STUDI

S.E. Mons. Pietro Nonis

Vescovo di Vicenza

La Fraternità Sacerdotale

 

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Riportiamo la riflessione proposta da Sua Eccellenza in occasione della Giornata di Santificazione presbiterale celebratasi in Collevalenza il 14 giugno scorso con la partecipazione di oltre 400 Sacerdoti.

Data la necessità di contenere questa riflessione entro tempi ragionevoli vorrei proporre tre pensieri, riguardanti
i fondamenti della fraternità sacerdotale
i fattori che la possono debilitare o mettere in crisi
i fattori che assicurano o promuovono la fraternità
Cercherò di avere presente una terna di riferimenti: la Parola di Dio, la dottrina della Chiesa, l’esperienza esistenziale dei presbiteri.

 

1 - I fondamenti

1.1 Un fondamento sicuro, ma piuttosto generale è, in alcune affermazioni di Gesù, come: “Uno solo è il Padre vostro, e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,9); “Chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Mt. 12,50): sono parole che Gesù dice “stendendo le mani verso i suoi discepoli”, ossia coloro che lo seguivano più da vicino. Oggi potrebbe dirle stendendo la mano verso di noi? E ancora: “Ogni volta che avete fatto queste cose (qualcosa di bene) a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
Più preciso, specificatamente riguardante noi, partecipi della vocazione e della condizione degli apostoli, è il comandamento-testamento dell’ultima sera: “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13,34). Questo principio vitale, questo mandato specifico dell’azione apostolica, o sacerdotale, va intimamente collegato con ciò che accade l’ultima sera della vita di Gesù.

1.2  Fra i molti eventi di quell’ultima sera tre cose principalmente riguardano da vicino anche noi, in quanto siamo coloro che Gesù ha scelto “affinché stessero con Lui” (Mt 3,14).
Stare con Lui significa ancor più che obbedire alla legge fondamentale della fraternità: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12)
Significa, per tornare agli avvenimenti-insegnamenti dell’ultima sera, essere disposti ad assumere l’esempio vivo concreto del Signore come regola prima della vita sacerdotale: “Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,13-14). Significa obbedire al comando, legato all’istituzione dell’Eucarestia: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,18; 1Cor 11,25; 11,26: “Voi annunziate la morte del Signore fino a che egli venga”).
Nel “Fare questo” sta uno dei contenuti primari del mandato sacerdotale. La Lettera agli Ebrei metterà in connessione stretta il sacerdozio di Gesù, (sorgente unica del sacerdozio degli apostoli e mediante gli apostoli del nostro)! “Ecco, io vengo a fare la tua volontà”, dice il Cristo che s’incarna, ricordando il salmo 40 “Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo. Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre (Eb 10,9-10). Viene da chiedere in che misura il “memoriale della Nuova Alleanza”, la cui celebrazione è affidata specificatamente a noi, fa da motivo fondamentale del nostro essere presenti, e del nostro essere “fratelli” per una fraternità più precisa e qualificata di quella che dovrebbe a tutti coloro che sono chiamati “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di Sua conquista perché proclami le opere meravigliose di Lui che ci ha chiamati dalle tenebre alla sua mirabile luce” (1 Pt 2,9)

1.3 All’offerta di sé come sacrificio gradito al Signore, che s’identifica con la stessa vita cristiana, si richiamerà anche Paolo, il primo scrittore neotestamentario che racconta l’istituzione dell’Eucarestia (1Cor 11,23-25): “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale (loghikè latrèia) (Rm 12,1)”.
Nella Parola di Dio la dottrina riguardante la fraternità è graduale e progressiva. Comincia col presentarsi nell’AT come stretta parentela di sangue l’essere nati dagli stessi genitori discendenti dallo stesso padre: il che non basta, tuttavia, come si vede dall’assassinio di Abele sino alle rimostranze del figlio maggiore nella parabola del Padre misericordioso (in Lc 15,25 e ss), perché il comportamento sia conseguente alla consanguineità, o anche all’appartenenza allo stesso gruppo (cfr. i “fratelli” di Gesù, per esempio in Mc 3,31, dove Gesù allarga la nozione, anzi la realtà effettiva della fraternità, alla comunanza di adesione alla volontà del Padre, ossia alla comunione di origine e di fede).
A questo proposito é bene non trascurare il fondamento della fraternità che Paolo stabilirà nella persona e nell’azione salvifica di Cristo, primogenito e prototipo dell’umanità nuova in funzione della quale noi presbiteri siamo chiamati e costituiti: “Poiché quelli che Egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29).

