STUDI

 

P. Sante Pessot fam

Estratto dalla Tesi di Laurea presso la UNIVERSITA’ PONTIFICIA SALESIANA

Facoltà di Teologia - Dipartimento di Pastorale Giovanile e Catechetica

Roma 2002

Il perdono e il suo valore educativo

 

Il figlio prodigo

INTRODUZIONE

Padre, non riesco a perdonare quella persona che mi ha offeso, o meglio io l’ho già perdonata, ci siamo anche riconciliati, ma nel mio cuore provo ancora risentimento e odio per il male che mi ha fatto, come posso superare questo momento di difficoltà?
Finché non chiede perdono e non si pente non la perdonerò mai! Come posso perdonare veramente quella persona che mi ha offeso? Sono arrabbiato con Dio per quello che mi ha fatto, non so neanche il motivo per cui vengo qui da lei, cosa posso fare? Ogni volta che rivedo quella persona, mi torna in mente il male che mi ha fatto: come posso dimenticare? Mi sento in colpa perché Cristo ci invita a perdonare, ma io ancora non ci riesco!”.
Talvolta animando gruppi giovanili si creano conflitti, che non si riescono a sanare, il gruppo si divide, si lacera, tra i membri si innalzano muri di divisione, che minano l’armonia del gruppo e i suoi presupposti educativi! Certamente questi episodi, di comune esperienza pastorale ed educativa, chiedono una risposta, che non possiamo eludere tanto facilmente dai nostri progetti e piani educativi e pastorali. Anzi talvolta viviamo queste domande come impreviste, non programmate, da liquidare alquanto prima. Ma quali sono le vere domande educative che sottostanno a queste domande di carattere più superficiale?
Probabilmente la prima domanda seria a cui rispondere, che costituisce una vera e propria sfida educativa è: Che cos’è il perdono? È qualcosa di immediato o è un processo(
1)? Se è un processo che si sviluppa nel tempo, come si sviluppa? E poi: perdonano allo stesso modo un bambino e un adulto? Come un buon educatore, un pastore, un animatore, possono aiutare in questo processo? Quali strumenti hanno a loro disposizione?
Il messaggio cristiano ha al centro l’invito al perdono, alla riconciliazione con i nemici, Cristo l’ha predicato e testimoniato con la sua vita: come si coniuga tutto questo nella nostra prassi pastorale ed educativa?
L’elaborato prende le mosse da queste domande. Si articola in quattro capitoli.
Il primo vuole fare chiarezza sul concetto di perdono: ciò che il perdono è e ciò che non è, avvalendosi dell’apporto critico delle scienze umane, specialmente psicologia e pedagogia, mettendo in luce il valore terapeutico del perdono e le componenti e i fattori in esso coinvolti.
Da queste fondamenta ci siamo chiesti quale sia la novità radicale apportata dalla tradizione giudeo-cristiana sulla prassi e concetto di perdono. Questo ci ha dato l’orizzonte di senso su cui elaborare la parte centrale del nostro lavoro: un processo che, in prospettiva educativo-pastorale, tentasse una sintesi tra i dati delle scienze umane e quelli teologici.
L’ultimo capitolo trae delle applicazioni pastorali e pratiche sul ruolo del processo del perdono elaborato nel capitolo precedente. In modo particolare ci siamo soffermati sul ruolo del perdono nella vita di un giovane che cammina nella fede, e del giovane in ricerca vocazionale, nella vita di un gruppo o di una comunità e nella vita di un malato terminale, che vuole riconciliarsi con se stesso, con il mondo e con Dio.
Come si può ben vedere, da queste brevi battute iniziali, il presente lavoro ha una prospettiva multidisciplinare. Vorrebbe porsi come una sintesi, in prospettiva pastorale, di un insieme di scritti sull’argomento, sia dal punto di vista pedagogico, che dal punto di vista teologico e pastorale(
2).
Vorremmo sottolineare lo sforzo fatto, nel corso dell’elaborato e della ricerca, di tenere il più possibile divise le varie discipline chiamate in causa, lì dove c’è stata una sovrapposizione essa è dovuta alla necessità di più apporti per poter definire maggiormente l’argomento e dalla prospettiva pastorale che ha percorso tutto l’elaborato.

