STUDI
 
Prof. Gaetano Benedetti
Prof. Ing. Calogero Benedetti

 

 

 

 

La stella di Natale

 

 
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San Paolo scrive che da fanciullo poteva credere come un fanciullo, ma da adulto è chiamato a credere come un adulto.
Il Natale non è una Leggenda per bambini, col Presepe ed i Magi; ed il Vangelo non è un testo con incastonata una Leggenda per bambini.
Allora Gaetano Benedetti, professore di psichiatria presso l’Università di Basilea, e Calogero Benedetti, suo fratello, ingegnere e matematico, si interrogano l’un l’altro sul significato della narrazione evangelica, perché più forte sia la Fede in Cristo. (N.d.R.)

1) Lettera di Gaetano a Calogero

La Bibbia ci narra che tre saggi dell’Oriente ebbero la rivelazione del bimbo divino attraverso una stella altrimenti mai comparsa in cielo, che successivamente li guidò non solo fino a Gerusalemme ma fino a Bethlemme, indicando loro la grotta ove riposava Gesù Bambino.
Quale straordinaria visione! Il firmamento si muta ed un astro mai visto compare sul luogo ove si compie il più grande evento della storia intera: la nascita del Salvatore, la venuta in terra di Dio; la più bella idea, disse Dostoiewsky, che sia stata pensata da mente umana.
Naturalmente l’astrofisica moderna avrebbe enormi difficoltà ad accettare un evento simile*. Sarebbe come accettare una “rottura metafisica” delle leggi naturali, quelle leggi inderogabili che non sono in contrasto con Dio, ma sono state create da Lui in maniera definitiva.
Definitiva? Eppure, Cristo risuscitò Lazzaro!
Ma se, viceversa, l’apparizione della stella natalizia fosse un mito?
Andiamo adagio. La parola mito non ha oggi il significato che aveva nella Grecia antica. La vecchia nutrice di Odisseo lo riconobbe per una cicatrice che lei sola conosceva e disse con Omero: “Io sola conosco il mito!”.
Oggidì, se parliamo di miti cristiani o biblici, intendiamo dire: non sono fatti storici, ma leggende nate come proiezioni della mente umana, e non come segni della Trascendenza.
È questo vero? Osserviamo quello che potremmo chiamare il “mito individuale”, cioè il sogno notturno. Come psichiatra e psicoanalista conosco grandi sogni, che hanno segnato una svolta nel cammino di certi uomini. Erano per loro segni incontrovertibili della Trascendenza, fino allora muta, che ebbe a parlare loro tramite il sogno.
Ma prendiamo un esempio più modesto. Tu, mio fratello, avesti circa due anni or sono, il sogno impressionante, che nostra cugina Gea (allora moribonda) venisse da te, sana, giovane, bella, sorridente, e ti abbracciasse con amore. “È venuta ad accomiatarsi da me”, fu la tua interpretazione.
Dal punto di vista della psicologia freudiana tale sogno sarebbe l’espressione di un desiderio. Secondo la psicologia junghiana esso esprime un idea archetipica, l’incontro con un essere caro che muore (idea raffigurata in tante lapidi tombali della Grecia antica).
Ad un giovane, che gli chiedeva, cosa significasse un suo sogno analogo, l’incontro con il proprio padre morto, il filosofo Pitagora rispose: “nient’altro che un incontro con tuo padre”.
Ma se fosse anche possibile pensare, che l’anima di Gea avesse visitato in sogno mio fratello?
Tutte queste ipotesi o formule razionali, anche se significative, non possono renderci la bellezza e la verità ascosa del sogno stesso; il che significa, sì che il sogno (il “mito personale”) è interpretabile, che deve anzi venir costellato dalle nostre riflessioni, ma non sostituito razionalmente da esse, come se il significato razionale (ammesso che esso sia univoco) possa sostituire la visione; a questa dobbiamo ritornare, per andare in tutta la sua profondità.
Questo riguarda il sogno, che ho chiamato il “mito personale”.
Il “mito collettivo” si distingue dal sogno fondamentalmente per una qualità: che esso non ricorre nel sogno, ma in una veglia sublime, che io chiamerei la “superveglia”.
La lingua tedesca mi aiuta qui ad esprimermi meglio: il sogno esprime il subconscio, Unterbewusstsein; il mito collettivo esprime “das Ueberbewusstsein” (Unter = sotto; Ueber = sopra).
Dio che parla come fuoco inestinguibile nel roveto”; ecco l’immagine grandiosa che trascende la coscienza della veglia, e non è sostituibile da alcuna spiegazione, psicologica, sociologica o storica che essa sia.
E’ il “Pensiero Figurativo” (da non confondere con il pensiero simbolico, che riduce la realtà concreta ad un concetto).
Forse la fisica dei quanti arriverà a scoprire che nel campo dello spirito esistono diverse realtà, talora intercomunicabili, e talora come universi paralleli. Non sono competente in materia, per pensare qui oltre.
Posso invece dire che “la realtà del sogno privato” e quella del “mito collettivo” si distinguono dalla realtà logica per la loro non-universalità.
Così, anche il mito collettivo della Resurrezione di Dio che si sacrifica per l’uomo, corre attraverso i millenni, da Osiride a Cristo, trova in Cristo l’espressione più sublime e per noi più eloquente, ed è vero come realtà “suprarazionale”; ma non sarà mai universale come la geometria di Euclide.
E’ necessario che la fede ci chiami e dia il suo segreto contributo; e il “mito” diviene allora vivente, il simbolo coincide con il simboleggiato, e la Stella di Natale splende allora, anche in quest’anno di sangue e di dolore umano, su di noi.
“Ecco, ci è nato un pargolo…” ripete l’antica melodia alla luce della candela inestinguibile. “Habet tamquam Fides oculos suos”, scrive S. Agostino.

