2009 - 19 giugno - 2010 - ANNO SACERDOTALE

Luciano Pascucci

 

Dal ministero della Riconciliazione all’essere misericordiosi

Il sacerdote è un peccatore pentito e il suo servizio sacerdotale va compreso soprattutto come ministero di riconciliazione. Così è stato per l’apostolo Paolo. Questo esige, naturalmente, che prima di tutto noi sacerdoti riscopriamo la gioia e la bellezza del sacramento della Riconciliazione e vi ricorriamo assiduamente e regolarmente. Infatti, solo chi ha sentito la tenerezza dell’abbraccio del Padre, può trasmettere agli altri lo stesso calore, quando da destinatario del perdono, si fa ministro.

È molto importante la dimensione umana di questo sacramento. Ciò che restituisce fiducia sulla possibilità di ripresa di questo sacramento, oltre a una nuova domanda di spiritualità, c’è anche un vivo bisogno di incontro interpersonale e questo sacramento, vissuto bene, svolge sicuramente anche un ruolo ‘umanizzante’ molto forte.

Proprio per questo, occorre che il ministro della Riconciliazione svolga bene il suo compito. La sua capacità di accoglienza, di ascolto, di dialogo, la sua disponibilità mai smentita, sono elementi essenziali perché tale ministero possa manifestarsi in tutto il suo valore.

«Dal Santo Curato d’Ars noi sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della Penitenza che ci spinge a metterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del ‘dialogo di salvezza’ che in ogni caso si deve svolgere. Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i penitenti» (Benedetto XVI).

Ma soprattutto è l’umiltà che deve caratterizzare il sacerdote mentre amministra questo sacramento. A questo proposito trovo molto interessante quanto ha scritto un sacerdote nel suo diario: «A ogni parola ascoltata in confessione, ho potuto dire: "Anch’io!". Non una sola volta mi sono sentito meno peccatore della persona a cui dovevo trasmettere il perdono di Cristo: "Va’ in pace. La tua fede ti ha salvato!". Questa parola era anche per me che la dicevo. Non ho mai dato l’assoluzione a una persona senza riceverla anche per me stesso. La misericordia di un prete ha il suo segreto: egli sa di essere peccatore più di quelli che confessa» (Jean-Yves Leloup).

Ascoltando una confessione si prende coscienza di non essere uomini superiori, che accordano l’assoluzione di Dio a qualcuno. Perché, se si è completamente onesti, ci si rende conto che i peccati degli altri sono peccati che anche noi abbiamo commesso o, quanto meno, che avremmo potuto facilmente commettere. Più qualcuno apre il suo cuore e confida la sua lotta interiore, più scopro di essere, come lui, un essere umano, debole e fragile, che ha bisogno di guarigione e di misericordia. Se il prete può offrire parole di incoraggiamento, è perché sono le parole che anche lui ha bisogno di udire. Nella confessione, si può dunque condividere la misericordia di Dio con l’altro, la si scopre con lui, in un medesimo pellegrinaggio di guarigione.

Per questo «anche il solo sedermi al confessionale, m’è di grandissimo gusto. Che state a dire che questa è una fatica! Non m’è fatica, anzi sollevamento e ricreazione» (San Filippo Neri).

Dio è ricco di misericordia e di compassione! Siccome noi siamo fatti a sua immagine e somiglianza e siamo suoi figli non possiamo non conformarci a lui. «Siate misericordiosi com’è misericordioso il Padre vostro celeste!» (Lc 6,36). Questo vale soprattutto per noi presbiteri. Usare misericordia verso i fratelli, i confratelli e i vescovi è la nostra prerogativa fondamentale.

Sarebbe una grande stonatura, per un prete, non usare la misericordia con tutti. Noi che siamo chiamati a dare ai fratelli la misericordia del Padre, siamo anche chiamati a "essere misericordia".

Anzi, tutto il nostro ministero ci deve rendere sacramento della misericordia del Padre per ogni uomo. Anche il Signore Gesù privilegia la misericordia. Dice ai farisei: «Andate e imparate che cosa voglia dire: misericordia io voglio...».

Nel mondo di oggi, in cui si invoca molto la giustizia e poco la misericordia, noi non abbiamo il diritto di ferire nessuno con l’asprezza dei nostri giudizi, con l’impazienza delle nostre pretese, con l’arroganza delle nostre richieste, con la perentorietà delle nostre dichiarazioni. In maniera impropria ci si riferisce troppo spesso a Gesù che, arrabbiato, scaccia i venditori dal tempio. Condivido pienamente quanto afferma don Primo Mazzolari, ormai avanti negli anni: «Sappiamo comprendere e compatire: non sbaglieremo mai! Mi sono sempre pentito d’aver fatto il severo, mai d’aver aperto le braccia!».

La concezione di un apostolato misericordioso, longanime, che si preoccupa prima di tutto di essere manifestazione della soavità di un Dio-Amore è molto lontana dalla cultura di oggi, intrisa di violenza, durezza, spesso senza cuore... Anzi, chi ha cuore, si commuove e piange, è considerato un debole.

«Io vi esorto, o preti, a un poco di commozione quando predicate! Di che cosa noi preti ci si commuove? Noi preti non si ha più né padre né madre, né sposa né figli, né parenti né amici, per essere a tutti madre, padre, sposa, figlio, parente, amico. Tutte le gioie di tutti sono nostre, tutti i dolori. Chi muore, chi nasce, chi sta male, chi sposa, è un nostro parente stretto, sempre. E non ci si commuove?» (G. De Luca).

Come Gesù è passato nel mondo facendo del bene a tutti, usando misericordia con tutti, anche noi vogliamo vivere di soavità apostolica, di indulgenza misericordiosa, di perdono senza fine. «Siate dolci nelle vostre azioni: niente violenza, niente impazienza, niente furore: che se occorre talvolta della severità, non abbiatene che giusto quanto è necessario; nel dubbio preferite sempre le vie della dolcezza alle vie del rigore» (B. Charles De Foucault).

Noi siamo chiamati ad essere «annunziatori forti e miti della Parola che ci salva».
«Non mi sono mai adirato con i miei parrocchiani, non credo di aver mai rivolto loro dei rimproveri» (Santo Curato d’Ars).
(
9 dicembre 2009 Da Romasette di Avvenire)

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ultimo aggiornamento 26 aprile, 2010