STUDI
 

Dott.ssa Marina Berardi

 

AMORE e MISERICORDIA:
diritto di cittadinanza in ogni cultura

Dal mese di giugno 2002 abbiamo proposto ai nostri lettori uno stralcio della tesi di laurea discussa dalla dott.ssa Marina Berardi, presso la Facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università “Maria SS. Assunta” (LUMSA), in Roma. Già più volte, sulle pagine di questa rivista, abbiamo ospitato alcuni suoi articoli, sempre attinenti al carisma e alla vita dell’ormai Venerabile Madre Speranza, di cui Marina ha seguito il Processo di Canonizzazione e le fasi successive. Come lei stessa dice, questo singolare “incontro” ed una particolare sensibilità verso il tema dell’educativo visto in chiave interculturale, hanno dato vita al titolo della tesi: AMORE e MISERICORDIA. Diritto di cittadinanza in ogni cultura? Contributo per una pedagogia interculturale. Da questo numero riproporremo solo la parte conclusisa, dopo aver pubblicato nel numero di giugno l'introduzione per aiutare il lettore ad inquadrare il lavoro nell'intero contesto. (N.d.R.)

(N.d.R.)

 

(seguito)

Per una carta
d’identità planetaria

Capitolo VI - AMORE E MISERICORDIA.

4.   «Giustizia e pace si baceranno» (Sl 85, 11)

 

      «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono»[32]. Vorrei partire da queste accorate parole del Santo Padre[33], riecheggiate come ritornello oltre che nel titolo del Messaggio del 1° gennaio 2002, e rivolte al Sud e al Nord del mondo, ad ogni uomo ed ogni donna di buona volontà,  ai credenti e non credenti del terzo millennio.

      Da oltre un ventennio, forti dell’esperienza del passato, i documenti della chiesa, ribadiscono l’importanza di coniugare la giustizia con «quella forza più profonda, che è l’amore», la sola capace «di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni» [34].

      La «giustizia, scrive Rawals […] è la prima virtù delle istituzioni sociali come la verità è la prima virtù dei sistemi di pensiero». Questa affermazione contiene una fondamentale verità, ma va aggiunto che essa da sola, quando anche fosse equa, può ridursi a una mera distribuzione tra le parti.

      É necessario che sia l’amore a produrre opere di giustizia, cosicché ogni abitante della terra abbia cibo, lavoro, istruzione; le giovani generazioni abbiano un futuro; i popoli siano riconosciuti nelle loro caratteristiche culturali e religiose; la guerra e quanto la produce sia debellata; ecc.

      Diverso è il punto di vista di Ricoeur, per il quale il piano politico, che trova nell’organizzazione dei sistemi sociali «la mediazione necessaria del riconoscimento» dell’altro, non può pensare di rifarsi al «modello del vincolo interpersonale esemplato sul­l’ami­cizia e sull’amore»[35]. 

      A mio avviso, proprio per lo scollamento tra queste realtà, giustizia, amore-perdono tanti progetti sociali promossi ed avviati in nome della giustizia sono andati incontro al fallimento: lo squilibrio profondo è nel cuore dell'uomo. É l'uomo che «soffre in se stesso una divisione - si legge nella Gaudium et Spes - dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società». É dal cuore dell’uomo, perciò, che bisogna ripartire.

      La cultura attuale, caratterizzata dal predominare di relazioni utilitaristiche ed anonime, da una «illuministica e ormai improponibile superbia antropologica»[36], identifica l’amore ed il perdono come  «debolezza».

      Proprio il perdono, che ha un importante valore antropologico, sociale e politico, nella sua apparente fragilità, è più forte della stessa morte, come ha testimoniato Cristo sulla croce. Il mondo, grazie anche al contributo che può derivare dalla riflessione delle diverse religioni, prima o poi, dovrà arrivare al recupero di quelle dimensioni umane in grado di consentire e garantire una reale, autentica e pacifica convivenza: l’amore, la misericordia, la giustizia ed il perdono.

