la consacrazione religiosa? La consacrazione sacerdotale, rispetto alla consacrazione battesimale, è comprensibile per le sue funzioni indispensabili sacramentali, magisteriali e di guida per tutto il corpo ecclesiale, ma la consacrazione religiosa cosa aggiunge a ciascuna di esse, visto che già di per se stesse esse garantiscono l’unione perfetta col Cristo per la propria salvezza e l’altrui?

È la distanza tra quello che siamo e ciò che dovremmo essere che giustifica il senso della vita religiosa. Sia in se stessa, in quanto volontà pratica di appartenere totalmente a Lui, sia in relazione a tutti i cristiani, preti e laici, per ricordare a tutti costoro che Dio deve essere l’Assoluto della propria vita. Insomma, per i preti la vita religiosa diventa un appello continuo a vivere il tutto del proprio essere prete, che già in sé è una dedicazione totale a Lui, mentre per i laici, qualunque sia il loro stato di vita, compreso il matrimonio ovviamente, è anche per loro un appello continuo a vivere in pieno il loro battesimo, e la cresima, per essere sempre di più quello che già sono, un tutt’uno con Gesù Cristo, e questo integrando in questo tutt’uno con Lui anche tutto quello che costituisce la loro vita, il lavoro, la famiglia, gli amici e quant’altro. Quando, poi, un laico o un sacerdote decidono di farsi religiosi, lo fanno per quelle motivazioni personali sopra indicate, ma anche per assumere quel loro ruolo profetico della vita religiosa, che è il richiamo a tutti di fare di Lui il tutto della propria vita. In particolare un prete con la sua vita dirà agli altri preti in particolare di essere preti a tutto tondo e di vivere loro per primi tra loro la carità e la comunione, a cui per ufficio sono chiamati a presiedere gli altri della comunità ecclesiale; mentre il laico religioso, sempre con la sua vita, dirà a tutti gli uomini e le donne della Chiesa in particolare che è possibile vivere a pieno il proprio battesimo, e cresima, e così essere tutti di Lui, perché a Lui tutto appartiene, noi stessi con tutte le nostre vite e ciò che le riempiono in tutti gli ambiti. Di per sé, in questa ultima testimonianza religiosa c’entrano anche i religiosi sacerdoti ovviamente. Tutti i religiosi hanno queste funzioni, senza distinzione particolare dei destinatari, sacerdoti o laici che siano, mentre i sdfam avranno una dedicazione speciale per i loro confratelli diocesani, oltre che per tutti gli altri normalmente.

La consacrazione dei sacerdoti con voti

Ecco quindi l’originalità dei sdfam, ossia di preti diocesani, che restano tali, ma nello stesso tempo, sono anche religiosi a tutto tondo: hanno tutte le caratteristiche di santificazione propria e di testimonianza dei religiosi, sia sacerdoti che "laici", ma anche le caratteristiche di santificazione propria e di testimonianza e azione ministeriale proprie dei sacerdoti diocesani, particolarmente per i confratelli diocesani; come già accennato addietro, hanno però tutto questo in una sorta di sintesi profetica, sia per quanto condividono con le altre vocazioni, sia per quello che queste vocazioni saranno nel futuro eterno, senza più distinzioni, in quanto lo scopo per il loro sussistere in questa terra sarà finalmente raggiunto in quel ricapitolarsi di tutto e di tutti in Gesù Cristo.

In concreto, venendo ai voti veri e propri, quei "consigli evangelici assunti in maniera istituzionalizzata", assunti "al di là della stretta misura del precetto", è chiaro che in qualche modo il sacerdote diocesano già vive la castità, l’obbedienza e la povertà, benché ognuno di essi siano stati assunti in modo diverso da come li assumono i religiosi. Infatti, il diocesano non fa voto di castità, ma la promessa di celibato, ossia non si sposa; ciò non vuol dire quindi che egli possa non essere casto, poiché la castità totale è per tutti coloro che non sono sposati, anche se non hanno alcuna intenzione di una consacrazione speciale a riguardo; il diocesano non fa voto di obbedienza, ma una promessa di obbedienza al suo vescovo per quello che concerne l’ufficio che viene ad assumere, tenendo fuori da questa obbedienza la conduzione e i particolari della propria vita privata, quando non confligga con lo stile pubblico di vita e il ministero concreto; il diocesano, infine, non fa voto di povertà, e neanche nessuna promessa al suo vescovo a riguardo, ma è auspicabile che egli conduca una vita che non sia in manifesta dissonanza con quanto viene a predicare ai fratelli e le sorelle su uno stile di vita evangelico a cui tutti noi cristiani siamo chiamati, a maggior ragione chi ha voluto seguire più da vicino il Cristo, quale è l’intenzione antica di un prete anche se diocesano. Perciò non assumerà necessariamente uno stile di vita povero e condiviso con altri, ma comunque condurrà auspicabilmente uno stile di vita sobrio riguardo l’uso dei beni di questo mondo, specialmente quelli non necessari, quando non dichiaratamente superflui. È chiaro che una macchina è utile e necessaria, ma non una rolls royce; una tv anch’essa è utile e necessaria, ma non un modello da 3-4000 euro. Se poi tutti siamo chiamati a guardare ai bisogni dei poveri, è chiaro che un prete dovrebbe avere in questo senso un occhio di riguardo, per regolarsi sul risparmio sia pure prudente in vista della vecchiaia. A questo punto allora che cosa aggiungerebbero i voti religiosi di uno sdfam?

I voti religiosi del sacerdote sdfam

La risposta la dà il seguito del numero che stiamo studiando:
In tal modo, oltre che richiamare tutti i battezzati sul valore comune di questi atteggiamenti evangelici, essi svolgono una funzione profetica in mezzo ai confratelli diocesani i quali, in virtù dello stesso sacro ministero, sono chiamati a conseguire la virtù della castità, della sobrietà di vita e dell’umile obbedienza.

Come i religiosi sono profeti per tutti in tale senso, come richiamato anche per i sdfam nei confronti di tutti i battezzati, i sdfam lo sono in modo particolare, come già detto, per i loro confratelli diocesani: chiamano i loro confratelli, da diocesani come loro, a vivere comunque in profondità i loro impegni di castità, obbedienza e povertà, sia pure vissuti nel loro particolare stato di vita, non accontentandosi del minimo indispensabile, misurando così l’amore, che se è misurato, specialmente al minimo, non è più amore. Non sono i religiosi che gli ricordano questo, ma dei loro confratelli che, con la grazia della vita religiosa, ricordano loro la profondità degli ideali che sono alla base della loro scelta di vita sacerdotale. Non sono degli "estranei" che gli ricordano questi ideali, ma gente della loro casa, della loro stessa famiglia, della loro stessa razza, gente che trova quel di più per aiutare gli altri nell’assumere gli obblighi e lo stile della vita religiosa, pur rimanendo sostanzialmente nello stesso stile di vita dei confratelli diocesani, anche se tale stile è maggiorato nei supporti e nella profondità dalla fraternità di una comunità, facendo anzi vedere con quest’ultima tutti i vantaggi spirituali e umani per vivere al meglio lo stesso stato sacerdotale diocesano. Come dire che per vivere al meglio la vita sacerdotale secolare, la fraternità sarebbe un mezzo eccellente, e vistone i vantaggi, sarebbe anzi un mezzo imprescindibile e praticamente obbligatorio, se non altro per una questione di puro buon senso. Portate all’estremo di tutte le conseguenze, tutte le vocazioni di speciale consacrazione, nei loro zenit, non si differenziano più, compreso lo stato semplicemente battesimale, e congiungono così la vita reale dell’oggi con la perfezione futura dell’eternità e della gloria. Sarebbe così colmata quella famosa distanza che c’è purtroppo, a causa della debolezza che ci ha lasciato il peccato originale, tra quello che siamo e quello che dovremmo essere, di cui parlavamo addietro nel nostro discorso. Il cerchio sarebbe così chiuso. Ecco, i sdfam sono una vocazione che contribuisce a chiudere questo cerchio, una ulteriore vocazione nelle altre vocazioni, poiché il sdfam le comprende tutte, per accorciare sempre di più quella drammatica distanza, che rende meno fulgida la testimonianza cristiana della Chiesa in questo mondo. Soprattutto nei confronti del presbiterio diocesano, così insostituibilmente primario nell’ambito di questa testimonianza ecclesiale. Veramente i sdfam sono la punta di diamante di tutta la missione eccellente dei FAM nei confronti del clero. Dai sdfam, in particolare, si capisce tutta la grandezza e l’urgenza imprescindibile della missione FAM nel mondo!