1.4 Un titolo speciale di fraternità viene dal fatto di essere nella Chiesa, che in quanto sposa di Cristo è madre comune dei credenti, e in modo speciale di coloro che sono deputati alla santificazione e al servizio dei credenti come “ministri”, ministri della riconciliazione specialmente. Sotto questo aspetto gli scritti paolini, soprattutto quelli rivolti ai Corinzi ed ai Romani sono esemplari. Una questione contingente, come la libertà che alcuni si prendevano di consumare cibi già offerti agli idoli, offre all’Apostolo l’opportunità di intervenire con un linguaggio che sembra attualissimo se pensiamo alla differenza-divergenza delle ecclesiologie che talvolta sembrano distinguere, o dividere, anche noi: “Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello?...Cessiamo dunque dal giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non essere causa d’inciampo o di scandalo al fratello... Guardati perciò dal rovinare con il cibo uno per il quale Cristo è morto” (Rm 14,10.13.15). Pietro tornerà sullo stesso tema-problema: “Siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno (philadelphoi), misericordiosi, umili” (1Pt 3,8). Di Giovanni basta ripensare a memoria la prima lettera.
Tutto l’impianto neotestamentario della dottrina e della pratica della fraternità viene comunque dalla radice evangelica, ed ha anzi nel pensiero di Gesù quella terribile, breve parabola che ci riguarda da vicino, perché parla di dono da portare all’Altare, di qualcosa che noi facciamo, o potremmo o dovremmo fare, ogni giorno: “Se dunque presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono”. Altare, dono, fratello: sono tre realtà base della nostra esperienza quotidiana.

 

2-La crisi

2.1 La fraternità Presbiterale è un dono e una conquista una grazia e un complesso di virtù. Non si consegue una volta per sempre. Non si pratica senza fatica e pericoli. Essa è la forma che la vita cristiana assume nei presbiteri diocesani (come, per analogia, nei monaci vige la fraternità monastica, nei religiosi quella loro propria): è sinonimo di quella “carità cristiana” che lega da un lato il presbiterio alla famiglia dei ministri ordinati dall’altro alla comunità sacramentale dei battezzati laici.
Caratterizzano la Fraternità presbiterale, nella diversità dei carismi e unità dello Spirito (1Cor 12,4), le note proprie della carità elencate in positivo-negativo da Paolo nel celebre cap. 13 della prima Lettera ai Corinzi:
La carità è paziente
è benigna la carità,
non è invidiosa la carità,
non si vanta, non si gonfia,
non manca di rispetto,
non cerca il proprio interesse,
non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità.
Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,4-7).
Sette NON sottolineano altrettante debolezze umane che ci accompagnano nei tempi e nei luoghi, per quanto diversi, della nostra vita.

2.2 Nella narratio evangelica alcuni punti-spunti forniscono in proposito suggestioni importanti.
Prendiamone una dal racconto già citato della Parabola detta “del Figlio prodigo”, che merita in realtà d’essere intitolata al “Padre misericordioso” (Lc 15,11-32). Alla tenerezza del Padre, al pentimento sia pur bisognoso di ulteriore elevazione nelle motivazioni addotte dal figlio colpevole fa da riscontro l’atteggiamento del figlio maggiore. Il quale “si trovava nei campi”, al momento dell’arrivo del fratello: stava dunque nell’adempimento del suo dovere; “quando fu vicino a casa, nel ritorno, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò”. Deve aver avuto un certo tono di voce, perché il servitore si permise una narrazione lievemente tinta di malignità: “E’ tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il (non: un, ma il) vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo” Egli, “O yòs presbyteros”, “Orghisthe”, si arrabbiò, e non voleva entrare” (Lc 15,25-28).
A ben osservare, il modo di agire del figlio più grande andava direttamente contro le caratteristiche della fraternità caritativa: non era paziente, non benigno ma invidioso, mancava di rispetto al Padre, si adirava, teneva in evidenza il supposto male ricevuto, giudicava severamente che aveva sbagliato non si compiaceva della verità.