      Il pensare laico, dal canto suo, tende ad identificare molto semplicisticamente la violenza con la forza e l’amore con la debolezza, rinunciando all’energia trasformante che quest’ultimo contiene, anche rispetto alla vita collettiva. «Una società che professa l’impotenza sociale dell’amore», di fatto si autocondanna «alla sterilità e all’impotenza»[37].

      Lo stesso Cottier osserva che i progressi ottenuti nell’elimi­nare ingiustizie e disordini sociali «sono dovuti alla collaborazione, al dialogo, che presuppongono la reciproca fiducia; e que­st’ultima a sua volta si basa sulla convinzione della forza dell’amore»[38].

      Come ha detto Uriarte commentando il n. 13 della Dives in Misericordia, «la violenza può ergersi a giudice della violenza; la giustizia può, in parte, addomesticarla. Solo il perdono può vincerla, convertirla, liberarla, farvi emergere le potenzialità positive; in una parola salvarla»[39].

 

 

5.     «Misericordia e verità si incontreranno» (Sl 85, 11)

 

      Attraversato il guado del terzo millennio, raggiunti traguardi di inimmaginabile importanza nel campo della ricerca, della scien­za, della medicina - solo per citarne alcuni - ha ancora senso per l’umanità parlare di «misericordia»? Questa parola è ancora in grado di rievocare l’immagine di qualcosa di desiderabile, di suscitare nostalgia per ciò che si è smarrito?

      In un mondo minacciato da possibili catastrofi ecologiche, belliche e naturali, che dipendono in gran parte dall’uso che individui e nazioni faranno della loro libertà, la misericordia, appare l’unica via per frenare l’onnipotente corsa di un Nord che mette in pericolo l’intero pianeta, perché la sola in grado di «restituire l’uomo a se stesso» e di «plasmare i mutui rapporti tra gli uomini»[40]. Da una parte del mondo troviamo uomini e donne degradati dalla povertà materiale, dall’altra il dilagare indisturbato di una miseria morale: solo la reciproca offerta-accoglienza di misericordia può ridonare ad entrambi la dignità perduta e sconfiggere la «disumanizzazione della convivenza»[41]. Una volta riconosciuta la giustizia e la verità, solo un supplemento di amore è in grado di superarle per un dono più grande.

      In una prospettiva puramente culturale, la misericordia «manifesta il bisogno insito nel cuore dell’uomo di un rinnovamento radicale e perenne»[42], che apra la strada ad un confronto carico di fiducia, di attesa e di amore.

      Purtroppo, però, anche la misericordia come il perdono, al quale è peraltro legata con doppio filo, è fraintesa nella sua essenza più profonda ed è comunemente considerata un atteggiamento perdente, da sciocchi. Per altri versi, è ritenuta un gesto che implica e radica la diversità, la disuguaglianza, la distanza tra chi la dona e chi la riceve[43].

      Nella S. Scrittura la parola «misericordia» è ripetuta per centinaia di volte, per esempio con i termini hesed e rahamin. nella versione ebraica[44] o èleos, oiktirmòs e splànchna nella versione greca[45]. Se vi è un libro in cui la misericordia si presenta come il leit motive di tutta la narrazione, questo è proprio la Bibbia in cui si fa memoria di un rapporto tra il popolo di Israele ed il suo Dio, tra nazioni e culture diverse, tra singoli individui. In alcuni passi evangelici, «l’atto di misericordia […] manifesta la sua virtuale universalità per l’assenza di ogni motivazione religiosa»[46].

Così, l’evangelista Luca, sembra ambientare la parabola del Samaritano in un «contesto secolarizzato: non vi è una lettura colpevolista della disgrazia occorsa al viandante, tutta la cornice della narrazione – nota Franzoni - è laicamente costruita» [47].

 

 

6.     Da uno sguardo, la compassione

 

      Per San Tommaso, «la misericordia è partecipazione alla miseria dell'altro sulla base della simpatia»[48], non dunque per una sorta di commiserazione, ma per una partecipazione empatica al­l’altrui sofferenza.