La vita comune

8. Inoltre, attraverso la pratica della vita comune, animata dalla carità, essi attestano il valore dell’intima fraternità sacerdotale che unisce i ministri sacri e si pongono in condizione di superare più facilmente i pericoli dell’isolamento.

In questa prima parte dell’art., che affronta il discorso della fraternità sacerdotale, che si esplica nella pratica della vita comune, si mette in luce l’aspetto fondante di questa fraternità, in qualche modo legata all’intima natura del sacerdozio stesso. Infatti, è l’Ordine sacro che mette in questa condizione gli stessi ministri, al di là delle tendenze psicologiche dei singoli, i quali possono o meno avere la tendenza naturale alla vita comune e alla fraternità in genere. Come dire che non è questione di chi è portato o meno alla comunione, ma si tratta di qualcosa che fa parte dell’ontologia dello stesso sacerdozio: se così fosse, come, credo, sia, allora il discernimento sulla vocazione sacerdotale o meno di un soggetto, va fatto anche tenendo conto di questo aspetto, che invece fino adesso è stato abbastanza surclassato, come non particolarmente necessario ai fini di una verifica vocazionale. L’Ordine sacro include in se stesso il concetto di Sacerdozio collettivo, ossia il Sacerdozio unico, e nella sua interezza, di Cristo, di cui partecipano i singoli sacerdoti, anche con le loro debolezze. Infatti, il Sacerdozio in se stesso, e considerato nella sua storicità umana, è qualcosa di enorme, troppo grande per le fragili spalle di un solo uomo. Solo Cristo, l’Unico Eterno Sacerdote, che coincide con il Sacerdozio stesso, può sopportarne tutto il peso. È impensabile che quel Sacerdozio di Cristo possa essere sopportato da un semplice uomo, sia per la sua limitatezza ontologica, sia per il suo limite morale, dovuto all’eredità del peccato originale.

Tra il sacerdozio dell’Antico Testamento e il Sacerdozio del Nuovo Testamento c’è un abisso ontologico: i sacerdoti antichi non avevano alcun potere di salvezza, e i loro gesti sacrali non andavano al di là di una intercessione vocale, come portavoce delle istanze del popolo, senza avere alcun potere di esaudimento. Il Sacerdozio cristico, invece, è un Sacerdozio che partecipa dei poteri di Cristo stesso ed ha quindi efficacia salvifica, alla stregua di Gesù. Un sacerdote del Nuovo Testamento ha i poteri di Cristo, e la Salvezza di Cristo passa attraverso la carne di un sacerdote. Ma questo sacerdote resta nello stesso tempo un uomo, parte del popolo anch’egli, condividendone quindi anche tutte le fragilità per cui egli chiede e ottiene, per mezzo suo stesso, l’esaudimento ai fini del perdono e della conseguente salvezza. Sicché un prete si trova nella spiacevole situazione di essere salvatore e nello stesso tempo salvato, ma anche non salvato, a causa del suo non pentimento, mentre contemporaneamente salva gli altri. Egli vive tutta la drammaticità della condizione di peccato insieme agli altri, e nello stesso tempo, smettendo di preoccuparsi della sua salvezza personale, si deve dar da fare per la salvezza altrui. È come un medico malato che cura gli altri mentre egli sta morendo a causa della malattia da cui sta guarendo gli altri stessi. Muore mentre fa vivere gli altri. È qualcosa di terribile, specialmente quando la sua stessa malattia può inficiare la salvezza altrui, mettendolo non in grado a volte di assolvere al suo compito. Da lui può dipendere in qualche modo la salvezza altrui, e perciò potrebbe essere caricato di un ulteriore peccato, oltre quelli che già ha accumulato nella sua vicenda personale, qualora non si adoperasse per la salvezza degli altri, a causa della sua debolezza impenitente. Troppa responsabilità! Ecco la necessità teoretica e pratica che questo Sacerdozio di Salvezza sia condiviso e portato contemporaneamente anche da altri. Da qui il Sacerdozio collettivo: esso permette di riparare le colpe ministeriali dell’uno, grazie alle virtù dell’altro, sempre a favore della salvezza del popolo, che così non subisce alcun ritardo e nocumento per le colpe dei singoli ministri. Come anche le virtù di uno aiutano l’altro nell’efficacia del proprio Sacerdozio, sempre a favore dell’intero popolo di Dio. Questo è possibile perché c’è un Sacerdozio condiviso, un unico Sacerdozio, e di conseguenza un unico Corpo sacerdotale, perché unico è il Sacerdote, che è appunto Cristo. L’Ordine è la fonte unica di quest’unico Sacerdozio, la fonte primigenia dell’unico Corpo sacerdotale. Come in Cristo c’è un unico Corpo Ecclesiale, che è il Popolo di Dio, così sempre in Cristo c’è un unico Corpo sacerdotale, che è il presbiterio. Come c’è un legame ontologico-cristologico tra tutti i membri della Chiesa, così c’è un legame indissolubile ontologico-cristologico tra tutti i sacerdoti; e come la comunione tra tutti i fedeli è la meta ultima della Salvezza di Gesù, così la comunione tra tutti i sacerdoti è la meta ai fini di una salvezza piena di Cristo. È da tutto questo che nasce ontologicamente e cristologicamente la fraternità sacerdotale.

Noi preti già siamo questa unità indissolubile, come tutti i membri dell’intero popolo di Dio, di cui facciamo parte: dobbiamo colmare la distanza tra ciò che siamo e quello che dovremmo essere anche moralmente e nella nostra autocoscienza. La vita di comunità, frutto di volontà morale e di autocoscienza, è il modo unico e imprescindibile di accorciare le distanze, sia all’interno del Corpo sacerdotale, sia all’interno dell’intero Corpo ecclesiale. Tanto più che, come dicevo addietro, il Corpo sacerdotale presiede alla comunione dell’intero Corpo ecclesiale. Ecco perché è contraddittorio alla radice dell’essenza del sacerdozio che ci possano essere preti che non vogliano vivere in comunità, o perlomeno non vogliano vivere alcuna forma di fraternità sacerdotale. Che la storia abbia portato a cristallizzarci su questa posizione "isolata" è frutto solo del peccato originale e delle sue conseguenze; ma non possiamo rassegnarci a questo, specialmente ora che abbiamo preso più coscienza della cosa, anche sulla spinta delle conseguenze pratiche che questo isolamento sacerdotale ha portato. Oggi tutto questo è più evidente perché la storia cammina, compresa quella della salvezza, e quindi ora siamo ad un punto in cui le contraddizioni del passato sono arrivate ad un estremo tale che ora stanno esplodendo in tutta la loro drammaticità, mettendo chiaramente a nudo il negativo che comunque, sia pure meno evidente, si annidava già nel passato. La fraternità sacerdotale rimedierebbe così sia alle contraddizioni, oggi arrivate ad un punto di non più tollerabilità, sia alle conseguenze pratiche di queste contraddizioni, quelle che il testo chiama "i pericoli dell’isolamento". Si potrebbe benissimo concludere, in base al discorso fatto finora, che il more religiosorum sarebbe la forma di vita sacerdotale più adatta storicamente, rispetto al tradizionale isolamento in cui è stata stagliata finora la vita sacerdotale secolare in genere.

L’esempio della vita comune

Così fomentano in modo concreto (i sdfam) una consuetudine di vita comune tra il clero, in vista dell’esempio che ne deriva ai fedeli e dei vantaggi apportati ai sacerdoti: alimentare la vita spirituale e l’impegno ascetico; custodire e rafforzare la castità; curare la vita intellettuale e la formazione permanente; favorire la collaborazione nel ministero; ridurre le spese di sostentamento.