 

Capitolo I: Il perdono

Definizione e modelli psicologici

1. Il perdono

Non risulta facile definire il perdono. Spesso ci si trova davanti a una selva di definizioni che mettono l’accento su alcuni aspetti di esso: alcuni autori tendono a metterne in luce le componenti psicologiche; altri i fattori sociali e ambientali, che possono favorirlo od ostacolarlo; ci può essere perdono con se stessi, nel rapporto con Dio e con il mondo. C’è chi, poi, lo considera come un atto che avviene in un preciso momento, ben definito; altri ritengono che parlare di perdono significhi parlare di un processo, che non si esaurisce in un atto puntuale; altri, infine, ritengono che esso sia la conclusione di un processo e non il processo stesso. Il presente capitolo cerca di presentare alcune definizioni di perdono, gli elementi che lo compongono e alcune dinamiche processuali del perdono, in una prospettiva multidisciplinare. Sembra comunque, che ammettere il bisogno di perdonare e di essere perdonati, significa ammettere la possibilità di sbagliare. Il perdono ha un fondamento realistico, perché si basa su un dato oggettivo inconfutabile: “errare humanum est”(3).

 

1.1 Cos’è il perdono

Si premette che il concetto di perdono, che qui vogliamo prendere in considerazione, è quello riferito alla realtà umana in quanto tale. Su questa base si svilupperanno delle riflessioni con dei riferimenti espliciti al concetto di perdono cristiano.
Il verbo “perdonare” deriva direttamente dal latino “per-donare”, in cui la particella intensiva “per” indica il compimento. Il suo significato etimologico è quindi “donare completamente”(
4). Ma che cosa viene donato completamente con il perdonare? La rinuncia alla vendetta.
Infatti perdonare nella sua radice linguistica più profonda significa “donare completamente la vendetta”(
5). Per comprendere la natura particolare di questo dono è necessario risalire all’evoluzione storica del rapporto tra vendetta e giustizia. Nel periodo arcaico della civilizzazione umana, la vendetta era considerata giustizia in quanto consentiva di ristabilire quell’equilibrio sociale, che il gesto criminale aveva rotto, e garantiva perciò la stabilità del gruppo sociale.
Tuttavia l’esercizio della vendetta, che era sempre appannaggio dei familiari delle vittime, alla lunga, non garantiva l’equilibrio e la stabilità sociale, perché introduceva nella società delle catene di odio tra le famiglie delle vittime e quelle dei colpevoli, che sovente innescavano faide senza fine.
Per questo motivo nell’evoluzione sociale, a un certo punto, l’esercizio della vendetta fu evocato a se dalla comunità e sottratto alle vittime e ai loro familiari.
La vendetta esercitata dalla comunità rappresentò un importante passo nell’evoluzione storica della giustizia, ma non quello definitivo.
Il perdonare rappresenta la tappa finale di questo cammino storico della giustizia, in cui la vendetta viene donata e progressivamente trasformata, da atto di ira distruttrice in atto d’amore.
Questa trasformazione, per non divenire un’utopia o, peggio, un perdonismo, che non rende giustizia alle vittime, ma anzi che le umilia, richiede la creazione di un ambiente sociale in cui possa manifestarsi come vera giustizia e il cammino di una persona che sia aiutata e sostenuta nel riconciliarsi.
In questo contesto è chiaro che il perdono non consiste solamente nel rinunciare alla vendetta e ai sentimenti di tipo aggressivo-vendicativo, ma debba sottintendere anche la volontà di non estraniarsi, fisicamente e psicologicamente, dalla persona responsabile dell’offesa.
Quando un individuo riceve un torto all’interno di una relazione intima, egli per sua natura diventa altamente motivato non solo a vendicarsi della persona che l’ha fatto soffrire ma anche a evitarla. L’eludere ciò che fa stare male costituisce, infatti, una forma istintiva di protezione verso se stessi. Il perdono consterebbe invece in un insieme di cambiamenti motivazionali, per mezzo dei quali, l’individuo che ha subito un’offesa, diviene sempre meno motivato, sia a rivalersi contro l’offensore sia a mantenere le distanze da lui. Non solo. L’individuo che perdona dovrebbe anche risultare progressivamente più incline a rappacificarsi con la persona che l’ha ferito, a essere benevolo verso di lei(
6).
La possibilità di perdono è consentita solo all’uomo e riflette la sua capacità simbolica di dare un senso e conferire ulteriore forza alle relazioni interpersonali, che in prima istanza sembrano essere destinate a soccombere e a disgregarsi.
D’altra parte, l’esperienza del perdono rappresenta un fenomeno assai complesso da descrivere e comprendere. Il perdonare, il vero perdono non è mai un atto semplice, ma costituisce l’esito di un processo arduo, tortuoso e spesso doloroso, sia per chi perdona, sia per chi è perdonato(
7).
È chiaro quindi che il perdono avviene sempre all’interno di una relazione e chiede una notevole maturità per la persona che perdona e per chi è perdonato.
È importante che il fatto-offesa, che ha rotto la relazione, non venga ignorato, rimosso, oppure dimenticato, neppure che sia giudicato in maniera negativa. Durante il processo di perdono si sviluppa un dialogo intimo, significativo ed intenso; è un superamento di un’esperienza che ha prodotto delusione, rabbia, paura, offese e umiliazioni(
8).
L’ambiente in cui avviene tutto questo è quello di una giustizia, che stimola e aiuta il colpevole ad assumere la responsabilità del proprio gesto, pentendosi e offrendo alla società la propria espiazione, come forma di ristabilimento dell’equilibrio sociale turbato. Oltre a questo, alla vittima, o ai suoi familiari, deve essere offerta una condivisione solidale del dolore, che le consenta di elaborarlo e di scoprire che esso può trasformarsi in vita solo attraverso un gesto d’amore: il perdono.
Senza la presenza di questo ambiente sociale tessuto dalla giustizia, con i fili dell’assunzione di responsabilità, del pentimento, dell’espiazione e della richiesta di perdono, da parte del colpevole e con i fili dell’elaborazione della sofferenza e del lutto, nella gratuità di un gesto d’amore da parte del colpevole, senza la condivisione del dolore della vittima da parte della comunità e l’elaborazione del dolore o della perdita da parte della vittima, o dei suoi familiari, il perdono rischia di non essere vero, perché non reale e di lasciare profonde tracce di rancore e di odio nella comunità e nel cuore delle vittime.
È solo a queste condizioni che il colpevole può iniziare il cammino verso la riconquista di quella umanità da cui il gesto efferato lo ha separato(
9).
Perdonare non è un gesto facile, sempre liberatorio, perché esso è un gesto autentico solo se è il risultato di un cammino faticoso e doloroso di costruzione di una realtà umana più evoluta.

