STUDI
 

Dott.ssa Marina Berardi

 

AMORE e MISERICORDIA:
diritto di cittadinanza per ogni cultura

 

A partire da questo mese, vorremmo proporre ai nostri lettori uno stralcio della tesi di laurea discussa dalla dott.ssa Marina Berardi, presso la Facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università “Maria SS. Assunta” (LUMSA), in Roma.
Già più volte, sulle pagine di questa rivista, abbiamo ospitato alcuni suoi articoli, sempre attinenti al carisma e alla vita dell’ormai Venerabile Madre Speranza, di cui Marina ha seguito il Processo di Canonizzazione e le fasi successive.
Come lei stessa dice, questo singolare “incontro” ed una particolare sensibilità verso il tema dell’educativo visto in chiave interculturale, hanno dato vita al titolo della tesi: AMORE e MISERICORDIA. Diritto di cittadinanza in ogni cultura? Contributo per una pedagogia interculturale.
Dal momento che ne riproporremo solo la parte conclusiva, l’introduzione (riportata in questo numero) aiuterà il lettore ad inquadrare il lavoro nell’intero contesto.

(N.d.R.)

 

Introduzione

Quanto segue non ha la pretesa di dare risposte rassicuranti e tanto meno esaustive alla immensa problematica educativa pensata in chiave interculturale: una realtà dai contorni per alcuni versi imprecisi, un mondo ancora in gran parte da attraversare. Il tentativo è quello di individuare, oltre l’orizzonte di questo vasto mare, ormeggi e porti comuni alle diverse culture, a cui attraccare per far rifornimento, per incrementare l’equipaggio, per studiare le mappe, e quindi ripartire insieme alla ricerca di zone inesplorate.
Questa volta però non sono albanesi o curdi, mossi dalla disperazione, a dover abbandonare affetti, terra, progetti per salire su una scialuppa o su un gommone di fortuna, è piuttosto il nostro pensare occidentale a dover affrontare il mare aperto per raggiungere l’“altra riva”: non solo quella geografica di paesi che continuiamo eufemisticamente a chiamare “in via di sviluppo” ma, soprattutto, quella di ogni cuore umano che attende di essere riconosciuto nella sua dignità.
Per avere il coraggio di togliere gli ormeggi, dobbiamo credere nella possibilità di raggiungere quella “riva”, nella sua ospitalità, nella gratuità del dono che è l’“altro”, nella bontà di un “progetto” che va oltre, che ci supera, che si perde all’orizzonte…
In questo lavoro, ho personalmente sperimentato la fatica di tuffarmi in un mare aperto e sconosciuto, dove a volte, nella sensazione di affondare, mi sono caparbiamente afferrata a certezze acquisite. È stato accettando il rischio che ho vissuto la gioia che prova chi, finalmente, “tocca terra”: una terra “altra” da esplorare in punta di piedi, togliendosi i sandali, non solo come riconoscimento della sacralità di ogni uomo, ma come segno di condivisione, di volersi “sporcare” - e questa volta non solo i piedi - della stessa terra…
L’elaborazione di queste pagine è stata, inoltre, l’occasione per ravvivare in me la passione e l’impegno urgente ed inderogabile di conoscere per incarnare quegli atteggiamenti, quei gesti, quelle linee educative che favoriscano e promuovano un’accoglienza rispettosa della diversità.
In particolare, dopo un accenno alle motivazioni che mi hanno condotto nell’oceano immenso dell’interculturalità, ho voluto puntualizzare il tipo di approccio, nella convinzione che questo non può prescindere dalla mia cultura occidentale e dalle mie convinzioni religiose (Premessa).

 

Prima parte:
L’educativo: uno sguardo interdisciplinare.