Questa seconda parte dell’art. 9 del presente Statuto riprende tutto il valore della testimonianza della comunione in faccia e alla comunità e al mondo. Particolarmente i sacerdoti, che presiedono alla carità e alla comunione, sono deputati a questo tipo di testimonianza perché è il modello principe di essa stessa, in base alle stesse parole di Gesù, specialmente in Gv 13, 34-35, "Amatevi gli uni gli altri, come Io ho amato voi. Da questo riconosceranno (gli altri) che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni gli altri". Come a dire che tutto il resto che possiamo fare non potrà mai sostituire la potenza della testimonianza ecclesiale della comunione. Una comunione che non è basata sull’amore umano semplicemente, in una sorta di buona compagnia dove l’armonia regna sovrana: neanche questa sarebbe sufficiente per una autentica testimonianza ecclesiale; la comunione di cui si parla è basata invece sull’amore di cui è capace Gesù Cristo stesso, con la potenza del suo Spirito, lo stesso del Padre, e che lega il Padre al Figlio e viceversa, e che è all’origine della creazione e della stessa redenzione. "Come Io ho amato voi", non è solo un richiamo al fatto che , come ha fatto Gesù, dobbiamo fare anche noi, ma è una esplicitazione chiara sulla qualità dell’amore, un amore divino, di cui siamo capaci anche noi, se fossimo veramente (anche esistenzialmente) uniti in modo indissolubile a Gesù. In altre parole, la comunione ecclesiale parte dal rapporto intimo e stretto tra Gesù e il singolo fedele, un rapporto tale di intimità, di unificazione, da essere più una trasfigurazione di noi in Gesù, al punto che non c’è più il mio "io", ma l’ "Io" di Cristo che autocoscientizza me; perciò, come diretta conseguenza, io amo col suo Cuore. È questo Cuore in me che parla, che testimonia, fa presente il Cristo nell’oggi del mondo. È il Cristo che testimonia, è il Cristo che converte, è il Cristo che annuncia, ed io devo essere questo Cristo, colui che vive perennemente nella comunione trinitaria: "Chi vede me vede il Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola" (cf. Gv.14). Perciò io sono il Cristo che è in comunione col Padre e con i fratelli. Quando questa comunione si realizza per la reciprocità dello stesso Amore, che è lo Spirito Santo, allora noi facciamo presente la Trinità di Dio: cosa altro può testimoniare di più che questo?

Tutto ciò è dell’intera comunità, dell’intera Chiesa; a maggior ragione è dei preti, che, come già detto più volte, presiedono a questa comunione, in virtù del legame sacerdotale col Cristo, che è il principe di questa comunione, il capo della Chiesa, il capo del Corpo mistico. È paradossale che invitiamo tutti alla comunione e poi noi preti per primi non la viviamo, perché la comunione non è qualcosa di astratto, ma qualcosa che si vive nello spicciolo del quotidiano, e non attraverso contatti fugaci ed occasionali, che lasciano il tempo che trovano, ma essa comunione si vive nella diuturnità di rapporti feriali continuati, come per esempio in una famiglia vera e propria, o in una comunità di vita sotto lo stesso tetto, alla stessa mensa, negli stessi luoghi di vita di cui è fatta la nostra quotidianità. Un prete non può vivere invece da solo, senza il laboratorio di questa comunione feriale, in cui uno si esercita a vivere la comunionalità, la fraternità in carne ed ossa, guardando a volti precisi, entrando in occhi precisi e conosciuti, con un cuore umano che ha degli affetti duraturi per questi stessi volti, per cui gode di guardare dentro questi occhi: da una esperienza di questo tipo un prete trae la forza e le modalità di esercizio di una comunione più estesa, perché parlando di essa fa sentire anche che egli sa di quello di cui sta parlando, e che non l’ha appresa solo dai libri o da altri comunque. La presidenza della comunione allora diventa qualcosa di incarnato, vero: diventa una passione, una storia vera, una ragione di vita, poiché la vita di ognuno di noi trova il suo motore proprio in queste esperienze affettivamente significative e significanti, che, tra l’altro, ci aiutano a traslare il nostro mondo affettivo nel nostro rapporto con Lui stesso, che vuole essere amato non dalla nostra testa, ma proprio dal nostro cuore di carne, in cui finalmente possa immettere il suo Cuore divino, e portare il nostro cuore di carne così al suo sviluppo esponenziale, che ha la sua misura appunto nel Cuore stesso di Dio fin dal principio, e che il peccato ha come bloccato, ma la redenzione ha risbloccato, rimettendo in moto tutto il meccanismo che era stato concepito da Dio per la sua creazione, soprattutto quella dell’uomo.

Così "una consuetudine di vita comune tra il clero è un esempio vitale per i fedeli"; la vita comune del clero è esiziale, infine, per la missione stessa dei sacerdoti, e non una velleità di qualcuno fissato, o con carenze affettive, o addirittura un surrogato della famiglia naturale, per cui la soluzione sarebbe di far sposare i preti: non è lo sposarsi o meno che risolve il problema, perché la radice del problema è la comunionalità concreta, di cui il matrimonio è solo una delle modalità; il prete deve in qualche modo andare oltre continuamente l’esperienza quotidiana, pena l’essere bloccato e racchiuso asfitticamente in essa: una comunità di vita tra uguali permette la stessa intensità, ma senza farlo prigioniero di essa, sollecitandolo ad andare sempre oltre, ma partendo sempre dalla base sicura del quotidiano. Un prete libero da vincoli, ma che vive nello stesso tempo l’intensità dell’affetto, è più adatto a presiedere alla grande comunione dei fedeli, che è la meta di tutto. Come dire che deve vivere fino in fondo il rapporto con qualcuno, ma superarlo contemporaneamente, nello stesso momento che raggiunge quella profondità, per servire la grande comunione, essendo diventato capace di viverla, ma vivendo nel contempo l’intensità del rapporto con ciascun componente della grande comunione. La vita comune è una palestra: quello che alla fine conta è il risultato finale dell’allenamento, ossia la comunione vera e di carne con tutti, e con Lui in modo particolare, in una sorta di ripetizione compulsiva, talmente velocizzata al ritmo della frazione infinitesimale del tempo che scorre, da sembrare di raggiungere la staticità, ma una staticità continuamente in un movimento di rinnovo continuo, che trova la sua misura nel dono che il Figlio fa al Padre di se stesso sulla Croce, che è come la cifra dell’Amore che si staglia perennemente nell’eternità tra il Padre e il Figlio, cifra che caratterizza al suo acme il rapporto tra loro, il fuoco che c’è tra loto, e in cui noi veniamo immessi, essenti sempre creature, ma esistenti come Dio.

L’antropologia della comunione

Leggendo quanto sopra, si potrebbe avere l’impressione di qualcosa che vola troppo verso le alte vette, come se ciò ci portasse in un mondo ideale che poco ha a che fare con la realtà della vita quotidiana, ma dobbiamo imparare a guardare l’oltre che è nascosto continuamente nella vita quotidiana apparente, e che è ciò che la sostiene, e le dà un senso, pena la banalità del nostro girare a vuoto, specialmente quando si tratta della religione, che nell’immaginario collettivo è già di suo molto disincarnata rispetto alla realtà. Invece questo discorso fa vedere la sostanza che sta alla base della realtà e la incarna nello stesso tempo, ma in una carne viva, che invece, se lasciata a se stessa, è una carne già morta e in putrefazione, che dà la nausea, come spesso sentiamo nel nostro vissuto quotidiano e insipiente. Sapere invece questo sostrato sottostante il nostro quotidiano ci dà la forza e la convinzione per viverlo appieno, esponenzialmente, salvandoci dalla noia del vivere, perché lasciato infine solo, senza radice e futuro tangibili. Senza questo senso che la avvolge, la realtà ci impone, per istinto di sopravvivenza, a cercare in altro il suo senso, facendoci impastoiare nelle mille cose artificiali che ci costruiamo e che ci imprigionano, lasciandoci sul terreno esausti, delusi, frustrati e stanchi di vivere, fino a desiderare più o meno indirettamente la morte, noi che invece siamo stati fatti per la vita, che cerchiamo continuamente, ma a cui ad un certo punto rinunciamo per impossibilità di raggiungere la meta. Questo avviene nel microcosmo di ciascuno di noi, ed è già una tragedia per ciascuno; ancora peggio quando ciò avviene nel macrocosmo di una società, di una civiltà addirittura, che alla fine non vede altro scampo che la morte, la sua fine, come soluzione ai suoi problemi: una morte che a parole non vuole, ma che invece concretamente cerca, pur nascondendolo a se stessa, ma segnando così inesorabilmente il suo destino finale. È questo il tramonto di una civiltà, che si ripete ciclicamente nella storia. Ma quanto detto sopra ci dà una speranza che ciò non è obbligatorio, inesorabile: la Chiesa veramente può essere quel nuovo modo di stare nella vita, anche in questa terra, solo ce ne rendessimo conto noi cristiani, e in special modo i preti! Che potenziale di vita abbiamo noi preti nelle nostre mani! Sia per noi stessi, che per la Chiesa, sia per il mondo intero. È il potenziale che è nelle stesse mani di Dio, e che Egli ci passa grazie alla redenzione di Cristo: solo se ci entrassimo appieno in tutto questo potenziale! I sdfam hanno un grande compito per risvegliare tutto ciò nel clero, e a ricaduta su tutto il popolo di Dio, e a ricaduta ulteriore su tutta l’umanità. È una grande e magnifica vocazione quella dei sdfam!

