STUDI

   Don Alfonso Cammarata     

"Da vasi di ira a vasi di misericordia"

(Rm 9, 22-23)

 

Estratto dalla Tesina

di Licenza presso la Pontificia Università Gregoriana

Istituto di spiritualità

Roma 2006/2007

 

III CAPITOLO

 

 

La misericordia di Dio sperimentata e proclamata da san Paolo

"Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,

Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione,

il quale ci consola in ogni nostra tribolazione" (2Cor 1,3-4)

(seguito)

3.1.5 - 1° Lettera a Timoteo 1,12-13

In 1Tim 1,12-13, Paolo ci fa interpretare moralmente la sua conversione:

"Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.

Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna" (1Tim 1,12-16)

Paolo ricorda a se stesso e a Timoteo la sua conversione, nella quale sovrabbondò veramente la grazia di Dio che, in un istante fece di un persecutore e bestemmiatore un Apostolo. Per questo Paolo sente il bisogno di ringraziare il Signore Gesù che gli apparve sulla via di Damasco: pur avendo delle attenuanti, quali l’ignoranza e la mancanza di fede, si riconosce come peccatore, anzi il primo dei peccatori, oggetto in quanto tale della misericordia di Dio.

Paolo presenta l’apostolato come un servizio o ministero talmente importante che non si può realizzare senza una speciale forza che venga da Dio: perciò egli ringrazia Cristo non solo di averlo scelto per il ministero, ma di averlo anche fortificato.

All’origine della sua conversione sta una sovrabbondanza di grazia e di amore da parte di Dio che lo rinnovò interiormente, facendo fiorire nel suo cuore il prodigio della nuova fede e della nuova carità, che non solo terminano nel Cristo, ma da lui hanno principio e alimentazione: "dove aveva abbondato il peccato, sovrabbondò la grazia" (Rm 5,20).

Paolo inserisce la sua conversione nel quadro più generico della condotta di Dio verso i peccatori che Cristo è venuto a salvare. Essendo l’Apostolo il primo e più grande dei peccatori, può ben servire da esempio per tutti gli altri ad avere fiducia nella misericordia e longanimità di Cristo per ottenere la vita eterna.

Paolo sperimenta la misericordia di Dio e la augura a tutte le comunità da lui fondate e a tutti i suoi figli: "grazia, misericordia e pace" (1Tim 1,2). Si tratta dell’amore gratuito e salvante di Dio rivelatosi e comunicato in Cristo che dà un contenuto nuovo al kaire (sta bene, sii felice), greco-pagano. L’amore che accoglie e perdona, cioè la misericordia, è di sapore biblico. La pace rimanda ancora a quella tradizione biblica che attende per il tempo finale il shalom messianico, cioè la felicità piena e duratura. Dio "nostro salvatore" si fa incontro ai credenti cristiani nei doni salvifici che la fede in Gesù fa pregustare come pegno e anticipo della speranza19.

 

3.1.6 - 2° Lettera ai Corinti 12, 1-10

Paolo scrivendo alla comunità di Corinto a proposito della sua chiamata permette di penetrare profondamente nella sua anima, ricordando ai Corinti, in questa lettera, "dalle molte lacrime" (2,4), la grazia straordinaria che "un uomo"20 ha ricevuto quattordici anni prima.

"Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo21.

Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto. "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza". Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio delle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole e allora che sono forte" (2 Cor 12, 1-2.7-10).

Nel prosequio del racconto Paolo sottolinea come Dio abbia provveduto al rimedio ed all’antidoto al pericolo di cadere in superbia, che questa esperienza di rivelazione poteva causare: "Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia" (v.9) .

Paolo si immerge allora, immediatamente, nella preghiera, che, anche se appare semplicemente come richiesta di allontanamento della spina nella carne, mi piace considerarla come esperienza di incontro con il Signore per discernere le proprie mozioni interiori. Emerge gradualmente, così, nel profondo del suo essere attraverso questa preghiera, l’intuizione e l’ispirazione da parte del suo Dio, che lo porta a sperimentare ciò che evidenzia e rivela, in modo evidente, con la frase: "A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me ed egli mi ha detto. "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2 Cor 12, 8-9).

Questa «asqene¢ia» fa certo e sicuro Paolo solo della fiducia del suo Signore, ed in questo slancio d’amore formula tutto il programma del suo apostolato. Così può guardare alle sue «debolezze» in relazione esistenziale con la forza di Dio e giungere ad una certezza operativa: "Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo…: quando sono debole è allora che sono forte" (2 Cor 12, 9b-10b) .

In Galati 6, 14 Paolo dice:

"non c’è altro vanto per me che nella croce del Signore Gesù Cristo per mezzo della quale io sono stato crocifisso al mondo e il mondo è stato crocifisso a me".

Paolo si chiede: volete che io mi vanti? Io mi vanto della croce di Gesù che vive in me, che è croce di morte e di risurrezione, e nessuno mi dia più fastidio perché io porto le stigmate, i segni di questa presenza crocifissa e risorta di Gesù che vive in me (cfr. Gal 6,17). Anzi, io porto a compimento, a favore della Chiesa, i patimenti di Cristo, a favore di questa Chiesa, della mia Chiesa! (cfr. Col 1,24).