      A Rogers il merito di aver risvegliato l’attenzione per questa dimensione affettiva tanto essenziale e vitale quanto difficile da vivere nelle relazioni concrete. Lui parla di empatia, come «capacità di immergersi nel mondo soggettivo altrui e di partecipare alla sua esperienza […]; la capacità di mettersi al posto di un altro, di vedere il mondo come lo vede costui»[49], di indossare - diremmo noi - i suoi panni o di fare due chilometri con le sue scarpe, come direbbe un brasiliano. Al di là delle diverse espressioni, fondamentalmente, si vuole indicare un atteggiamento non giudicante, disposto a comprendere dando fiducia; tutto ciò crea una profonda solidarietà derivante proprio da una comune esperienza esistenziale.

      L’attenzione e la sollecitudine verso il «prossimo» è un aspetto essenziale nell’educazione del terzo millennio ed è l’espressione tangibile della «compassione» umana verso il proprio simile, «senza distinguere buoni e cattivi, amici e nemici, parenti od estranei»[50], soprattutto quando questi versa in uno stato di bisogno: la compassione crea prossimità.

      Da tale atteggiamento dipende la capacità di affrontare meglio situazioni di disagio e di emergenza[51], come pure il benessere dell’umanità e dell’intero pianeta.

«Il servizio della compassione è, forse, il più prezioso. Si traduce in relazioni improntate all’oblatività e alla fedeltà, capaci di trasmettere calore, tenerezza, perdono, senza ricatti striscianti, pretese. La compassione apre gli spazi per una comunicazione che si addentri nelle profondità e strappi le persone dalla solitudine e dalla disperazione di chi, avendo molto, non ha mai abbastanza, e di chi, poco o molto che abbia, non trova un motivo accettabile per vivere».[52]

      Guardare negli occhi chi abbiamo di fronte, qualsiasi sia il colore della sua pelle, il suo modo di pensare o di vestire, la sua religione, è un primo ed elementare gesto di prossimità che ci apre alla possibilità di riconoscerlo simile e al tempo stesso “al­tro” da noi. Il guardare come gesto implica una intenzionalità ed è diverso da un vedere che non sempre arriva a muovere la volontà, il cuore o le “viscere”, per usare un’espressione biblica.

      Anche per Madre Speranza è chiaro che l’attenzione va rivolta a tutto l’uomo, per partecipare, con lui, a quella sua particolare situazione:  «se vi capita di trovarvi con una persona oppressa dal dolore fisico o morale, non cercate di soccorrerlo o fargli un’esortazione senza avergli prima rivolto uno sguardo di compassione»[53].

      Il termine compassione,  nel racconto biblico del Buon Samaritano, indica il movimento delle viscere che, sottolinea Franzoni, nella letteratura tardogiudaica «sono la sede di un impulso di misericordia»[54].

      La commozione, che è «un atto umano e quindi areligioso»[55], connota in un modo del tutto speciale anche il rapporto di Jhavè  con il suo popolo. Dio «guardò verso gli israeliti e prese a cuore [letteralmente: “si fece conoscere da loro”] la loro condizione” (Es 2, 23-25)», dove «farsi riconoscere»  significa un coinvolgimento intimo e totale[56].

      Allo stesso modo, nel parlare di Cristo e della sua vita, gli evangelisti sottolineano gli sguardi rivolti alle singole persone e alle folle, la commozione di fronte alla sofferenza altrui: «sbarcando vide una grande folla - racconta Marco - e si commosse per loro»  e si mise a sfamarli con il pane e la parola. Troviamo, quindi, un Gesù attento a tutto l’uomo nella sua indigenza fisica e spirituale ed anche capace di cambiare i suoi programmi[57].

 

 

7.     Il cammino della prossimità

 

      L’amore, nei suoi diversi aspetti di eros, philia, storge ed agape, aiuta l’essere umano a scoprirsi come «essere in relazione» con quanto lo circonda. Ogni cosa nell’uomo parla del suo “essere per”, della sua  apertura all’altro: la sua fisicità, la parola, lo sguardo, i sentimenti. “Tutto rivela che il suo statuto ontologico esistenziale è uno statuto di relazione”»[58].