I vantaggi della vita comune

Si parla anche dei vantaggi apportati ai sacerdoti da questa vita comune tra il clero. Li riporto di nuovo: "alimentare la vita spirituale e l’impegno ascetico; custodire e rafforzare la castità; curare la vita intellettuale e la formazione permanente; favorire la collaborazione nel ministero; ridurre le spese di sostentamento". Concretamente la vocazione sdfam permette di approfondire la propria vita spirituale, dandogli tutti i motivi elencati qua e là in ciò che già è stato detto, grazie anche ai ritmi della vita religiosa, che ha tra i suoi compiti proprio dare un contesto favorevole al necessario raccoglimento per una vita di preghiera reale e proficua; inoltre la vita religiosa, o more religiosorum, permette, con le sue innate esigenze e le modalità pratiche che offre, una vita ascetica, ossia una capacità di controllo dei propri istinti, incanalandoli in argini che permettono il loro utilizzo, con tutte le loro potenze e energie, senza che essi prendano il sopravvento disordinatamente nelle nostre vite; la castità poi trova il suo supporto, dando l’alveo dell’affettività vissuta appieno, che è alla base di una vita casta, che invece viene meno nella misura che la nostra vita diventa povera di affetto e di affetti reali e concreti, quali invece si possono trovare e vivere in una comunità reale e concreta, anche se ovviamente non perfetta; la vita comune permette poi lo scambio delle conoscenze e il tempo per approfondirle, permettendo il ritaglio degli spazi consoni, anche con lo studio personale sollecitato e richiesto dagli altri, come la stessa formazione permanente, che è la struttura in cui la conoscenza a tutti i livelli, e aperta a tutti gli orizzonti, è continuamente e miratamente offerta, ostacolando la naturale tendenza alla pigrizia e ad accontentarsi del già raggiunto, che imprigionano chi si isola. Vivere insieme aiuta a saper collaborare, a dare aiuto, e soprattutto a chiederlo, cosa ben più difficile da accettare per il nostro orgoglioso egoismo, quando non solipsismo: nel ministero poi ciò è esiziale, perché la realtà che dobbiamo affrontare è complessa, e la nostra visione limitata non può assolutamente soddisfare tutte le esigenze, né può arrivare alla sintesi necessaria e al suo equilibrato calibramento, senza contare lo schiacciamento delle nostre forze sotto il peso di tutto un mondo che da soli non possiamo assolutamente sostenere, come già osservavo a riguardo del Sacerdozio e delle sue responsabilità, troppo grande per le fragili spalle di un solo povero uomo, limitato nelle sue doti in se stesso, oltre che per la virtù viziata comunque e sempre dal peccato. Infine, il vivere insieme, come mette insieme le forze di tutti per un lavoro così grande e impossibile per un solo uomo, mette anche insieme le sostanze materiali, moltiplicandole al centuplo, come ci dice Gesù stesso, facendo sì che nessuno manchi di qualcosa, e tutti abbiano il necessario, fino ad avere tutti molto da dare anche agli altri, senza che questo ci privi del necessario per ciascuno di noi; in più ci solleverebbe dalla preoccupazione del procacciarci il necessario sostentamento, che molte delle nostre energie fagociterebbe, sottraendole al compito grande e inesauribile che ci è stato affidato, nostro malgrado.

A tale proposito, quanti problemi verrebbero meno dalla condivisione a tutti i livelli, e riguardo tutti i tipi di beni, morali, intellettuali, spirituali e materiali. Saremmo tutti più ricchi, avendo per noi le ricchezze di tutti, particolarmente per le cose materiali, i beni di sussistenza. Le tragedie e i drammi della vita, che lo sono già di per sé, lo diventano ancora di più perché di fatto li viviamo sostanzialmente da soli, abbandonati a noi stessi, maggiorandone così il peso sulle nostre povere spalle. Invece, nella condivisione, tutto sarebbe più distribuito, e il peso lo sentiremmo molto di meno. È anche questo che come Chiesa possiamo proporre al mondo: è anche questo di cui parlo quando dico che noi possiamo dare al mondo un nuovo modo di vivere su questa terra. Non il comunismo socialista e statalista, che ignora la consapevolezza e la volontà libera del singolo, né il capitalismo, che punta soprattutto sulla competizione e sulla selezione naturale delle forze in campo: ambedue finiscono per ignorare la persona singola e la sua volontà libera, nonché i suoi diritti inalienabili, che solo l’amore può riconoscere fino in fondo; né l’una né l’altra forma di organizzazione sociale, comprese le loro forme intermedie, che camminano sugli stessi binari comunque, ma la comunione di persone coscienti, libere e responsabili possono dare un modello di vita umano e soddisfacente la "fame" di ciascuno: fame di affetto, di pane, di libertà, di responsabilità, di giusta considerazione, di realizzazione delle proprie giuste aspirazioni. I preti possono presiedere moralmente a questo nuovo mondo, e i sdfam possono aiutare i preti a prendere coscienza viva e fattuale di questo. Gesù è la verità dell’uomo, e tutto questo ce lo fa vedere con chiarezza, fin nelle implicanze meno "sacrali": è il Regno di Dio, che è già stato inaugurato su questa terra, e che solo nell’eternità raggiungerà la sua pienezza e la sua gloria, quando tutto il mondo sarà finalmente nella Trinità, là dove da sempre è destinato ad arrivare, perché lì è nato e lì sussiste.

L’unione tra i Fam e i Sdfam

9. Infine, attraverso la comunione con i confratelli religiosi, essi rendono visibile e, nello stesso tempo, facilitano la missione dell’Istituto a favore del clero. È necessario, quindi, che tale unione spirituale, comunitaria ed apostolica, oltre che giuridica, sia da tutti sommamente perseguita, così da rendere la Congregazione una vera famiglia.

L’entrata di diocesani nella comunità dei Figli dell’Amore Misericordioso è quanto di più evidente della missione di fraternità dei FAM nei confronti dei diocesani: la fraternità arriva al punto dell’incorporazione di questi nella stessa comunità religiosa che si prende cura di loro accogliendoli non solo come ospiti, ma addirittura come gente di famiglia nel senso più pieno del termine. È veramente il coronamento della cura per il clero, al punto che riesce a coinvolgere gli stessi diocesani, non solo nella propria vita, ma anche nella missione che, come Fam-sdfam, caratterizza massimamente la loro vita e la ragione della loro stessa sussistenza. Praticamente è una unione tale che non ha tenuto fuori nulla di quello che possiedono i FAM, che quindi condividono proprio tutto del loro essere e avere. Una vera comunione di vita: la cura è arrivata alla radice di essa stessa, di ciò che ne è la ragione e la meta, ossia la comunione stessa, l’amore stesso, che porta a condividere tutto di sé con la persona amata. I FAM hanno solo questo scopo nel loro esistere: curarsi dei preti come di se stessi, per raggiungere la meta di un solo corpo, quale è a causa dell’Ordine, oltre che del Battesimo. Quale modo migliore di curarsi di qualcuno che condividere con esso il tutto della propria vita, trovando in questo il senso della vita stessa?