Questa è la mistica apostolica di Paolo. Paolo non è un visionario, quella di Paolo non è la mistica delle grazie infuse destinate a pochi. La mistica di Paolo è la mistica di un uomo contemplativo nell’azione. Paolo parla della sua esperienza mistica, di lui, di questo uomo si vanterà, di se stesso invece non si vanta, se non nelle sue debolezze. Lui si vanterà della grazia di Dio che lo ha trasfigurato e lo ha fatto tempio della sua gloria. Non può vantarsi se non nella sua infermità, perché nella su infermità, nella sua incapacità di arrivare lì dove è chiamato ad essere, la grazia di Dio sovrabbonda e lo trasfigura.

C’è l’invito forte a guardare i luoghi delle "proprie prigioni". Contemplare "la spina nella carne", che è l’invito a morire a se stesso, accettando la propria debolezza e quella degli altri: "perché si estenda su di me la potenza di Cristo". La propria "debolezza kenotica" permette alla potenza di Cristo di fare i miracoli dell’amore, e di un apostolato e di un annuncio di vita fecondo, trasfigurante e provocante.

È una spirale progressiva. Paolo invita, come ha fatto lui, a penetrare nella gradualità della debolezza della propria crescita umana e spirituale in ogni qui ed ora, che si attua nel trovare il "dettaglio specifico" della volontà del Padre per me, non generico, ma legato direttamente e proporzionalmente alla propria debolezza, alla propria infermità e alla forza del Cristo, che così – e solo così -, cresce fino alla piena maturità, che è la maturità del Cristo che vive in me, ed allora si diventa il buon profumo di Cristo per gli altri e per il mondo (cfr. 2 Cor 2,16).

Tre volte Paolo chiede al Signore di togliergli il pungolo nella carne. Qui Paolo è perfettamente in comunione con la preghiera di Gesù nel Getsemani. Gesù per tre volte chiede come Paolo che il Padre gli tolga quel pungolo nella carne che è la volontà del Padre, quel calice da bere. Questa volta Paolo non è accontentato come in At 16,26. Paolo è conformato totalmente alla richiesta di Gesù. È chiamato a sudare sangue per essere trovato nel Figlio dal Padre ed essere oggetto del compiacimento del Padre (cfr. Lc 22,39-46): "Ti basta la mia grazia". Ecco la risposta del Padre nel Cristo che vive in lui.

L’evento di Damasco ha segnato per Paolo una svolta reale, ma non lo ha cambiato immediatamente, anzi ha proteso verso "una direzione opposta tutto il suo intatto temperamento fatto di intelligenza, generosità, ardore e tenerezza" (cfr. 1 Cor 4, 19-21; Fil 3, 2;1 Ts 2, 7-9 ; Gal 4,18-19). Paolo, nel suo cammino di formazione al discernimento della volontà di Dio, "di ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rom 12,2b), prende coscienza, per prima cosa, che la sua esperienza umana e cristiana deve essere permanentemente in stato di conversione, in quanto stato di perenne chiamata di Dio a trascendersi ed a trasformarsi in quel livello di perfezione, che è tipico ed originale per ciascuna persona per giungere alla "piena maturità di Cristo" ( Ef 4,13) nello stato di "uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera" (Ef 4, 24). Per questo non cessa di "ringraziare con gioia il Padre, che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce; è lui, infatti, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto" (Col 1, 12-13).

È ben evidente da tutti i racconti dell’incontro con Cristo sulla via di Damasco come la conversione sia legata indissolubilmente alla libera iniziativa di Dio, non un Dio garante del patrimonio asettico e normativo della Torah, Dio geloso e vendicatore, ma in una presenza continua di un Gesù, che dall’inizio della storia con Paolo, si presenta per quello che è: "Io sono Gesù, che tu perseguiti" ( At 26, 15b).

La chiamata è soprattutto per Paolo, allora, conversione ( = «meta¢noia» ) verso il "nou~V" di Cristo, per discernere e scegliere "e¢n Cristw~" i sentieri e gli orizzonti di questa sequela personale ed istaurare un rapporto di amicizia, che si fonda e si radica nella risposta e costituisce la stessa logica della sequela cristica paolina al cui servizio è posta ogni esperienza di discernimento: "Non sono più io che vivo ma lui vive in me… Chi mi separerà dall’amore di Cristo…" (cfr. Gal 2, 20a; Rom 8,35 a).

Paolo, almeno secondo il racconto lucano degli Atti, è oggetto-soggetto, non solo di una "Cristofania", ma anche di una "Staurofania" (stauros=croce): Gesù gli si presenta come colui che ha nella sua Croce il suo punto di vista decisivo. Essere trovato in Lui (cfr. Fil 3,9), vivere di Lui e per Lui (cfr. Rom 14,8) significa, da subito, per Paolo penetrare nel mistero-realtà dell’essere con-crocifisso con Lui, con-sepolto con Lui, con-risuscitato con Lui (cfr. Rom 6, 3-8).

(segue)


19 Cfr. R. FABRIS, Le lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, III, 345-346.

20 La menzione di se stesso in terza persona a proposito di questa rivelazione, può essere un indizio di umiltà ma anche un’eco dello straniamento che l’estasi gli aveva fatto sentire nei confronti della vita presente. Cfr. AA.VV., Le lettere di San Paolo, Paoline, Roma 1978, 221-222.

21 Le speculazioni rabbiniche conoscevano due, tre e perfino sette cieli: San Paolo adotta qui la cosmografia dei tre cieli: il primo, dell’atmosfera; il secondo, degli astri; il terzo, del cielo, dimora di Dio e dei beati, quindi paradiso.

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ultimo aggiornamento 24 dicembre, 2007