      Soltanto l’amore ha bisogno di un altro con cui condividere, di un partner che gli sia simile e allo stesso tempo capace di arricchirlo con la sua diversità. «Dio, nel creare l’uomo e la donna a sua immagine, sembra dire loro: “Tu non sei solo, tu vivi costantemente in una prossimità sacra”»[59].

      Sicuramente anche il mondo laico, sia pure dissentendo sul­l’aspetto sacro dell’unione, è pronto a riconoscere alla coniugalità, al matrimonio,  il primato della prossimità, nel senso che esso è alla base dell’origine di ogni persona umana e della società stessa; è il luogo dove, uomo e donna, si riconoscono partecipi di quella stessa natura che sono pronti a donare a chi sarà “altro” da loro. Da qui, ogni nuova figliolanza allarga la relazione «in senso orizzontale perché genera fraternità»[60]. Lo statuto familiare è solo la prima esperienza, in senso temporale, di una vicinanzaprossimità che ha di per sé una dimensione spirituale. Senza tale dimensione, intesa nella sua attività volitiva e conoscitiva, non potrà mai aversi vicinanza e prossimità: «si è “vicini”, si è “pros­simi” quando ci si conosce e quando ci si vuole; si è “lontani” quando non ci si conosce e non ci si vuole»[61].

      È possibile costruire la prossimità solo in un rapporto personalistico che riconosca nell’altro un soggetto partecipe della stessa umanità. La prossimità, infatti, è il riconoscimento dell'altra persona «”in se stessa”: in ciò che essa è come tale, nella sua verità; “per se stessa”: non in vista di qualcosa d'altro, ma per il va­lore, il bene che essa è, che è visto tale da non poter essere subordinato a niente altro»[62].

      «Il senso del prossimo, concetto portatore dell’idea di uguaglianza e fraternità, possiede di per sé una efficacia storica»[63] ed, al tempo stesso, è il comandamento principale per ogni cristiano: Dio va amato con tutte le forze, cuore, mente e volontà, ed il prossimo va amato come se stessi, senza attenuanti e senza mezze misure. Franzoni parla di una mistica della prossimità, capace di superare una «religiosità umanizzata»[64], sapendo scorgere la reale presenza di Dio nel prossimo.

      L’altro, che ha sempre da offrirci una ricchezza che noi non abbiamo e, precisamente, la diversità che porta in sé, va sempre avvicinato nella sua totalità e singolarità.

 

 

8.      «La donna come “altro”»[65]

 

      È un tema, quello della donna, che, già da qualche decennio, anche in campo culturale sta suscitando notevole interesse nei più svariati ambiti, da quello delle scienze umane, sociali, politiche a quello teologico.

      Il mio personale interesse per questa riflessione non nasce però dall’attualità del tema, ma piuttosto dalla convinzione che l’attenzione allo specifico della donna, può favorire la scoperta di quella «pari dignità differenziata»[66], che valorizza l’essere umano nella sua globalità.

      Alla donna, è chiesto di riflettere sul suo specifico posto e ruolo nel mondo, di mettere a frutto quei “talenti” di cui il Creatore l’ha dotata, di essere trasmettitrice di vita e non solo nel senso fisico del termine: «Chiedo... alle donne di schierarsi tutte e sempre dalla parte dell’amore e della vita»[67], a loro Dio ‘affida in modo speciale l’uomo’, l’essere umano[68].

      Già nel 1968, al termine del Concilio Vaticano II, che ha segnato la storia della Chiesa, del popolo di Dio e, di riflesso, del­l’intera umanità, i Padri Conciliari inviavano un messaggio a tut­te le donne figlie, spose, madri, religiose:

«Viene l’ora, anzi l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si compie nella pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, uno sviluppo, un potere mai raggiunti fino ad ora... le donne ripiene dello spirito del Vangelo possono molto per aiutare l’umanità ad attingere alla sua finalità...»[69].