 

2) Lettera di Calogero a Gaetano

Carissimo Dedo
Ho letto a Prissy e ad Alfredo la Tua meditazione natalizia. Sono quasi ovunque d’accordo con Te su quanto scrivi, ma c’è una sfumatura (ma è una sfumatura?) che non mi trova consenziente: l’accostamento della “realtà” di Cristo con le figurazioni “mitiche” di tanti (altri) popoli, e la “relativizzazione” che ne deriva (l’inciso “per noi” che vi è incluso).
Citerò al riguardo per prima la palese diversità che venne sottolineata da Kirkegaard: che non esiste la possibilità di identificare Cristo con un mito poiché Cristo è una persona storica (di Lui si hanno tracce storiche inconfutabili anche fuori dai testi canonici) p.es. in Giuseppe Flavio, storico romano, non cristiano contemporaneo dei redattori dei quattro Vangeli), mentre invece i “miti” sono sempre carenti di una riconoscibile base storica.
Una seconda, e più potente circostanza è però “l’annuncio precorritore” presente nei testi biblici a riguardo di Cristo, e carente in ogni mito.
Proprio oggi, 1° Domenica di Avvento, si leggono le seguenti parole del Profeta Daniele, che si colloca storicamente al tempo della prima deportazione degli Ebrei a Babilonia, subito prima o contemporaneamente all’epoca di Ciro Re dei Persiani, cioè dunque nel 600 a.C., quando Israele poteva sperare, aveva anzi ragioni di sperare, ma non di sapere alcunché di Cristo:
“mi apparve” Uno, simile ad un Figlio di uomo; giunse fino al Vegliardo e fu presentato a Lui, che Gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, le nazioni, le lingue Lo servivano.
Il Suo potere è un potere eterno che non tramonta mai ed il Suo regno è tale che non sarà mai distrutto
(Dn. 7,13-14).
L’annuncio precorritore è assente invece in qualsiasi figurazione mitica.
S. Paolo colloca la presenza di Cristo fra noi quando fu raggiunta la “pienezza dei tempi”, una circostanza che da lungo attesa si verifica appunto nella Storia, quando ne è cioè possibile l’accertamento storico, e che la pone al di fuori del mito.
Non per nulla Cristo si colloca nella piena universalità e storicità dell’Impero Romano, giusto al suo apice.
Così sono d’accordo con Te quando caratterizzi il mito (quello personale, sorretto dall’Unterbewusstsein; quello collettivo sorretto dall’Ueberbewusstein) con l’”impossibilità di possedere un valore universale” come invece è caratteristica della geometria euclidea (ed anche non euclidea).
Ma proprio la non miticità di Cristo Lo rende di un valore universale, che apre l’orecchio al sordo, e l’occhio al cieco.
Ricordi quel che Giovanni Battista riceve in risposta quando, prigioniero di Erode, manda i propri discepoli da Cristo a domandarGli: “sei Tu colui che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro?”(Lc 7, 19).