Lo specifico sdfam nella missione comune FAM

Non solo, ma i diocesani, a loro volta, restituiscono quanto hanno ricevuto, proprio per la pari dignità dell’amore e della comunione, "facilitando la missione dell’Istituto a favore del clero". I sdfam, cioè, condividendo tutto dei FAM, contribuiscono essi stessi alla missione a favore del clero, e lo fanno in un modo tutto loro, che i FAM in un certo senso non potrebbero mai fare, ossia dal di dentro, che più dentro non si può, del clero stesso diocesano a cui appartengono. I FAM, per quanto facciano, non potranno mai condividere a pieno il tutto dei diocesani, cosa che invece è possibile per i sdfam nei confronti dei FAM, perché mai saranno parte dei diocesani, mai potranno essere diocesani, mai potranno entrare nei diocesani come un diocesano che è nato al loro interno invece. Non solo, i FAM, se entrassero troppo dentro i diocesani, rischierebbero di snaturarsi, in quanto entrerebbero talmente dentro tutte le loro problematiche in prima persona, facendosene coinvolgere vitalmente, che ne potrebbero essere fagocitati al punto da non poter più essere di aiuto, perché troppo coinvolti all’interno, da non avere più la libertà di un esterno: come a proposito dell’opportunità o meno di prendere in carico una parrocchia, per esempio, scelta da fare e condurre sempre con la massima cautela. Insomma i sdfam diventano una specie di testa di ariete dell’opera sacerdotale dei FAM stessi; i sdfam sono dei FAM calati letteralmente e totalmente nel clero diocesano, e da diocesani lavorano negli stessi campi dei confratelli diocesani, avendo sempre l’occhio lungo e attento ai bisogni umani e spirituali dei loro confratelli, offrendo loro continuamente la loro fraternità e amicizia, e cercando le occasioni e creando le circostanze per dare un’esperienza di fraternità e di vita comune del clero, scorrendo tutta la vasta gamma di modalità in cui questa possa in qualche modo realizzarsi, senza schemi rigidi prefissati. Il sdfam sarebbe una specie di "commilitone-ufficiale" che condivide tutto con la sua truppa, lavoro, gioie e disagi, avendo nel contempo la preoccupazione costante e diuturna di legare tra loro i "commilitoni", fomentando in loro e tra loro lo spirito di corpo, con una felice ricaduta anche sul rendimento professionale.

Tutto questo sarebbe impossibile per un FAM; a questo punto il ruolo dei FAM sarebbe più precisato in ordine al dare un modello di vita di comunità, una casa per chiunque voglia condividere tale modello aperto, nonché gli strumenti per arrivare a riprodurlo in tutte le situazioni di vita del clero diocesano con il contributo insostituibile della longa manu dei sdfam. Veramente i sdfam sono l’opera migliore dell’opera sacerdotale dei FAM, l’apice della loro azione a favore del clero, non tanto per l’opportunità di inglobare nell’Istituto membri del clero diocesano, che saranno sempre un numero limitato (lo scopo infatti non è quello di inglobare tutti i diocesani nella Congregazione), quanto piuttosto per la possibilità di arrivare con essi più dentro la realtà del clero diocesano, ed essere così più incisivi, entrando in profondità, con la loro azione a favore del clero. Così stando le cose, è necessario che i sdfam, nonché i FAM, prendano ambedue coscienza più viva dell’importanza vitale che questa loro vocazione di diocesani con voti ha in se stessa e nell’ambito della struttura stessa della Congregazione FAM, in quanto tutto ciò che abbiamo detto pocanzi fa vedere eccellentemente che i sdfam non possono essere dei semplici associati per perseguire solo un loro beneficio spirituale generico di santificazione, ma dei veri e propri operai insostituibili nell’opera sacerdotale dell’intera Congregazione, nata a tale scopo dal Carisma della Madre. I sdfam sono veramente la vera originalità della Madre: sono l’opera più singolare e rivoluzionaria di questi ultimi 60 anni nella Chiesa a favore del clero (i primi due sdfam emisero i voti l’8 dicembre 1954 a Fermo).

La missione di unione dei due cleri (diocesano-secolare e religioso)

In tal modo si attesta l’esigenza di una ordinata integrazione tra chierici diocesani e religiosi nella comunione gerarchica con il Vescovo diocesano, superando ogni possibile forma di contrapposizione, affinché gli uni e gli altri, secondo la vocazione e la grazia ricevuta, servano al bene della famiglia diocesana e di tutta la Chiesa.

In questa seconda e ultima parte dell’art. 10 del presente Statuto, si tocca un punto focale della vita diocesana. Di fatto in una diocesi esistono due cleri, quello diocesano, che è fatto dei presbiteri diocesani veri e propri, e quello religioso, che si trova nella diocesi o per una sua opera specifica, parallela alla diocesi, o per una collaborazione momentanea e occasionale di alcuni membri religiosi con la diocesi, particolarmente quando dei religiosi prendono in carico una parrocchia: lì si vede benissimo che i religiosi sono dei preti momentaneamente prestati in aiuto alla diocesi, che da sola non riesce a coprire i quadri. In poche parole, quando i religiosi collaborano direttamente con la diocesi, è quasi sempre per un compito che non è proprio il loro, ma semplicemente per aiutare una situazione contingente di necessità. Quei religiosi, si può dire, sospendono il loro carisma per fare il lavoro generico di preti pastori; non mi inoltro sull’opportunità o meno di queste scelte, dettate quasi sempre da necessità urgenti e senza alternative, e per questo, spesso senza piani pensati e programmati che tengano conto di una ipotetica armonizzazione di tutte le potenzialità ecclesiali presenti sul territorio diocesano, e delle originalità dei carismi, mortificate di fatto dalla realtà.

Fatta questa fotografia, schiettamente realistica, vengo a porre, appunto, il problema della diocesanità (anche qui rimando ad un mio articolo sull’argomento, sempre pubblicato sulla Rivista del Santuario nel 2013): esiste una spiritualità diocesana, che metta insieme tutte le realtà ecclesiali, usufruendo di ciascuna per quello che essa è e per cui è stata originariamente chiamata a servizio della Chiesa, che si esplica poi in una chiesa locale? La struttura ecclesiale è una struttura episcopale, ossia una chiesa con un vescovo, un presbiterio e l’intero popolo di Dio presente in un territorio; tale chiesa, lungi dall’essere esaustiva della ricchezza della Chiesa universale, è comunque una chiesa completa di tutto in se stessa, per essere chiamata appunto chiesa. Il suo epigono, il vescovo, ha la stessa dignità di un qualsiasi altro vescovo, come la sua diocesi rispetto alle altre diocesi dell’orbe cattolico; il suo vescovo, insieme a tutti i suoi confratelli sparsi nel mondo, in unione con il papa di Roma, governa la Chiesa universale, che non è una federazione di chiese locali, ma che si esplica storicamente e fattualmente nella vita di una diocesi. Perciò una diocesi ha in sé tutte le ricchezze di cui è costituita la Chiesa universale, compresa la vita religiosa, che, benché vive di un suo diritto universale, essendo direttamente legata al papa di Roma, esplica però la sua azione universale in una chiesa locale, dove il responsabile è sempre uno e uno soltanto, ossia il vescovo. Perciò il vescovo è anche il vescovo di questa realtà religiosa presente nel suo territorio; in altre parole, la diocesi è fatta anche di questa realtà religiosa, senza alcun parallelismo indebito tra la diocesi e la vita religiosa presente sul suo territorio. Su un territorio diocesano non esistono due governi ecclesiali che lo governano in toto, religioso ed episcopale: ce n’è uno solo, quello del vescovo. La vita religiosa è quindi una delle componenti della diocesi, poiché nella Chiesa esistono tante componenti, che contribuiscono alla realtà dell’unico Corpo ecclesiale, che a sua volta si riproduce in scala ridotta, ma in tutte le sue stesse componenti, nella chiesa locale. Una chiesa locale è la Chiesa universale in un determinato territorio. Addirittura S. Pier Damiani nei suoi scritti dice che un cristiano da solo è tutto il corpo ecclesiale, a maggior ragione la diocesi, la chiesa locale. Perciò parte integrante di una diocesi è anche la vita religiosa, e non per dei servizi che non le sono propri, salvo situazioni contingenti, per cui le membra sono chiamate a volte ad una elastica interscambiabilità, e per cui è necessario stare anche attenti che il momentaneo impiego non snaturi del tutto o in parte l’epistemologia del membro stesso, nato per una cosa e non per qualsiasi cosa che non le è proprio. L’ottimale, anzi la situazione di norma dovrebbe essere invece che ogni membro apporti del suo specifico per arricchire con la sua originalità tutta la chiesa locale, a maggior ragione una Congregazione religiosa col suo specifico carisma proprio.