 

1.2 Cosa non è il perdono

Perdonare non è dimenticare
Una delle confusioni più frequenti è proprio quella di identificare il perdono con l’oblio, ma il perdono non è dimenticare e dimenticare non è perdonare! Non si tratta semplicemente di passare un “colpo di spugna” o “voltare pagina” come se niente fosse successo! Se il perdono permette all’offensore di ritrovare la sua dignità, questo non avviene mai a spese della memoria. Spesso le ferite, che si dicono dimenticate, lasciano in realtà molte cicatrici indelebili, fisiche, psichiche e spirituali(
10).
Quando si perdona non si dimentica il male che qualcuno ha commesso, come se dimenticare fosse parte integrante del perdono. Non si può perdonare qualcosa che si è dimenticato. Abbiamo bisogno di perdonare proprio perché non abbiamo dimenticato il male subito. Il ricordo mantiene viva la sofferenza quando il colpo è passato. Il ricordo è il magazzino della sofferenza, è il motivo principale per cui abbiamo bisogno di essere guariti.
Esistono due tipi di sofferenza che si dimentica. Si dimenticano le ferite troppo banali per preoccuparsene e quelle troppo orribili perché la memoria possa gestirle. Una volta che abbiamo perdonato, tuttavia, acquistiamo la libertà di dimenticare. A questo punto dimenticare è segno di salute. Possiamo dimenticare perché siamo guariti. Ma anche se dimenticare dopo aver perdonato è più facile, non bisogna considerarlo la prova che abbiamo perdonato. La prova che abbiamo perdonato è la guarigione della sofferenza persistente del passato, non lo scordare che il passato sia accaduto(
11).
Possiamo quindi dire che il perdono è un atto di memoria: bisogna ricordarsi dell’offesa subita con sufficiente chiarezza per poter offrire un perdono, che non lasci in ombra alcun motivo di risentimento(
12).