2.3 Un altro paio di passaggi è offerto ancora al nostro discorso da ciò che accade l’ultima sera della vita di Gesù, e precisamente da ciò che avviene prima a tavola, secondo Luca, e forse dà origine alla lavanda dei piedi; e poi, nell’Orto degli Ulivi, dall’atteggiamento che Pietro, Giacomo e Giovanni tengono durante la preghiera di Gesù agonizzante.
La discussione non è nuova; in più luoghi del vangelo la si può rintracciare. Il momento é drammatico: Gesù ha consacrato, facendo presente la certezza della fine tragica imminente, il pane ed il vino, ed ha aggiunto, possiamo immaginare con che tono di voce, “Ecco la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola” (Lc 22,21). Allora essi cominciano a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò. Sorge anche una discussione, chi di loro poteva essere considerato il più grande” (22,23-24). Leonardo Da Vinci fissa quel tristissimo momento nel celebre Cenacolo di S. Maria delle Grazie in Milano.

2.4 Nella persona di Pietro, poco dopo, tutto il gruppo apostolico è messo in guardia da ciò che potrebbe compromettere non solo la fraternità vicendevole, ma la stessa relazione di sequela e fedeltà che si è venuta a stabilire fra ciascun discepolo e Gesù: “Simone, Simone, ecco Satana (Satanàs) vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede: e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”. Pietro risponde con la sicurezza di sé e l’amore un po’ presuntuoso che lo caratterizza: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte” (Lc 22,31-33).
Qualcosa di simile abbiamo detto pure noi nel momento dell’ordinazione: di quella diaconale, quando abbiamo legato al impegno solenne la nostra vita celibataria, e poi nell’ordinazione presbiterale, quando abbiamo promesso “obbedienza e rispetto”, le mani nelle mani, al nostro padre Vescovo.
Già poco dopo, nel Getsemani, la promessa vicinanza e fedeltà di Pietro viene messa a dura prova, accanto ad un Gesù piombato nella più grave crisi della sua vita, il quale arriva a dire, lui così sicuro di sé e padrone delle emozioni, “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate” (Mc 14,34). Il duplice comandamento, a cui si aggiunge secondo Luca anche l’ordine di pregare (“Pregate, per non entrare in tentazione”; poi, “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”: Lc 22,40-46), è ripetutamente disatteso. Matteo, Marco e Luca lasciano intendere che il tentativo di Gesù di liberare dalla tentazione i tre ha luogo in tre momenti diversi e successivi, con una crescente manifestazione di angosciosa tristezza, alla quale sembra assomigliare quella che dà forma alla tentazione dei discepoli, per esempio, secondo Luca: “Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli, e li trovò che dormivano per la tristezza (apò tes lypes). Questa lypes ha i caratteri dell’angoscia mortale, di cui Gesù fa cenno quando dice che l’anima sua è perìlypos...eos thanàtou” (Mc 14,34). Il termine “depressione” che usiamo e sentiamo usare così spesso, dice ancora poco. In quell’ora di agonia Gesù prova anticipatamente tutte le nostre tentazioni.

2.5 Ho detto “tentazioni” più ampiamente potremo dire “crisi”, momenti o fasi di sofferenza del nostro impianto spirituale, psicologico, affettivo, complessivamente umano: crisi del prete e, prima, dell’uomo che ciascuno di noi è. Abbiamo il dovere, e parecchie opportunità di riconoscersi, anche sotto questo aspetto, sottoposti alle prove, alle fatiche e, perché no? Ai peccati che contrassegnano la vita di tutti i cristiani. Pensiamo alla fatica di amare, di perdonare, di “essere con” chi soffre, di accogliere, di farci prossimi. Abbiamo, in più, motivi di prova e di ostacolo che derivano in modo specifico dall’intreccio di aspetti psicologici, “ideologici” e comportamentali propri della nostra singolare condizione; quella che nell’epoca in cui la mia generazione fu educata (sono stato seminarista dal 1938 al 1950) veniva caratterizzata come diversità.

