STUDI
 

     Prof. Ing. Calogero Benedetti

 

Il rischio di credere
(Ovvero: lo splendore della Fede in Cristo)

 

 

 

 

Lantica tradizione in terra di Spagna novera, con commozione e rispetto, la leggenda di Santa Eulalìa, la giovinetta di Mérida, che al tempo di Diocleziano Imperatore in Roma (304 d.C.) affrontò volontariamente il martirio più atroce che può essere inflitto ad una donna, e ciò per rendere se stessa pubblicamente un "segno", una testimonianza vivente della Fede in Cristo.

Lo fece recandosi volutamente al cospetto del Console e pronunciando davanti a lui un’unica parola, "credo", con il coraggio che solo è dato dall’amore, qualunque fosse poi il "prezzo" che le sarebbe toccato pagare e che in effetti Le fu fatto pagare.

Eulalìa è un termine greco composto, "eu" = bene e "lalìa" = asserzione, il cui significato è dunque "colei che ha bene asserito", e quindi più che un nome è un titolo che riassume la persona di Lei come un proclama, quello della testimonianza resa per Cristo con l’offerta di tutta se stessa, con il dono del proprio corpo in consapevole volontario olocausto.

La trasposizione in versi della Leggenda di Santa Eulalìa che Garçìa Lorca redasse negli anni ’30 del secolo scorso, quando in Spagna infieriva la Guerra Civile, ha fatto del racconto su Santa Eulalìa uno stupendo best-seller oggi conosciuto in tutto il mondo, il best-seller del "rischio di credere".

Questo rischio è innestato sul ceppo stesso della Fede in Cristo, ed in essa solo, e in un modo che non può esserne separato.

Nella Fede filosofica invece, quella che si nutre dei Ragionamenti, che si nutre della Logica e delle Analogie, insomma del "sapere" e genera le credenze, non è dato di incontrare percontro un tale rischio, anzi nessun rischio.

Per tal motivo esiste un abisso tra "Fede" e "Credenza".

La "Fede" implica la volontà di donarsi spogliandosi di sè ed affrontando il rischio che le è sempre congiunto, mentre la "Credenza" rispecchia solo (anzi è) la semplice persuasione mentale che certe cose stiano in un dato modo, nei cui confronti si danno talora il coraggio, la perseveranza, talvolta l’ostinazione di asserirle, ma mai l’offerta di sè per amore.

Ma quando Cristo parlava alle folle della Fede la Sua domanda era: "perché non volete credere?", e questo, come si vede, è un appello rivolto all’adesione della volontà e non un appello rivolto alla persuasione mentale degli ascoltatori.

L’efficacia della persuasione mentale è un ambito ristretto al solo rendere attenti, ma non determina la Fede, perché questa è una libera scelta, un’azione di amore, e non un semplice "ritenere per vero", mentalmente, qualcosa; e l’amore implica, come si sa, un incontro fra persone, fra un Tu ed un Io singoli e specifici.

La Fede, nel significato di amore, è il frutto di tale incontro fra l’uomo e Cristo, fra ogni mè ed ogni Tu.

Il "movimento" della Fede è con ciò un percorso a senso unico, è "fides quaerens intellectum" non invertibile nel simmetrico "intellectus quaerens fidem"1 ; e tale non-invertibilità (assenza di simmetria) è data dal "rischio", che è connaturato alla Fede quale "affidamento di sè", cosa che invece non è connaturata al semplice moto dell’intelletto.

Il rischio consiste poi nell’assumere su di sè la desolazione della Croce di Cristo, per condividerla con Lui per amore, così come Egli l’ha assunta per condividere, per amore, il dolore dell’uomo; cose assenti nella semplice figura della Credenza.

È questo quel che diversifica ogni Fede mondana nonchè Sapienza dalla Fede cristiana: la persona di Cristo e l’unione d’amore. Esse rendono congiunta la Fede al rischio condiviso per amore superando il dubbio con l’offerta di sè ("fiat mihi secundum verbum tuum") per il preciso scopo di identificarsi con Lui, Cristo, e con ogni "Tu", così come Lui si è identificato con noi e con ogni "io".

Il movimento nella Fede è pertanto assai simile a quello della sposa che offre, per amore, se stessa all’amato, in nudità e povertà, il massimo che ella può fare per lui.

L’intelletto serve, nel "movimento" della Fede, per rendere attenti e scartare il fabuloso, l’irreale, il soggettivo, onde potersi attenere solamente alla persona di Lui, Cristo, ed in Lui degli altri. ("Sei Tu colui che dobbiamo aspettare o ne dobbiamo attendere un Altro?).

Con ciò è l’intelletto ad essere dunque subordinato alla Fede, e non viceversa; e tale asimmetria del percorso è data dal "rischio" coniugato alla Fede e da affrontare per libera scelta di amore. Un percorso ripeto non determinato e non invertibile, ma che genera un sapere più profondo, quello dell’intimità con "Lui", Cristo, immediata e "certa".

È questo lo splendore della Fede.


1 "La Fede interroga l'intelletto" e non "l'intelletto interroga la Fede"

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ultimo aggiornamento 04 luglio, 2006