 

Perdonare non è scusare
La parola “scusare” spesso porta con se molteplici significati: talvolta significa, cercare di comprendere le reali motivazioni, che hanno portato l’offensore a compiere l’offesa, talvolta è l’invito a passare sopra, talvolta indica tollerare quella persona. Cerchiamo di chiarire.

  1. Scusare come overlooking. Dopo che vi è stata un’offesa il primo passo è quello di riprendere la comunicazione presentando l’offesa. La moglie ingiuriata ha deciso di non dire la sua al marito, di non dire come si sente a causa dei suoi insulti, perché perdona il marito. Questo non è perdono, è passare sopra (overlooking), dicendo che l’ingiuria è piccola e che lei non si sente offesa(13).

  2. Scusare come comprendere. “Bisogna tentare di mettersi al posto dell’altro per comprendere e poter perdonare!”. Ma è sufficiente “comprendere”, con la propria ragione il passato, la psicologia dell’offensore, le circostanze attenuanti del suo gesto, per “perdonare”? Questo forse permette di “scusare”, ma non di accordare il perdono, la cui gratuità non poggia necessariamente su una “comprensione” preliminare. “Scusare” è correre il rischio di considerare l’offensore come irresponsabile, l’offesa come se non fosse veramente tale(14).
    La scusa intellettiva non riunisce in sé i tre caratteri distintivi del perdono. Essa non è un avvenimento, né un rapporto personale con l’altro, né un dono gratuito. Estraneo all’avvenimento, l’atto di scusa implica la perdita del suo offensore e per conseguenza viene a mancare l’offeso. Senza offesa, l’offeso e l’offensore spariscono.
    Se l’offeso fosse più lucido, egli perdonerebbe nell’istante stesso in cui viene offeso; anzi avrebbe perdonato anticipatamente tutti i futuri peccati di tutti i peccatori.
    Tale modo di fare non implica un rapporto personale con l’altro. Scusiamo in virtù di un valore impersonale. Di qui ad amarlo come avviene nel vero perdono c’è un abisso che nemmeno la giustizia ci chiede di superare. In questo processo c’è solo tolleranza ed indifferenza. La comprensione intellettiva non è meritoria, non fa male e non costa niente. In questo tipo di perdono l’amor proprio non è in alcun modo segnato. Il perdono cessa di perdonare se deriva dall’intellezione. La comprensione scopre che l’avvenimento fallace è nullo, il perdono decide di considerare l’avvenimento nullo(
    15).

  3. Scusare come tollerare. Ogni volta che un gruppo di persone cerca di vivere o di lavorare insieme, deve stabilire che cosa è disposto a tollerare. Un gruppo che tollera tutto, finisce per decretare la propria fine. Ogni gruppo deve decidere che cosa è disposto a tollerare e che cosa a perdonare. Ma bisogna ricordare che non si devono tollerare le azioni di una persona solo perché la si perdona. Il perdono ci guarisce. Tollerare tutto a lungo andare, danneggia tutti.

 

Il perdono non è la riconciliazione
È necessario considerare anche la presenza di un atteggiamento di rispetto e di effettiva benevolenza per l’offensore nonché, qualora si sia a lui legati, da una relazione personale, la volontà di far pace e di riconciliarsi. Se al perdono compete, dunque, la potenzialità di restaurare i rapporti, è bene, tuttavia, rilevarne la natura specificamente distinta da quella propria della riconciliazione o atto del far pace. Quando una relazione risulta temporaneamente deteriorata dal verificarsi di un atto offensivo, il fatto che la vittima perdoni l’offesa subita denota l’esistenza in lei di una disposizione positiva favorevole alla rappacificazione. Tuttavia; affinché il rapporto tra vittima e offensore venga effettivamente recuperato e i due facciano pace è necessario non solo che tale disposizione positiva sia al contempo presente nella vittima e nell’artefice dell’offesa, ma soprattutto che essa si traduca, in ambedue le persone coinvolte, in comportamenti tali da risanare, di fatto, il rapporto tra le stesse. In altri termini, mentre il perdono indica principalmente lo stato interno dell’individuo offeso, in virtù del quale egli diventa incline a ricucire il rapporto con la persona che gli ha fatto del male, la riconciliazione designa, invece, l’esito di una serie di scambi interattivi tra l’individuo offeso e la persona responsabile dell’offesa, in virtù dei quali i due giungono a ricomporre, attraverso uno sforzo congiunto, la loro relazione reciproca(
16).