2.6 Possiamo limitarci ad alludere a qualcuno di questi temi-problemi, anche se si tratta di questioni delicate e difficili che chiederebbero di essere trattate con ben altra disponibilità di tempo e attenzione. Possiamo evocare almeno e mettere a tema, alcune dinamiche proprie dello sviluppo psicoaffettivo dei preti:

a) per noi anziani c’è alle spalle un’esperienza comunitaria massificante, costituita dal seminario tradizionale, nel corso della quale ogni relazione affettiva, anche orientata in direzione della propria famiglia di origine, veniva vista come una possibile minaccia, e comunque compressa da un lato, sublimata dall’altro. Compressione e sublimazione stentavano, a volte, a mettersi armonicamente d’accordo, e generavano sofferenza, anche involontaria;
b) per i giovani c’è una identificazione della relazione come “grembo caldo” e area di rifugio, attese come condizioni di partenza e non come realtà da costruire per cui l’incontro con la persona altra se non si manifesta con determinate, anzi predeterminate connotazioni (queste appunto) viene rifiutato, a vantaggio di altre forme più gratificanti e/o rassicuranti, magari a scapito del celibato. I giovani, che spesso non passano attraverso l’esperienza del Seminario minore e vengono alla teologia da corsi di studio/lavoro diversi comunque da quella formazione umanistica - un po’ astratta se si vuole ma pur capace di plasmare sulla base di solidi principi - respirano a luogo e in profondità, il clima che li circonda, il clima proprio di questo tempo meraviglioso per certi aspetti discutibile e problematico, quando non da vero e proprio nichilismo, da un vasto e vario relativismo, che è insieme culturale, etico e religioso. La pratica della disciplina ecclesiastica - quella che Giovanni Paolo I si riprometteva di restaurare, chiamandola “la grande disciplina”- si estende dall’obbedienza ai singoli superiori alla conformità con la dottrina e gli orientamenti tradizionali, riguardanti per esempio il celibato: essa subisce facilmente i contraccolpi della “cultura” oggi dominante.

2.7 Una seconda problematica può essere individuata nella concezione profonda- potremmo dirla inconscia o preconscia – del ministero che ciascuno di noi si porta dentro, e quindi dell’autocomprensione che viviamo di noi stessi come preti. Per semplificare: la definizione del presbiterato come “segno di Gesù Cristo capo” (cfr. Optatam totius, 8; Presb. ord., 6), la continua abitudine a presiedere (la Messa, il Consiglio pastorale, le riunioni di gruppo), il sovraccarico di compiti e di responsabilità (“le anime di cui dovrai rendere conto...”)...portano a percepire se stessi come “capi”, cioè soggetti unici e comunque “emergenti” inviati per gli altri ed agli altri più che con gli altri, fatti per stare o apparire inevitabilmente sopra più che accanto. Di norma il rapporto fra “capi” é concorrenziale, e stenta ad essere fraterno: conforme, almeno, a quella fraternità alla quale il Decreto su ministero e la vita sacerdotale (P.O.) dedica i bellissimi e diffusi nn.8 e 9.

2.8 Un terzo problema può essere legato all’individualismo (o autosufficienza) nella pratica pastorale. Pietro, Giacomo e Giovanni non sono placidamente addormentati, accanto a Gesù agonizzante l’ultima sera. Sono immersi in una pesantezza opprimente e deprimente: ma ciascuno per conto proprio e, ciò che importa di più, staccato dal Signore. Ci sono situazioni, nel nostro ministero, in cui siamo tentati di ritenerci gli unici a soffrire che soffriamo, a conoscere dal di dentro lo stato delle nostre cose.
Di conseguenza, si procede per conto proprio, si evitano i confronti, almeno con i vicini, entro al vicariato (o forania, o decanato), e si oppone resistenza all’invito ad inserirsi ne programmi e piani diocesani. Qualcuno arriva, anche inconsciamente, a pretendere di ridisegnare a propria immagine la vita della comunità parrocchiale, e di potere in tranquilla coscienza non “accompagnarla” alla luce del vangelo, agli orientamenti delle Chiesa locale. Ne consegue che, ad esempio in ogni cambio o avvicendamento del parroco, o responsabile di un settore, certi tratti della fisionomia ecclesiale locale vengono trasmutati ad immagine e somiglianza del sopravvenuto, che non ha neanche l’elementare prudenza, una volta giunto al nuovo posto di lavoro, di fermarsi in calma riflessione, di guardarsi in giro, di farsi un’idea pacata della situazione e, soprattutto di pregarci su con calma.
Può conseguirne una serie d’inconvenienti che “dal di dentro” ossia da parte del più diretto interessato neppure vengono avvertiti o sottolineati come meriterebbero: ad esempio la mancanza di dialogo e di confronto, di condivisione circa la vita pastorale (con la quale normalmente un prete s’identifica). Ciò finisce per comportare un’attenuazione, se non una mancanza di quei rapporti fraterni, tra preti e con i laici, senza dei quali la stessa vita interiore del presbiterio s’inaridisce.