La spiritualità diocesana così non sarebbe qualcosa a parte rispetto alla spiritualità religiosa, ma piuttosto la risultante armonizzata di tutte le caratteristiche dei suoi membri: una spiritualità diocesana non esiste in astratto, ma solo nel reale armonizzarsi in un unico corpo delle realtà presenti nel suo territorio. Essa quindi non è a parte, una delle componenti, ma l’insieme armonico di tutte esse, compresa la vita religiosa, e la vita religiosa di ogni singola Congregazione. Perciò il clero diocesano è il clero in tutte le sue varianti, semmai ci sarebbe una distinzione tra clero secolare legato permanentemente alla diocesi, e clero religioso, legato alla diocesi solo momentaneamente, ma non nella componente psicologica e spirituale. Un religioso fa parte della sua famiglia religiosa, e contemporaneamente della diocesi a pieno titolo, anche se la congregazione ha una sua autonomia giuridica, ma nello stesso tempo vive in un territorio dove c’è un vescovo, e col quale comunque deve sempre concordarsi e collaborare per rimanere in quel territorio. Se questo è il discorso, è chiaro quindi che "un’ordinata integrazione tra clero diocesano e religioso nella comunione gerarchica con il Vescovo diocesano" è semplicemente costitutiva e dovuta. I FAM devono quindi aiutare a far emergere questo nella coscienza di tutti e due i cleri, vivendo in prima persona questa integrazione, che per loro è doverosa, pena l’annichilimento del loro carisma e della loro missione, in quanto anzi la cosa è proprio la loro ragione di vita, che nei sdfam raggiunge il culmine e il massimo dell’evidenza, sia in se stessi che nel loro agire a favore del clero. Tutti i preti sono il clero diocesano, e ogni diocesi deve superare il proprio provincialismo, infatti il cattolicesimo non è una religione razziale, come l’ebraismo, nazionale, come il protestantesimo e l’ortodossia, né culturale, come l’Islam. I preti sono un unico corpo sacerdotale, e i FAM, in tutte le loro componenti (compresi quindi anche i sdfam), devono aiutare, per loro carisma e specifica missione, tutti i preti, religiosi e secolari, a sentire e vivere questo essere un unico corpo sacerdotale dell’unico sacerdote, Gesù, anche in una chiesa locale. I FAM infine sono i religiosi che aiuteranno tutti i preti, e anche i laici, a scoprire e vivere l’autentica diocesanità, perché: cosa sarebbe un prete senza un vescovo locale? Cosa sarebbe un religioso senza un vescovo diocesano? I suoi superiori, benché tali non sono successori degli Apostoli. E la loro giurisdizione arriva alla disciplina interna, ma non può sottrarsi totalmente alla giurisdizione di una chiesa locale, dove si trova tutta la Chiesa universale, che invece non si trova in una Congregazione, sia pure grande e con un clero numeroso sparso per l’intero orbe. In questo modo i FAM sono a servizio non solo del clero, ma anche del clero nel grado dell’episcopato, sono, a monte, particolarmente a servizio della chiesa locale, per certi aspetti più di qualsiasi altra Religione, proprio per le sue caratteristiche "sacerdotali" di cura del clero in tutti i suoi aspetti, dalla culla alla tomba, come si potrebbe dire.

Tutto il discorso fatto finora si evidenzia, a maggior ragione, con il ramo dei diocesani con voti, che incarnano nelle loro persone le due figure contemporaneamente di sacerdote diocesano e religioso, al servizio particolare del clero tutto, e della sua unità, in una diocesi: nei diocesani con voti si vede in maniera fisica, nelle loro stesse persone, l’opera in atto di questa unione tra i due cleri, sia nelle finalità che nei risultati.

PARTE SECONDA
(alcune sottolineature pratiche)

AMMISSIONE

Le motivazioni di una vocazione sdfam autentica

10. Possono far parte della Congregazione i sacerdoti del clero diocesano, qualunque sia l’incarico da essi assunto in Diocesi. Per l’ammissione al periodo di prova essi debbono rivolgere domanda scritta al Superiore generale il quale, dopo aver constatato che il candidato è adeguatamente motivato e che il rispettivo Ordinario diocesano accoglie e favorisce questa particolare vocazione, decide l’accettazione della domanda stessa, con il voto deliberativo del suo Consiglio.

Riguardo a "il candidato è adeguatamente motivato": conseguente a quanto è stato detto finora sulla vocazione sdfam, qui si apre, di converso, come controprova, il panorama ampio sul tema delle ragioni e delle motivazioni che sono alla base della vocazione sdfam nel concreto. Chi chiede di entrare tra i sdfam deve avere chiarissimo, quindi, che non è per una devozione personale, per avere semplicemente un aiuto personale spirituale, per essere insomma più bravo, un qualcosa che si consuma nel suo intimo interiore, né semplicemente avere un posto dove trovare un po’ di ristoro, spirituale ed altro, di tanto in tanto: queste cose non bastano per un sdfam, che è appunto una vocazione vera e propria, con dei benefici certo per la propria persona, ma anche con dei doveri, come è per una vocazione religiosa in una Congregazione, che ha uno scopo preciso nella Chiesa, interessandosi a portare avanti un servizio peculiare per il beneficio della comunità ecclesiale universale; i sdfam hanno un compito preciso e peculiare nella Chiesa, che va al di là dei benefici immediati e personali che ogni sdfam può avere per se stesso, ossia la cura dei confratelli diocesani, del suo presbiterio anzitutto, ma anche di tutti i sacerdoti del mondo, per il solo fatto che sono sacerdoti. Un sdfam dovrebbe dire, parafrasando Don Bosco riguardo ai giovani, "basta che siate preti perché io vi ami". Quindi un candidato ai sdfam deve voler entrare tra le fila dei sdfam, e quindi nella Congregazione FAM, per mettersi al servizio del clero insieme con i confratelli FAM, occupando un ruolo preciso e insostituibile nella loro azione a favore del clero: un ruolo delicato, difficile e faticoso, nonché alquanto impegnativo, perché, rispetto agli altri confratelli FAM, egli si trova in prima linea, con il doppio ruolo di Fam e di sacerdote diocesano che condivide in tutto e per tutto la vita degli altri confratelli diocesani, con tutto quello che comporta di fatica e problemi, e nello stesso tempo deve preoccuparsi per loro, cercando di alleviarli nelle fatiche, che egli stesso vive, e aiutarli con i problemi che egli stesso prova sulla propria pelle. Come dire, sono in prima linea con te, e con te, e per te mi preoccupo, anche di te, come persona singola coinvolta quale io sono.

PROFESSIONE

Continuità tra le promesse sacerdotali e i voti

11. Poiché con questa consacrazione i sacerdoti diocesani perfezionano impegni già precedentemente assunti e ne contraggono di nuovi verso la Congregazione, essi emettono i voti di obbedienza, castità e povertà nelle mani del Superiore generale o, in forza del presente Statuto, nelle mani del proprio Ordinario diocesano, secondo la formula prescritta.

Si sottolinea una continuità tra gli impegni sacerdotali e la professione religiosa, tanto che questa può essere emessa nelle mani del vescovo, come a dire che c’è un perfezionamento ulteriore nelle scelte già precedentemente fatte al cospetto del vescovo stesso, e che queste ulteriori scelte sono inserite e comprensibili sulla scia di quanto c’era nella decisione precedente. Che cioè la professione religiosa nulla toglie alla diocesanità sacerdotale, ma anzi le dà un nuovo titolo, diremmo più pieno ancora, dentro lo stesso misterioso mescolarsi dei due stati di vita, soprattutto riguardo la fraternità e la adesione più perfetta, fatta pubblicamente, a Lui, nonché (e questa è la motivazione più originale) la cura privilegiata per il clero, verso gli stessi confratelli diocesani del sdfam.

OBBEDIENZA

La necessaria permanenza della diocesanità

12. I Sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso, con il voto di obbedienza confermano la promessa di sottomissione gerarchica al proprio Ordinario diocesano, in tutto ciò che riguarda l’appartenenza e il servizio ministeriale alla propria Chiesa particolare, in unione devota e filiale verso di lui. Pertanto, gli uffici ecclesiastici da essi ricoperti non sono assunti dalla Congregazione, ma ricadono interamente sotto la loro personale responsabilità.

