La lettera

 

... un santuario terra santa ...

... quando sarà la Pasqua ...

Carissimo,

una piccola campanella che introduceva al santuario originario.

Entrare da questa porta, fermarsi, accogliere, condividere il mistero. Consegnare la propria vita allo stupore di una Presenza, trasalire, sentirsi chiamati per nome, reinventare noi stessi, la storia, il mondo, con Qualcuno.

Fermarsi, sedersi, interrompersi, liberare noi stessi da ogni pensiero, da ogni occupazione. È l’operazione più importante. Non si può vedere, non si può ascoltare, se si corre. Sedersi. Travolti, come siamo, da mille impegni, da mille preoccupazioni, da mille cose da fare.

Accogliere, non soltanto fermarsi. Non basta, cioè, vedere, ascoltare. Occorre accogliere dentro di sè non solo le parole ma la Persona che parla. Entrare in comunione con l’Altro, aver bisogno dell’Altro, vivere nell’Altro.

Condividere, e, qui, l’accoglienza della Persona diventa condivisione degli altri, di tutti coloro che chiedono attenzione, disponibilità alla fermata, all’ascolto, all’amore, al futuro.

Fare terra santa delle nostre strade, delle nostre città, del nostro tempo. Fare mistero, misericordia, meraviglia, straordinarietà, tenerezza della storia.

Stare dalla parte degli altri, del giudizio dell’ultimo giorno, ridare amore all’uomo, alle frontiere di povertà, alle tante fragilità di oggi.

È il significato del nostro "entrare" in Santuario.

Fermarsi per "uscire", per fare misericordia, bellezza, luce, presagio di eternità sulla terra.

Evento di un giorno nuovo, presenza di Qualcuno, compagno di ogni uomo che spera sulla strada.

 

Quando ci sarà la Pasqua

certamente, è Pasqua, l’impossibile che accade, la resurrezione degli uomini e delle cose, l’evento che fa entrare l’umanità nella sua più grande trasformazione storica. Ma è una Pasqua che deve ancora venire. Come dire Pasqua a chi soffre l’ingiustizia, l’orrore, la morte?

La guerra, la fame, l’aids, il genocidio, l’esodo allucinante dei popoli, la mondialità delle questioni. Penso al disagio, al malessere che esplode. I disoccupati che occupano le cattedrali, le famiglie sfrattate, i bambini che non trovano spazi, le periferie della città, aree di emarginazione, di abbandono, di morte, gli immigrati, quelli che noi chiamiamo gli "stranieri", che rivendicano - giustamente - di abitare il mondo.

Augurare la Festa è caricarci di rimorso, di responsabilità, per tutti i sepolti vivi che non possono uscire dai loro cimiteri di abbandono.

I1 passaggio dal sepolcro alla resurrezione si deve, certo, a Cristo, ma si deve anche al nostro amore in cui Dio si gioca la sua reputazione, la sua credibilità. È l’amore che decide. Parlare di Pasqua è solo a costo di assumerci la responsabilità dell’amore. Nell’oggi, nel presente, sulla strada. E la strada è la malattia, la disoccupazione, l’ingiustizia, la solitudine, la terzomondialità, la prostituzione, la droga, il carcere. I1 residuo di un’antica povertà, alla quale si sono aggiunte le tante povertà di oggi, le tante strutture di peccato del nostro tempo, violento, infelice.

Allora, buona Pasqua, ma a prezzo di capire che non basta "augurare". Bisogna lottare. Evangelicamente, ma lottare. Gridare forte che è terrorismo uccidere, ma è anche terrorismo non amare. Chi ama non uccide

Fare crocevia di lotta, scelta di campo, denunzia, altare fra la gente, sfida, recapito delle cause, indignazione critica contro tutte le strutture ingiuste, voce delle nuove povertà, delle tante solitudini che gemono nei sepolcri.

Egli è risorto. È la responsabilità che viene affidata a ciascuno di noi, secondo la sconvolgente vicenda di Ezechiele: "Profetizza su queste ossa...". È il mandato che diventa ragione della nostra fede in quella Pasqua definitiva, quando Cristo sarà risorto nella carne di ogni uomo povero, debole, crocifisso sulla terra.

Nino Barraco

Articolo precedente

Articolo successivo

[Home page | Sommario Rivista]


realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggiornamento 27 maggio, 2009