La lettera

 

La nostra condanna

Carissimo,

tutto è avvenuto in gran fretta. È bastata una notte per l’accusa, per la condanna. Iniqua, senza istruttoria, senza difesa.

L’Innocente esce dal pretorio di Pilato. Con l’ululato della folla, nella grande paura del cosmo, in cui si rivela l’assurdo, l’incomprensibile, il mistero di un Dio decaduto.

Il mistero, l’inimmaginabile. Lo scandalo dell’Onnipotente, della sua irreparabile impotenza, della sua infinita debolezza: "Un branco di cani mi circonda, mi scherniscono quelli che mi vedono" (Sal 21).

Un Dio diventato vulnerabile: "Agnello condotto al macello, pecora muta dinanzi ai suoi tosatori, sfigurato per essere umano, obbrobrio, disgusto... dinanzi al quale ci si copre la faccia" (Is 52, 13-53).

Come parlare di questo Dio? Un Dio che decide di decadere dalla sua situazione di Dio. Che decide di nascere dal grembo della terra. Per nove mesi, dentro le viscere di una ragazza ebrea, con tutte le trepidazioni, l’incognito, il dolore della nascita. Un Dio che prende latte, il sangue, le ossa dell’uomo.

Un Dio, fuori del tempo, che decide di entrare nel tempo, di contare gli anni. Che si consegna all’uomo, che cade in agonia, che soffre l’assurdità, la ripugnanza, il deserto, l’obbrobrio.

Ci sarà il Calvario. I chiodi che trapassano i nervi, che urtano i tendini, che dislocano le giunture. E poi il legno si innalza, il corpo nudo, in una vertigine di spasmi, di sangue.

"Parce, Domine...". Perché ci domandiamo dov’è questo Dio? È qui, sulla croce.

Ed è in tutti gli uomini che soffrono sulla terra, deboli, poveri, non amati, emarginati, che gemono, che muoiono, e nei quali sei Tu, o Signore, che soffri, che gemi, che muori.

Tu, che condanniamo a morte ogni giorno.

Nino Barraco

 
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ultimo aggiornamento 15 aprile, 2009