Quanto detto al n. 17 ora viene esplicitato nei particolari; si rimarca quindi l’obbedienza al vescovo per tutto ciò che riguarda il servizio ministeriale, ed in particolare si sottolinea il legame di appartenenza con la propria Chiesa locale, nonché con il presbiterio di quella diocesi. Ancora una volta si insiste sulla diocesanità che resta integra nel sdfam, malgrado l’appartenenza piena anche alla Congregazione, che anzi proprio nel sdfam che resta diocesano trova l’elemento penetrante nel presbiterio di appartenenza per compiere più incisivamente la sua opera sacerdotale. Sarebbe come dire che se il sdfam diventasse religioso, lasciando la sua diocesanità, non sarebbe più quella risorsa unica che la Congregazione avrebbe per la sua opera sacerdotale. Senza il sdfam, che resta diocesano, la Congregazione sarebbe più povera e più debole nella sua azione sacerdotale. Inoltre questo riaffermare l’obbedienza prioritaria al vescovo serve ancora una volta a rassicurare i vescovi che con questa vocazione sdfam non verrebbero a perdere un loro sacerdote, ma anzi troverebbero in lui uno ancora più appartenente alla diocesi, se mai fosse possibile, e soprattutto un sacerdote che potrebbe aiutarli nella loro cura prioritaria, in quanto vescovi, nei confronti dei loro preti. E tutto questo senza trascurare minimamente gli incarichi diocesani, ché, se avvenisse, lo stesso sdfam fallirebbe nella sua stessa vocazione e missione di FAM di stanza presso una diocesi in servizio permanente. Come FAM è fondamentale che resti diocesano, anche psicologicamente, compresi i suoi incarichi, che non riguardano per nulla la Congregazione, essendo la diocesi e la Congregazione ben distinte, e quindi ad esclusiva responsabilità e libertà, in obbedienza al vescovo, del singolo sdfam. Certo, per resistere a questo doppio in cui vive il sdfam, questi deve trovare la sintesi armonica in se stesso, tenendo sempre conto dell’esizialità che resti diocesano per essere un vero FAM con la vocazione sdfam, nonché dell’esizialità del suo essere FAM per essere un sacerdote che possa aiutare carismaticamente gli altri sacerdoti: sacerdote diocesano e figlio dell’amore misericordioso, quindi, ossia sdfam. Molto quindi si consuma nel personale: di qui l’importanza capitale che il sdfam prenda veramente coscienza piena di chi è, altrimenti sbanderà o verso una direzione o verso l’altra, diventando indebitamente religioso, o rimanendo indebitamente esclusivamente diocesano, al di là delle forme esterne che la sua vita potrebbe prendere in divenire, e in rapporto alla diocesi e in rapporto alla stessa Congregazione. Di qui la serietà improcrastinabile della formazione e delle motivazioni profonde di questa scelta vocazionale. Si direbbe che tra i FAM, nel sdfam si richiede un surplus di maturazione per non perdersi nei meandri più oscuri di questa originalissima vocazione, nuovissima vocazione, unicissima vocazione, e perciò ancora poco scandagliata nelle sue implicanze più nascoste, ancora poco studiata e riflettuta.

La giusta considerazione della vocazione sdfam

13. In forza del medesimo voto essi sono anche tenuti ad obbedire, con senso di fede e docile sottomissione, ai Superiori religiosi in tutto ciò che si riferisce alla pratica della vita consacrata, secondo le Costituzioni ed il presente Statuto. Tale sottomissione ai Superiori religiosi dovrà aiutare i sacerdoti a conseguire una maggiore docilità verso l’Ordinario diocesano e ad accrescere la dedizione apostolica verso la Diocesi.

Il voto di obbedienza ovviamente mette in una situazione nuova il sdfam, perché egli appunto è anche non solo un diocesano ma anche un religioso FAM, e quindi cade anche sotto l’obbedienza dei Superiori FAM, soprattutto per tutto ciò che concerne la sua vita personale, che in gran parte non dipende dal vescovo: la gestione degli aspetti personali del sacerdote diocesano non compete direttamente al vescovo, dal punto di vista giuridicodisciplinare, se non nei casi che il personale condizioni in qualche modo la parte ministeriale del sacerdote presso la sua diocesi, nonché la dimensione pubblica della sua figura. Il sdfam non è infatti un diocesano come tutti gli altri, ma è uno che ha deciso di far dipendere la gestione della sua vita personale dalla Congregazione e dai suoi legittimi superiori, salvo la sua attività ministeriale diocesana; comunque, anche quest’ultima in certo modo cade sotto il vaglio dei superiori religiosi, non tanto per un assenso formale o meno da parte di essi, quanto per un parere, un consiglio, un suggerimento, un orientamento a ché l’assunzione del ministero non sia a nocumento della vocazione FAM del sdfam. È chiaro che il consiglio deve sempre indirizzare il sdfam all’obbedienza al vescovo, ma questo non toglie che si aiuti il sdfam ad una obbedienza, sì docile, ma anche articolata in relazione alla vocazione sdfam stessa. Questo specialmente, ma non solo, per una eventuale opera di aiuto ai sacerdoti. Insomma si tratterebbe più che altro di una moral suation, che non vincola formalmente, ma che deve comunque essere esercitata, e dal sdfam richiesta, dai superiori FAM, che hanno il dovere di interessarsi, almeno moralmente, anche della ministerialità di un loro "religioso", sia pure una ministerialità diocesana, che giuridicamente dipende esclusivamente dal vescovo. D’altra parte, è vero che nel sdfam il vescovo trova un sacerdote a tempo pieno per lui e la diocesi, ma questo non toglie il dovere morale del vescovo di tener conto della vocazione che ha ricevuto in più questo suo sacerdote, specialmente per quello che riguarda la cura ai preti, che questo sacerdote ha avuto come missione carismatica dalla sua vocazione particolare. Il vescovo non può non tener conto di chi ha tra le mani, e questo dovrebbe essere anche per tutti gli altri sacerdoti: nel coprire i quadri è cosa buona e saggia tener conto, da parte del vescovo, delle caratteristiche delle persone che intende impiegare a servizio dei vari bisogni della diocesi, e non rinunciarvi facilmente, pur di raggiungere i propri obiettivi, specialmente con un respiro corto.

14. Se ci dovessero essere casi di conflitto, specialmente quando situazioni particolari riguardanti gli obblighi della consacrazione richiedessero interventi disciplinari, il Superiore generale agirà cercando, nel sincero dialogo con l’Ordinario diocesano, di tenere presente e salvaguardare sia il bene della diocesi ed il bene personale del sacerdote, sia gli impegni della professione nell’Istituto, salvo restando che, in caso di incompatibilità tra i doveri della Diocesi e quelli della Congregazione, prevalgano in ogni caso i primi.

Comunque, è chiaro che l’obbedienza al vescovo prevale sempre; il vescovo ha sempre l’ultima parola, sperando, però, specialmente in situazioni di normale amministrazione, nel suo buon senso, e particolarmente nel rispetto che dovrebbe comunque anch’egli portare alla particolare vocazione di un suo sacerdote sdfam.

CASTITÀ

Promessa di celibato e voto di castità

15. I Sacerdoti Diocesani Figli dell’Amore Misericordioso, con il voto di castità assumono di nuovo e con rinnovato slancio gli impegni del celibato ecclesiastico per aderire con cuore indiviso a Cristo Signore, nella piena donazione ministeriale alla Chiesa e nella testimonianza gioiosa della condizione futura.