      In una società come la nostra, dove si avverte l’urgenza di umanizzare le diverse culture, la donna ha un ruolo fondamentale. Ella non è stata la principale costruttrice della attuale cultura materialistica, competitiva e alla ricerca del potere ma, anzi, ci si è ritrovata dentro, spesso sperimentando impotenza e sofferenza. In questo senso, può essere portatrice di quel capitale umano che sembra scomparire dalla diverse culture e verso il quale si orientano le nuove generazioni.

      La donna non essendo generalmente detentrice del potere, può offrire la sua capacità di essere portatrice di valori diversi da quelli dominanti, da quelli di una cultura globalizzante. Tali valori si possono identificare con quelli di un prendersi cura capace di portare, contenere, accogliere, custodire, nutrire; di una solidarietà capace di dare la vita, ospitare, lasciarsi segnare dal dolore, di fedeltà, attenzione all’unicità della persona; di una intuizione capace di cogliere ed affrontare la complessità e la rapidità dei cambiamenti, di feconda creatività, di espressività.

      Ma, in conclusione, vorrei far risaltare un valore, in parte già espresso, che attiene in modo peculiare alla donna: essere fautrice di una umanità piena![70] Con questa espressione, da una parte si allude al compito di favorire lo sviluppo armonico e la maturità dell’essere umano offrendosi lei stessa come relazionemediazione significativa, dall’altra al compito di rendere questo nostro mondo sempre più ospitale, facendosi lei stessa “terra abitabile”, facendosi nuova profezia al femminile.

(continua)

[32] Giovanni Paolo II, Messaggio mondiale della pace, 1.1.2002: “Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono”, Ed. Vaticana, n. 15.

[33] «”Giovanni Paolo II - scrive Mario Pomilio - deve aver fortemente sofferto il dramma di un'epoca che ha visto troppo spesso all'opera il principio della giustizia, troppi eventi nei quali si è operato mostrando di amare più le idee che gli uomini, troppe rivoluzioni per effetto delle quali è andata calpestata la dignità di coloro in nome dei quali le si voleva realizzare” (M. Pomilio, La misericordia e la dignità dell'uomo, “Idea”, XXXVII (1981), n. 1-2, p. 77)» (Riportato da Alici L., Basta la giustizia? Lo smarrimento della misericordia e la crisi dell’umanesimo contemporaneo, in Aa.Vv, Prima lettura della Dives in misericordia, Ed. L’Amore Misericordioso, Collevalenza (PG) 1982, p. 126).

[34] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica: Dives in misericordia, Ed. L’Amore Misericordioso, Collevalenza (PG) 1982, n. 12.

[35]   Ricoeur P., Solidarietà e Cultura, Ed. Cultura nuova, Firenze 1995, p. 19.

[36] Alici L., Collana Profili: Madre Speranza…, op. cit., p. 6.

[37] Ibidem, p. 22.

[38] Cottier G. o.p., Valori e transizione: il rischio dell’indifferenza, Ed. Studium, Roma 1994, p. 186.

[39] Uriarte J.M., La chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia, in Aa.Vv, Prima lettura della Dives in misericordia, Ed. L’Amore Misericordioso, Collevalenza (PG) 1982, p. 231.

[40] Giovanni Paolo II, Enciclica apostolica: Dives in Misericordia, n. 14.

[41] Alici L., Basta la giustizia?..., op. cit., p. 127.

[42] Aa.Vv., Misericordia. Volto di Dio e dell’umanità nuova, Ed. Paoline, Milano 1999, p. 6.

[43] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica: Dives in misericordia, n. 14.

[44]  Il primo «indica un profondo sentimento di bontà» che implica il concetto di fe­deltà; il secondo «denota l'amore della madre». Ambedue i significati sono attri­buiti a Dio. (cfr Enc. Dives in Misericordia, nota 13, Ediz. Paoline).