(continua)


1 In questo elaborato quando parliamo di processo intendiamo un processo educativo. Esso è tale per alcune qualità: in quanto consapevole e intenzionale, vale a dire rivolto all’effettiva educazione della personalità; in quanto è direzionale, vale a dire dotato di spinta e tensione a termini significativi; in quanto è complesso, vale a dire liberatore di vitalità, relazionale a realtà, generatore di buone forme di essere e di atteggiarsi virtuoso, di agire e operare valido; ed infine in quanto bisognoso di mediazione e di guida. Cfr.: GIANOLA P., Processo educativo, in PRELLEZO J.M. (coord.), Dizionario di scienze dell’educazione, Leumann-Torino-Roma, Elledici-SEI-LAS, 1997, pp. 858-859.

2 Pensiamo di aver raggiunto quanto è stato scritto sull’argomento in lingua italiana, francese e inglese. Si sottolinea in modo particolare l’esistenza di due siti molto interessanti di bibliografia sull’argomento: www.forgiving.org; www.forgivenessweb.com; data la loro prospettiva specificamente pastorale, sono stati di grande aiuto i testi: SMEDES L., Perdonare e dimenticare, Vicenza, Neri Pozza, 1998 e MONBOURQUETTE J., L’arte del perdono, Cinisello Balsamo, Paoline, 1994.

3 Cfr.: PACIOLLA A., Psicodinamiche del perdono, in “Anime e Corpi” 143 (1989), p.266.

4 FLORISTAN – DUQUOC CH., Editoriale, in “Concilium” 2 (1996), p.11.

5Cfr.: POLLO M., Il perdono e la giustizia, in “Note di Pastorale giovanile” 7 (2001), pp-5-6.

6 McCULLOUGH M.E. et alii, Interpersonal forgiving in close relationships: II. Theoretical elaboration and measurement, in “Journal of Personality and Socia1 Psycho1ogy” 75 (1998), pp. 1586-1603; McCULLOUGH M.E.- WORTHINGTON E.L.- RACHAL C.K., Interpersonal forgiving in close relationships, in “Journa1 of Personality and Social Psycho1ogy” 71 (1997), pp. 321-336.

7 PALEARI G. – CAMILLO R., Il perdono nella letteratura psicologica in SCABINI E. – ROSSI E., Dono e perdono nelle relazioni umane, Milano, Vita e pensiero, p. 180.

8 CAVALIERE R., Perdonare. Istruzioni per l’uso, Roma, Città Nuova, 1999, pp.53-58.

9 Cfr.: POLLO Il perdono…, 6.

10 Cfr.: HUBAUT M., Saper Perdonare. Riconciliazione e guarigione interiore, Padova, Edizioni Messaggero, 1995, pp.29-31.

11Cfr.: SMEDES L., Perdonare e dimenticare, Vicenza, Neri Pozza, 1998, pp. 60-62.

12 Cfr.: LAFITTE J., Il perdono trasfigurato, Bologna, EDB, 2000, p. 67.

13 Cfr.: GLENN V., Psychological Concepts of Forgiveness, in “Journal of Psychology and Christianity” 2 (1992), pp. 161- 169.

14 Cfr.: HUBAUT, Saper…, 26-28.

15 Cfr.:JANKELEVITCH V., Le pardon, Paris, Aubier-Montaigne, 1967, pp. 84-90.

16 Cfr.: PALEARI, Dono…, 196.

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ultimo aggionamento 01 febbraio, 2003