La promessa celibataria è l’unica vera promessa totalizzante che fa un sacerdote diocesano, in quanto l’obbedienza è limitata soprattutto al ministero, mentre la povertà, che formalmente non è esigita, è lasciata alla libertà totale del singolo sacerdote. Come dire: già vivete questa cosa, cari sacerdoti diocesani. Ma allora viene la domanda: che cosa aggiunge allora il voto di castità? Qui si gioca la comprensione della dimensione "religiosa" del sdfam, come nella doppia obbedienza si vedeva l’esizialità del diocesano che è anche FAM. La promessa celibataria non è esattamente la prima scelta che si fa normalmente nello scegliere il sacerdozio; essa si sposa con esso, ma è il sacerdozio la prima scelta; poi ci sono quelli che integrano volentieri il celibato con il sacerdozio, e chi invece in qualche modo per il sacerdozio subisce il celibato, e se ne fa una ragione. Naturalmente c’è anche chi sceglie il celibato in parallelo col sacerdozio, ma non per il suo rapporto col sacerdozio, ma nello stesso tempo lo sceglie come sceglie il sacerdozio, vedendo in tutte e due contemporaneamente un proprio modo di dedicare la propria vita in toto al Signore, oppure alla causa del Vangelo, o a tutte e due distintamente o in successione subordinando il Vangelo al Signore. C’è poi chi accetta il celibato, suo malgrado, al di fuori di queste scelte ideali strettamente considerate, perché ne vede il vantaggio per la dedicazione della propria vita in toto a servizio degli altri e in funzione del ministero. Insomma, dalla vasta gamma che ho elencato, senza la pretesa di essere stato esaustivo, la scelta celibataria ha diverse origini e motivazioni, non sempre riconducibili tutte ad un unicum, sia nell’ordine delle origini sia in relazione allo sviluppo logico o esistenziale. C’è poi naturalmente, infine, chi semplicemente subisce il celibato, e ci combatte tutta la vita, perché fondamentalmente non lo accetta psicologicamente: tra questi ci sono quelli che non ce la fanno e arrivano a dei compromessi nella loro vita, moralmente disordinati ovviamente, oppure ad un certo punto buttano la tonaca alle ortiche e si sposano o qualcosa di simile; quest’ultimo caso, comunque, non avviene quasi sempre per il problema celibato, ma semmai, perché vengono meno le ragioni che lo avevano fatto resistere, suo malgrado, ossia quelle della fede, degli ideali, per cui si era subìta eroicamente la cosa. Le crisi avvengono per chiunque naturalmente, ma c’è qualcuno che è più predisposto per non aver risolto certi problemi affettivi fin dall’inizio, oppure non ha raggiunto la maturità necessaria nel tempo, anche per chi aveva fatto delle scelte più motivate fin dal principio riguardo in particolare il celibato sacerdotale. La propria affettività non si può sopprimere: o la indirizzi verso qualcosa di reale, che non siano solo delle idee, oppure prima o poi ti presenta il conto; il celibe consacrato non rinuncia all’affettività, ma semplicemente la indirizza ad un oggetto, che non è la classica famiglia e il rapporto di coppia comune per tutti gli uomini; in particolare la indirizza al Signore, o/e agli altri per servirli con l’annuncio del Vangelo. La Chiesa, viene detto, sceglie i suoi sacerdoti tra coloro che vogliono vivere il celibato, coloro che hanno la vocazione al celibato, ma la cosa, come si è visto brevemente, non è così uniforme, chiara e lineare, sia in principio che nel suo svolgersi nelle esistenze reali di questi uomini.

Il voto di castità invece ha una sua figura chiara, con motivazioni altrettanto chiare, e non legato ad altro, come il sacerdozio per esempio. Già addietro ho descritto in termini esistenziali queste motivazioni: il sdfam, da celibe in quanto sacerdote, ora sposa queste motivazioni, che forse in parte o in toto erano già presenti nella scelta esistenziale, o forse no, e comunque in tutti i casi rimette al centro la motivazione di fondo del voto di castità e della scelta celibataria, Gesù Cristo, e Lui soltanto, senza legarla ad altro, come la missione per esempio. Uno si fa religioso non per una missione, ma anzitutto per dedicarsi totalmente a Lui, con tutto il suo cuore, con tutta la sua mente, con tutte le sue forze e con tutto il proprio corpo, comprese le sue spinte sessuali e genitali, comprese le dimensioni sponsali e genitoriali insite nell’antropologia dell’individuo: nella persona di Gesù si convogliano tutte queste forze e tutte queste spinte, che normalmente muovono gli uomini gli uni verso gli altri. Gesù diventa veramente il tutto della propria vita, e si sceglie Lui, e la conseguente condizione di vita totalmente dedita a Lui, solo per se stesso e non per altri obiettivi, sia pure nobili, sia pure evangelici. Il casto consacrato col voto sceglie Lui e non tanto i suoi valori, sceglie la sua persona e non tanto le sue parole, contempla Lui e non tanto guarda ai suoi gesti. Potesse, vivrebbe continuamente davanti a Lui, fissando il suo sguardo solo e soltanto su di Lui. Questo testimonia che per Lui si può "rinunciare" a tutto, compreso l’amore di un partner e l’avere dei figli principalmente. E la vita religiosa ha anzitutto questo compito. Il sdfam fa questo ora, dando così un valore aggiunto al suo celibato, che era anche in funzione del sacerdozio in un modo o in un altro, mentre il voto di castità è in funzione solo di se stesso, o meglio in funzione di Lui, per avere subito Lui, senza premesse, conseguenze o collegamenti. È ovvio che col voto anche il celibato brilla tutto di tutt’altra luce, e ancora di più brilla la scelta primordiale di Lui, al di là del sacerdozio o del servizio agli altri. Di questa assolutezza lo stesso sacerdozio se ne avvantaggia, oltre che lo stile di vita di chi conseguentemente assume il sacerdozio. Ma soprattutto il sdfam entra nella famiglia dei consacrati, di coloro che fanno la scelta di Gesù per se stesso, e per dire a tutti che Gesù vale per se stesso, e basta. Non è più quindi solo un diocesano, è anche un religioso.

Conclusione

Il mio intento, accingendomi a stendere il presente scritto, è stato quello di dire anzitutto a me stesso chi fossi diventato io, in quanto Sacerdote diocesano Figlio dell’Amore misericordioso; quale fosse il senso di questa vocazione ulteriore nella vocazione sacerdotale; quale fosse la necessità, non solo personale, di questa vocazione particolare all’interno del presbiterio diocesano; quali le finalità rispetto al clero; quali le modalità possibili della cura del medesimo clero, nonché della vita comune tra sacerdoti; quale la novità della professione dei voti rispetto alle promesse sacerdotali, e della necessità di questi voti per le finalità e modalità di questa vocazione; quale, infine, il vantaggio spirituale, oltre che esistenziale, come sacerdote, nella sequela e nella unione con Gesù.

Con la mia riflessione, e con lo scriverla, ho cercato di catturare, per così dire, l’anima di tutto questo, e farne vedere tutta la bellezza, che io vedo, ma che sento di non poter descrivere totalmente. Spero solo che sia riuscito, in qualche modo, a farvi perlomeno intuire che qui, comunque, c’è qualcosa di grande, particolarmente per i sacerdoti.

Concludo con un ringraziamento anzitutto al Signore, che misteriosamente mi ha condotto per lunghi anni fino ad approdare a Collevalenza e alla Famiglia religiosa dell’Amore Misericordioso, quando ormai pensavo che ciò che avevo nel cuore e nella mente, riguardo al clero e alla fraternità sacerdotale, fosse solo una illusione giovanile: qui ho, invece, trovato, una casa e una compagnia di amici, direbbe papa Benedetto XVI, e la realizzazione concreta e reale dei miei antichi ideali giovanili, che, in verità non mi avevano mai abbandonato, neanche nell’inevitabile nebbia del tempo.

Il mio ringraziamento, infine, va alla Beata Speranza di Gesù, nostra Madre; quando lessi per la prima volta la sua biografia, scritta dal mio confratello Padre Giovanni Ferrotti, mi accorsi che lei ed io avevamo camminato per almeno trenta anni su strade parallele, pur senza conoscerci; io cercavo e tentavo, fallendo, mentre lei realizzava: misteriosamente, grazie ad alcuni miei parrocchiani, le nostre strade si sono incrociate, ed io ho trovato finalmente la risposta, quello che avevo sempre cercato, anzi trovando molto di più, appunto, una famiglia, una casa, con tutte le bellezze, e anche le confusioni di tutte le nostre case: per questo ringrazio tutti i miei confratelli dei quattro rami della nostra Congregazione, nonché le nostre sorelle Ancelle dell’Amore Misericordioso, a cui molto, noi Figli, dobbiamo per il clima familiare in cui abbiamo la fortuna di vivere, riuniti nel carisma di Madre Speranza.