[45]  «Éleos indica prevalentemente il sentimento dell'intima commozione; compare nella stesura biblica dei LXX almeno 400 volte e 78 volte nel Nuovo Testamento (26 volte solo in San Paolo), sempre col significato prevalente di «irruzione della misericordia divina nella realtà della miseria umana, attraverso la potente azione liberatrice e risanatrice di Gesú di Nazareth». Ma si trova anche dove Gesú «testimonia la misericordia sovrana di Dio, che esige una risposta adeguata non nel­l'os­­ser­­vanza rituale scrupolosa, bensí nell'attiva solidarietà con i piú umili e con gli affamati», contro «un formalismo casuistico, [che è] a tutto svantaggio delle prescrizioni piú gravi della legge: la giusti­zia, la misericordia, la fedeltà» (v. p.e. la parabola del Buon Samaritano).

     Oiktirmòs  compare nei LXX circa 80 volte e circa 10 volte solo in San Paolo, per dire Dio padre di misericordia che si rivolge agli uomini in questo atteg­giamento.

     Splànchna, che troviamo nel Nuovo Testamento solo come verbo (splanchnízomai): muoversi a compassione, pone l'accento sulla sede di questi sentimenti, come le “viscere”, il “cuore”.». È detto p.e. di Gesú di fronte alle folle affamate o stanche, nelle parabole del figlio prodigo e del samari­tano» (da Taddei N., Ruolo..., op. cit., pp. 18-19.

[46] Franzoni G., La solitudine..., op. cit., p. 73.

[47]   Franzoni G., La solitudine..., op. cit., p. 74.

[48] Morra G., Misericordia e culture attuali, in Aa.Vv., Prima lettura della Dives in misericordia, Ed. L’Amore Misericordioso, Collevalenza (PG) 1982, p. 81.

[49] Rogers C. – Kinget G., Psicoterapia e relazioni umane, Ed. Boringhieri, Torino 1970, p. 92.

[50] Madre Speranza, Collezione El pan 8, n. 1063.

[51] Cfr. Cohn-Bendit D.-Schmid T., Patria babilonia. Il rischio della democrazia interculturale, Ed. Theoria, Roma 1996, p. 27.

[52] Shalück H., Consacrazione e servizio, 7-8/2000, p. 36.

[53] Madre Speranza, Collezione El pan 5, op. cit., n. 6.

[54] Franzoni G., La solitudine..., op. cit., p. 55

[55] Ibidem, p. 75.

[56] Ibidem, p. 63.

[57] Per il passo biblico: Mc 6, 30-44. Cfr. anche Ibidem, p. 57.

[58] Ducci E., Ipotesi di convergenze interculturali, in Aa.Vv. (a cura di Dalla Torre G. - Di Agresti C.), Società multiculturale e problematiche educative, Ed. Studium 1992, p. 28.

[59] Caritas Italiana, Sette parole per dire mondo, Ed. EDB, Bologna 1997, p. 7.

[60] Bello A., Dissipare l’ombra di Caino. Appunti sulla non violenza, Ed. La Meridiana, Molfetta (BA) 1996, p. 7.

[61] Caffarra C., L’uomo che mi sta dinanzi, ovvero l’etica della prossimità, in Aa.Vv., E si sporcò le mani…, Ed. L’Amore misericordioso, Collevalenza (PG) 1984, p. 170.

[62] Ibidem, p. 174.

[63] Cottier G. o.p., Valori e transizione: il rischio dell’indifferenza, Ed. Studium, Roma 1994, p. 187.

[64] Franzoni G., La solitudine..., op. cit., p. 27.

[65] Imoda F. (a cura di), Antropologia interdisciplinare e formazione, EDB, Bologna 1997, p. 30.

[66] Ibidem, p. 31.

[67] Giovanni Paolo II, Messaggio mondiale della pace, 1.1.1995: “Donna: educatrice di pace”, Ed. Vaticana, n. 10.

[68] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica: Mulieris Dignitatem, Ed. Vaticana 1988, n. 30.

[69] Concilio Vaticano II, I Messaggi della Chiesa al mondo: Alle donne, Ed. Massimo, Milano 1986, p. 557.

[70] Imoda, con particolare attenzione all’aspetto psicologico, parla della donna come «facitrice di maturità» (Imoda F. (a cura di), Antropologia...., op. cit., p. 35).

 

 

 

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ultimo aggionamento 11 ottobre, 2002