 

3 - Qualche rimedio

3.1 Una serie di fenomeni che abbiamo motivo di ritenere non esclusivi di poche, singolari comunità presbiterali, induce a pensare come noi preti talora non siamo capaci di relazioni autenticamente “orizzontali” e paritarie: prenderne atto (evitando la caccia ai capri espiatori e l’autocommiserazione) può innescare una ricerca consapevole e condivisa di vie d’uscita, verso una possibile, migliore fraternità, da costruire o ricostruire in ogni età. Una via é costituita dalla formazione permanente, che può avvenire coinvolgendo via via fasce di confratelli d’età anche diversa, i quali finiscono per trovare utile l’incontro, e la pur non lunga convivenza, su temi-problemi di comune interesse, che possono andare dall’analisi serena del disagio che colpisce molti di noi fino alla considerazione delle possibilità di modificare e rinnovare forme e momenti dell’iniziazione cristiana. Nella nostra esperienza di vita comune e di collaborazione organica (parroci in solidum o coparroci) fra preti, i “team” che reggono più a lungo e funzionano meglio sono quelli costituiti da persone che non si sono scelte. La comunione non va presupposta, ma cercata come un obiettivo virtuoso e domandata come un dono di Dio, nella preghiera e nella conversione costante, ossia nella disponibilità a cambiare in ogni età. La comunione va costruita, o ricostruita, come compito proprio del nostro essere umani, prima che della specifica nostra condizione presbiterale. Nessuno di noi é così povero da non avere qualcosa da dare, nessuno così ricco da non avere bisogno di ricevere.

3.2 Un impegno, di cui consta, dopo il Concilio, in molti Presbiteri diocesani, può essere quello di costruire spazi concreti di relazioni autentiche e profonde fra preti. Il primo passo è un sincero interesse per gli altri, per il loro modo di vivere e di vedere: interesse che si manifesta non tanto nel chiacchiericcio mormoratorio o nella curiosità per ciò che sembra esserci nell’aria. (C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria/ anzi d’antico...) quanto nel desiderio d’imparare da chi sa o fa più o meglio di noi, e di mettere a disposizione anche d’altri ciò che gioca nella nostra vita un ruolo costruttivo e gratificante. Si può cominciare dalla condivisione della mensa, per esempio, e poi dalla valorizzazione dei momenti d’incontro, di tipo spirituale e/o culturale, e dal mettere gradualmente in comune situazioni di vita - non solo per ovviare a necessità pratiche – e forme di organizzazione del tempo libero da vivere insieme.

3.3 Un altro impegno può essere quello che consiste nel dare forma concreta all’unità sacramentale del presbiterio diocesano.
Si tratta di:

