pastorale familiare

Marina Berardi

 

Già nel mese di settembre ho proposto alla vostra lettura un articolo del Prof. Tonino Cantelmi, psichiatra e psicoterapeuta. In questo numero desidero offrirvi un passaggio della relazione dal lui tenuta su un tema non solo attuale ma quanto mai vitale per la famiglia e l’educativo: "L’era digitale e la sua valenza antropologica: i nativi digitali"1.

Tonino Cantelmi

L’era digitale e la sua valenza antropologica:
i nativi digitali

Sono certa che per molti genitori queste riflessioni potranno diventare occasione di approfondimento e di scambio, ma soprattutto opportunità di ripensare al proprio ruolo educativo, anche alla luce di questa realtà emergente dell’era digitale e dell’influsso che l’era ipertecnologica ha sui propri figli e sulle giovani generazioni.

L’autore suggerisce tre processi irrinunciabili che chiedono al mondo degli adulti di riappropriarsi del proprio compito educativo, oserei dire della propria paternità-maternità nei confronti delle nuove generazioni, cosicché non si trovino più tra esse "figli orfani di maestri".

Marina Berardi

 

Stralcio della relazione al III Convegno Internazionale della Società Italiana di Psicotecnologie e Clinica dei nuovi Media - SIP tech – Palermo (2009)

Predigitali, generazione di mezzo, nativi digitali: il silenzio degli adulti e la sfida educativa

Il III millennio sembra essere caratterizzato dalla più clamorosa crisi della "relazione interpersonale", alla quale sembra rispondere la tecnologia attraverso tutte le nuove modalità di relazione (sms, chat, social network, ecc…). La relazione interpersonale face-to-face [faccia-a-faccia] sembra lasciare il passo a forme di tecnomediazione della stessa, che l’uomo e la donna sembrano gradire di più. Questa tecnomediazione ha rapidamente guadagnato terreno in molte forme di relazione: l’amicizia, l’amore, l’apprendimento, l’informazione e molti altri ambiti dei rapporti interumani sono profondamente sconvolti dall’incursione della tecnologia digitale. La rivoluzione digitale sembra inoltre essere alla base di una sorta di mutazione antropologica: per questo ho definito gli adulti di oggi "generazione-di-mezzo" (affascinati dalla tecnologia ed alti utilizzatori della stessa, ma dotati di un sistema mente-cervello predigitale e figli di una generazione predigitale oggi in estinzione) e i bambini di oggi "nativi-digitali" (cresciuti cioè in costanti immersioni telematiche attraverso i videogiochi, il cellulare, il computer, l’MP3 e pertanto dotati di nuove organizzazioni cognitive-emotive e forse di un cervello diverso). Dal mio punto di vista siamo alle soglie di una sorta di mutazione antropologica. Chi sono dunque i "nativi digitali"?

In alcuni precedenti lavori ho definito "nativi digitali" quanti nati nel III millennio e sottoposti a profonde, pervasive e precoci immersioni nella tecnologia digitale ed ho dichiarato che le osservazioni attuali già ci consentono di notare vere e proprie mutazioni del sistema cervello-mente. I nativi digitali imparano subito a manipolare parti di sé nel virtuale attraverso gli avatar e i personaggi dei videogiochi, sviluppano ampie abilità visuospaziali grazie ad un apprendimento prevalentemente percettivo, viceversa non sviluppano adeguate capacità simboliche (con qualche modificazione di tipo metacognitivo), utilizzano il cervello in modalità multitasking (cioè sanno utilizzare più canali sensoriali e più modalità motorie contemporaneamente), sono abilissimi nel rappresentare le emozioni (attraverso la tecnomediazione della relazione), un po’ meno nel viverle (anzi apprendono a scomporre l’esperienza emotiva e a viverla su due binari spesso non paralleli, quello dell’esperienza propria e quello della sua rappresentazione), sono meno abili nella relazione face-to-face, ma molto capaci nella relazione tecnomediata, e, infine, sono in grado di vivere su due registri cognitivi e socioemotivi, quello reale e quello virtuale. Inoltre non hanno come riferimento la comunità degli adulti, poiché, grazie alla tecnologia, vivono in comunità tecnoreferenziate e prevalentemente virtuali, nelle quali costruiscono autonomamente i percorsi del sapere e della conoscenza.

È in questo contesto che si assiste ad un fenomeno straordinario: il silenzio degli adulti e lo smarrimento dei figli, che potremmo definire "figli orfani di maestri". I "figli orfani di maestri" sono però "nativi digitali", dunque capaci costruire comunità tecnoreferenziate di bambini e di adolescenti, dotate di tecnologie e saperi propri, che non hanno più bisogno di adulti. Ed ecco profilarsi una nuova emergenza: l’emergenza educativa.

Ho definito i genitori di oggi, utilizzando una metafora altrui divenuta ormai famosa, quella della liquidità, "genitori liquidi". Si tratta di genitori che appartengono alla generazione-di-mezzo, capaci di utilizzare la tecnologia digitale ed anzi da essa affascinati, che hanno un profilo su facebook come i loro figli, che scimmiottano i figli stessi utilizzando il dialetto tecnologico degli adolescenti e che sono pienamente avvolti dalle dinamiche narcisistiche del contesto attuale. Sono genitori affettuosi, preoccupati per i loro figli, accudenti, ma hanno rinunciato ad educare, cioè a trasmettere visioni della vita, narrazioni, assetti valoriali e di significato, riflessioni di senso. In altri termini vogliono bene ai loro figli, sono affettuosi, accudenti ma non educanti. Il rapporto educativo è sempre l’incontro tra due libertà, tuttavia nell’ambito del rapporto genitori-figli esiste uno sbilanciamento, progressivamente riequilibrato, proprio dei due ruoli. Il genitore liquido però subisce il tema dell’ambiguità, della fluidità dei ruoli, del narcisismo e del bisogno di emozioni e la relazione educativa ne risulta sbiadita proprio nella sua essenza. In questo senso il genitore liquido è un genitore silente, che rinuncia a narrare e a narrarsi, rinuncia a trasmettere una visione della vita, a dare criteri di senso per le scelte, limitandosi ad offrire una molteplicità di scelte che non possono non determinare un profondo smarrimento nel figlio.