Con l’aiuto di una mappa, sono salpata quindi per raggiungere il porto dell’”educativo”: un tesoro prezioso che rischia di perdere il suo valore e di rimanere disatteso. Oggi più che mai, l’educativo, trovandosi ad un bivio, ha bisogno di riappropriarsi del suo ruolo: introdurre nella vita; scoprire ed indicare punti di riferimento, guidare, condurre, “tirar fuori”; ridare terra e radici; rinnovare la memoria. Avvolti come siamo da uno “spirito scientifico e tecnologico”, alla pedagogia è chiesto di difendere il valore educativo della persona e di avere un’attenzione all’“umanarsi integrale” dell’uomo nelle concrete situazioni della vita che, se vissute nella gratuità, si trasformeranno in eventi educanti capaci di aprire alla meraviglia (Capitolo I: “Educare: alla ricerca di un tesoro”).
Il continuo remare, ha fatto sì che approdassi al “pianeta uomo” per coglierlo nell’affascinante contesto di un millenario universo. Proprio perché legato a quanto lo circonda, allo stile di vita, alle relazioni, alla contingenza storica e politica, quello dell’uomo è un percepirsi dinamico. Così, tra le diverse concezioni occidentali spiccano quelle dell’uomo copernicano, dell’homo faber o oeconomicus, per giungere all’homo videns ed educandus dei nostri tempi. Comunque, al di là del periodo storico o del “modello” di uomo a cui ci si riferisce, la tendenza nel pensare all’umano è quella di parcellizzarlo, ignorando l’essenza ontologica della persona: il suo essere spirito incarnato. Per certi versi, ho, dunque, scoperto una terra inesplorata, umiliata, ferita, segnata dal limite e dall’egoismo, per altri, una terra riarsa, assetata… Una terra, però, di cui qualcuno vuole ancora prendersi cura, irrigandone i solchi, spianando le zolle, bagnandola di piogge e benedicendo i suoi germogli (cfr. Sl 64). Da qui sgorga, spontaneo, il grido di gioia: l’uomo non è una realtà fra tante. L’uomo, quale terra abitata, può trasformarsi in terra ospitale, testimoniando l’appartenenza all’unica ed originaria famiglia umana (Capitolo II: “Quale uomo”).
Con questa nuova forza, ho cercato di raggiungere l’altra “riva” di cui parlavo: quella parte del mondo segnata dall’indigenza materiale e dalla deprivazione culturale. Per noi occidentali è quanto mai urgente apprendere la preziosa arte del decentramento o della dislocazione se vogliamo cogliere la verità di due mondi, Nord e Sud, entrambi avvolti nel caos: uno protagonista, l’altro spettatore; uno ricco, l’altro povero; uno potente, l’altro debole… Da una lista che potrebbe continuare, è emerso un mondo “senza misura”, che deve finalmente scegliere se muoversi a caso o far riferimento ad una progettualità, se trasformarsi in un “ammasso di macerie” o in un accogliente “giardino”. Inderogabile, dunque, la decisione di orientare i grossi fenomeni di cambiamento che questo nostro tempo porta in sé: primo fra tutti, l’inarrestabile fenomeno della globalizzazione che attende di essere orientato più che demonizzato. Sarà, allora, realistico parlare del diritto al futuro di chi ci cammina accanto ma anche di chi vive sull’altra riva (Capitolo III: “In quale mondo”).

 

Seconda Parte:
È “luogo sacro”. Interculturalità e spiritualità.