fare unità attorno al Vescovo, cercando di superare insieme, da ambedue le parti, le connotazioni puramente “giuridiche” o formali del rapporto;
di superare la semplice sfera naturale, o spontaneamente affettiva, che ci spinge, o ci respinge, nei confronti degli altri. Si possono fare a tal fine delle singole osservazioni. Ho osservato per esempio che la fraternità di sangue solo raramente favorisce la comunione di vita tra i presbiteri, e che l’amicizia stabilitasi ancor prima della co-interessenza operativa (cioè dell’aver l’opportunità o necessità di fare insieme qualcosa) da sola non garantisce la solidità del rapporto comunionale;
si tratta inoltre di riconoscere e valorizzare la complementarietà dei diversi ruoli nei quali si esprime l’unico ministero pastorale a vantaggio della Chiesa diocesana: quelli “centrali” (Curia...) e quelli “territoriali” (Parroci...); quelli che comportano un compito decisionale e quelli che si esprimono nell’animazione quotidiana di un ambiente...: affrontare lucidamente e pazientemente le distanze, le precomprensioni, gli stereotipi, le contrapposizioni, i sospetti reciproci;
si tratta, ancora, di partecipare affettivamente, secondo il proprio ruolo, ai momenti nei quali si esprimono l’unità e la corresponsabilità del Presbiterio, anche quando si tratta di organismi rappresentativi (per esempio del Consiglio presbiterale) nei quali non tutti possono entrare; tali organismi vivono talora nel disinteresse diffuso di chi non vi fa parte. La Diocesi nella quale lavoro è seriamente impegnata a partire da un Sinodo faticosamente condotto ma felicemente concluso nella seconda metà degli anni Ottanta, nel coniugare, anche da parte dei preti, partecipazione e corresponsabilità. Poiché non mi posso attribuire alcun merito nella promozione almeno iniziale di tale processo, sono lieto di dire che le cose mi sembrano giunte ad un punto che è buono nella misura in cui i singoli membri del Presbiterio si sono personalmente impegnati.

3.4 Potrà essere infine importante sviluppare modalità organiche e condivise di esercizio nel ministero pastorale, frutto di comunione e di corresponsabilità fra preti (oltre che con il “popolo di Dio”!), cercando di leggere insieme la situazione, di individuare insieme le risposte. Si tratta di un discernimento che è prima di tutto ricerca comunitaria del progetto di Dio, fatta sulla base di un atteggiamento anzitutto orante, alla luce degli ordinamenti e orientamenti che alla Chiesa provengono, dopo che dallo Spirito del Signore, da chi ne porta la primaria responsabilità. Costruire insieme i progetti, unendo le risorse disponibili.
Ciò suppone evidentemente il superamento del campanilismo o “parrochialismo” a vantaggio di comunità “aperte”, nelle quali la comunione sia vissuta non come forza centripeta ma come impulso all’apertura verso la totalità del ministero della Chiesa e del Regno, anche a partire dalle comunità vicine. In questo senso mi permetterei di far presente l’istituzione delle Unità pastorali, che dovrebbero avvenire non tanto sulla base della evidente scarsità di clero quanto sulla comprovata esperienza che nessuno di noi ha, da solo o nel proprio ridotto campicello, tutto ciò di cui abbisogna, e che messe insieme anche le nostre debolezze si traducono in momenti di forza e di progresso.
In ogni caso un ministero condiviso rende più fraterni i rapporti di servizio e di vita, ed aiuta a sottolineare gli aspetti di comunione anziché i singoli ruoli. Il tutto, nello spirito che promana ancora oggi, a tanta distanza di tempo, dal celebre passaggio della prima Lettera di Pietro: “Esorto gli anziani (o presbiteri) che sono tra voi, quale anziano come loro (sympresbyteros), testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo (episcopountes) non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona di gloria che non appassisce” (1Pt 5,1-4).

Conclusione – Una conoscenza anche mediocre della storia della Chiesa e della situazione presente ci permette di dire senza faciloneria che il Presbiterio cattolico del nostro tempo può essere considerato di gran lunga, complessivamente e partitamente, fra i migliori di quelli che si sono succeduti nella Chiesa dopo l’età apostolica. A proposito della quale faremmo bene a non idealizzarne troppo i tratti fisionomici, se prestassimo attenzione a ciò che gli apostoli fanno sapere delle condizioni, per esempio, della comunità di Corinto, o della comunità di cui parla Giovanni, creduto autore della Lettera che comincia con le parole indirizzate al presbitero Gaio; in essa si viene a sapere che un certo Diotrefe “ambisce il primo posto” e “non ci vuole accogliere”. Non solo, ma “va sparlando contro di noi con voci maligne” ed anche, “non contento di questo, non riceve personalmente i fratelli e impedisce di farlo a quelli che lo vorrebbero e li scaccia dalla Chiesa” (3Gv 1,1.9-10.

Collevalenza, 14 giugno 2001

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ultimo aggionamento 17 agosto, 2001