D’altro canto la generazione attuale vive due fenomeni a tenaglia, capaci di spegnere progressivamente la fiducia e la speranza. Il primo fenomeno è il silenziamento del desiderio: il bambino "viziato" è quel bambino i cui desideri sono soddisfatti prima ancora che li possa manifestare, sono cioè prevenuti e pertanto privi di desideri. Il secondo fenomeno è caratterizzato dall’affermarsi di una visione del futuro nella quale il futuro stesso è percepito come una minaccia e non come una attesa. I due fenomeni sono alla base di un nichilismo psicologico, che si aggira fra i giovani come un fantasma inquietante e che penetra nelle profondità dell’anima. In questo senso potremmo definire questa epoca come l’epoca delle passioni tristi, in cui sta crescendo una generazione orfana di maestri, profondamente segregata dal mondo degli adulti e, però, capace di riorganizzarsi attraverso comunità tecnoreferenziate, dotate di propri saperi, percorsi, costruzioni della conoscenza e visioni grazie ad una tecnologia capace di costruire ragnatele relazionali nuove, liquide, leggere e infinite.

A proposito dell’educazione si parla oggi di "emergenza educativa". Gli adulti da almeno un decennio hanno progressivamente rinunciato ad educare. Ma cosa significa educare, se non farsi carico dell’altro attraverso una relazione autentica, piena, autorevole e aperta alla trasmissione di una visione valoriale e densa di significati della vita? In questo senso educare vuol dire riscoprire il valore della relazione e avviene attraverso la riscoperta della narrazione. Narrare se stessi, la propria vita, la vita della famiglia e della società nella quale viviamo significa trasmettere valori e visioni della vita. Questo richiede agli adulti una capacità innanzitutto di stare con i figli, di essere-per e di essere-con, di entrarci in relazione, di essere significativi ed anche affascinanti. Educare vuol dire anche accettare il rischio della libertà dell’altro, che può determinare momenti difficili e conflittuali. Educare vuol dire trasmettere qualcosa che ci è proprio, che è fatto nostro e dunque significa anche mettersi in discussione, perchè educare vuol dire essere autorevoli, e quindi competenti, esperti, ma soprattutto coerenti e responsabili. Se dopo il tempo della liquidità, tornerà il tempo della riscoperta del valore del legame e della relazione, questo sarà perché alcuni adulti coraggiosi avranno accettato la sfida dell’educazione, restituendo così all’umanità del terzo millennio la fiducia nella vita e la speranza nel futuro.

 

Quale sarà il futuro prossimo venturo?

L’intrecciarsi della rivoluzione digitale con il tema della liquidità appare come un abbraccio fatale tra due fenomeni profondamente complementari, capaci di sostenere una sorta di mutazione antropologica, che ho cercato di descrivere nei paragrafi precedenti e che trova il suo cortocircuito nell’impatto tra il sistema mente-cervello e la tecnologia digitale, disegnando così l’emergere di una generazione che ho definito "nativi digitali". La tecnomediazione del vangelo, come modalità semplice di interazione con i nativi digitali, ha in sé un rischio: quello di assimilare alla liquidità l’annuncio evangelico, contaminandolo forse in modo fatale con la visione antropologica narcisistico-emotiva propria della rivoluzione digitale. Ovviamente questo non significa ignorare le enormi potenzialità comunicative della tecnologia digitale, ma piuttosto piegarle alle esigenze di un uso più strumentale che collusivo. Tuttavia rimane necessario individuare su quali pilastri rifondare una possibile trama che consenta di articolare risposte risananti ai bisogni dell’uomo, che i paradisi telematici prossimi venturi non potranno comunque colmare. In più circostanze, sollecitato a dare risposte a questo interrogativo, ho sostenuto che occorre puntare su tre processi irrinunciabili:

la necessità di ricostruire percorsi narrativi dell’identità, che consiste nel dare la possibilità di elaborare trame narrative nelle quali connettere i tanti frammenti identitari dell’uomo liquido: questo significa che dopo l’impatto emotivo di ogni risposta-proposta occorre recuperare la fascinazione della narrazione di sé, del proprio gruppo e del mondo, come modalità propria per la costruzione dell’identità;

la necessità di recuperare il gusto del bello: la tecnologia manifesta tutto e utilizza la percezione in modo esaustivo, il bello rimanda sempre a qualcos’altro e utilizza la percezione in modo simbolico e metaforico;

la necessità, questa sì assoluta ed irrinunciabile, di accogliere l’altro nell’ambito di relazioni interpersonali sane e risananti, riscoprendo la potenzialità terapeutica della relazione umana.

Su questi tre punti a mio parere vanno ricostruiti mondi, anche telematici, oltre che reali, che declinino queste necessità nei luoghi, nel tempo e nell’organizzazione sociale.


1 Per la versione integrale: www.toninocantelmi.com

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ultimo aggiornamento 17 novembre, 2010