Forti di quell’antico patrimonio culturale costruito ed appartenuto a popoli, classi e soggetti delle diverse epoche, l’unica rotta possibile in questo terzo millennio è quella di ridare alla nostra cultura ferita il suo ruolo umano ed “umanante”, il suo carattere di universalità: riscoprire nella persona l’unico valore assoluto, al di là dell’appartenenza etnica, della lingua o del colore della pelle. A ragione e con diritto si potrà allora parlare di una interculturalità possibile, capace di puntare intenzionalmente sulla reciprocità, sulla voglia di un rapporto che, senza soffocare la specificità delle singole culture, favorisca la “convivialità delle differenze”. Eppure, alcuni fenomeni sembrano andare nella direzione opposta: un esempio fra tutti quello della “McDonaldizzazione”, che tenta di affermarsi come l’unica cultura planetaria. Appare, dunque, indispensabile la ricerca di “principi valutativi comuni” anche per creare una risposta alternativa e credibile all’imperante relativismo culturale che, se da una parte sta aiutando a scoprire nuovi valori tra i quali la lealtà, la tolleranza, la qualità della vita, dall’altra sta fomentando il propagarsi del “pensiero debole” e dell’“indifferentismo etico e religioso”. La strada è quella di riconsegnare alle nuove generazioni il diritto alla responsabilità perché imparino, come ribadisce un rapporto dell’UNESCO, a conoscere, a fare, a vivere insieme, ad essere (Capitolo IV: “L’interculturalità possibile”).
Tale progetto non suonerà come un’utopia se l’umanità sceglierà di imboccare il cammino dell’autotrascendenza, del dono di sé, dell’interiorità, invece che il tunnel cieco di un progresso disumanizzato e disumanizzante. Fede, religione, spiritualità possono dare una risposta a quel bisogno di significato insito nella natura umana ed aiutare a scoprire che ogni cultura contiene in sé germi di vita, frammenti di verità, semi del Verbo. Distanziandoci, dunque, dall’ambiguo processo del secolarismo, che porta l’uomo a ritenersi artefice di se stesso e ad escludere Dio dalla propria vita, sottolineiamo la positiva ripercussione del processo di secolarizzazione che richiama e sprona all’autenticità i credenti di ogni religione. Comunque, fino a quando ogni uomo, e non solo il cristiano, non comprenderà di essere su questa terra nient’altro che un immigrato con permesso di soggiorno, sarà difficile per lui rinunciare alla cultura della potenza, della violenza o del desiderio, per dare, invece, vita a quella mistica dell’unità capace di favorire l’incontro nella verità e di divenire più fratelli (Capitolo V: “Spiritualità, fede e cultura. Un rapporto di reciprocità”).
È il bisogno primordiale dell’amore, insito nel cuore di ogni uomo e di ogni cultura, a spingere verso l’armonia, l’unità, la pace, a suscitare il desiderio di avvicinare l’”altro” per farlo uomo-con-noi, perché divenga familiare in forza di una comune paternità e maternità. Se l’umanità saprà vivere il rischio assoluto che l’amore rappresenta, se crederà che la scienza dell’amore si apprende nel dolore, se saprà accettare che sia la misericordia a produrre opere di giustizia, se imparerà a guardare con intenzionalità, a com-muoversi, a vivere la vicinanza, allora l’”altro” diverrà una prossimità sacra. Le generazioni future potranno così intravedere, sia pure tra luci ed ombre, l’anelito che ha mosso gli uomini e le donne del terzo millennio: una convivenza planetaria più umana.
Nel camminare lungo le strade di questo mondo ognuno di noi lascia una traccia: le sue orme, le sue parole, il suo sguardo, i suoi gesti, le sue impronte, il suo silenzioso ascolto... Lascia, in definitiva, la sua singolare storia intrecciata con quelle di tanti “altri” che, da gente qualunque, la prossimità trasformerà in un fratelli-sorelle, partecipi della stessa umanità.
Per un provvidenziale piano della salvezza, a qualcuno è affidato il compito di tracciare un particolare cammino, per essere luce, faro, monito, pioniere. È quanto accaduto ad una donna del nostro tempo, Madre Speranza di Gesù, scelta per annunciare, in questi tempi difficili e di lotte l’indicibile premura e tenerezza di Cristo Amore Misericordioso per ogni creatura. La nostra “carta d’identità” planetaria acquista così un Volto capace di svelare l’uomo all’uomo, perché questi possa vivere in pienezza la sua umanità e portare a compimento la sua universale vocazione all’amore (Capitolo VI: “Amore e misericordia. Per una “carta d’identità” planetaria).
L’uomo del terzo millennio, potrà stendere attorno a sé una autentica cultura di misericordia e di pace solamente sostituendo all’agognato “io” dell’età moderna l’“altro e il suo volto”, che dovrebbe diventare il termine comprensivo di tutto.
Al fine di conseguire questa inversione di mentalità, va recuperata di necessità da parte di ogni cultura e del singolo soggetto: la disponibilità a decentrarsi, “riforestando” il proprio cuore, così da camminare sulla Terra con maggiore attenzione; “la voluttà dell’estraneità”, colta come luogo privilegiato di arricchimento e di reciprocità, capace di demolire muri e pregiudizi sedimentatisi lungo secoli di storia; l’inderogabilità di farsi pellegrini verso il “villaggio dell’interiorità”, “della prossimità e “della differenza” per costruire un “villaggio globale” più solidale, in grado di essere reale laboratorio di universalità (Conclusione).

(Continua)

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ultimo aggionamento 07 luglio, 2002