La risposta è: “andate a riferire a Giovanni ciò che avete visto ed udito: i ciechi vedono, i sordi odono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti ed ai poveri è annunciata la buona novella” (Lc. 7, 21-30).
Ho sottolineato le parole “visto ed udito” cioè: constatato, osservato, fatti incontrovertibili dei quali gli interroganti sono testimoni oculari.
Cristo non è un mito, non è accostabile ad un mito, non è “relativizzabile”, ma possiede il carattere dell’universalità (che il mito non ha) e della storicità (“ciò che avete visto ed udito”).
Certo S. Agostino ha ragione quando parla degli “occhi della fede”, e la Liturgia domenicale invoca: “Signore, accresci la nostra fede”.
Ma la fede non è un pensiero, un atto mentale, un “ritenere per vero qualcosa”; la fede è un donarsi, un offrirsi, in umiltà e povertà, per amore, anche a costo di rinunciare a comprendere, svestendosi anche del proprio abito mentale.
Due sono le testimonianze di fede più alte che io conosca ed ambedue sono un dono di sé: quella di Maria che rinunzia a comprendere come possa compiersi in Lei l’annunzio dell’Angelo, e si offre; “Ecce Ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum” (Lc. 1-34,38); e quella di Pietro, che, a Cafarnao, dopo l’annuncio di Cristo del cibo spirituale come corpo e sangue materiali propri, il che scandalizza gli uditori che si allontanano, alla domanda perché non vada via anche lui, Pietro, assieme ai discepoli, risponde rinunciando a comprendere: “e da Chi mai andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Giov. 6,68).
È quest’amore al contempo esclusivo ed universale, che costituisce la “fede” in Cristo.
Ti abbraccio con Hanny.

Natale, 2000


* Forse si trattò di una “supernova” (una stella che per ragioni di Fisica Atomica brilla in modo intensissimo ma per un limitato periodo di tempo). Ma non possiamo saperlo. Sarà sempre un “segreto”. (n.d.c.)

A
s
c
o
l
t
a

!

San Giuseppe Cafasso raccontò di non essere riuscito a confessare un carcerato. Perché? “Alcuni anni addietro, mi disse il carcerato, trovandosi in un giorno festivo al suo paese, si recò in chiesa per la messa; parlando del piccolo numero di coloro che si salvano, il sacerdote ebbe a dire: “Di quanti qui ci troviamo, più di due o tre non si salveranno”. Dando uno sguardo alla numerosa udienza, l’uomo pensò: “Io non sono tra quelli. A che serve venire ancora in chiesa?”: Lasciò tutto e finì in carcere”.
Se qualcuno gli obiettava che, secondo le parole di Gesù, la porta del paradiso era stretta, il Cafasso rispondeva: “Vorrà dire che passeremo uno alla volta”.
Il beato Giuseppe Allamano, nipote del Cafasso, un giorno raccontò che, durante un ritiro di sacerdoti, don Bosco fece al Cafasso l’obiezione della “porta stretta”; fattosi serio, il Cafasso gli rispose: “E sia l’ultima volta che mi fai questa obiezione!”.

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ultimo aggionamento 27 aprile, 2002