vita sacerdotale  

Roberto Repole

Crisi del prete,

appello per la Chiesa

Uno sguardo

alla situazione

attuale

 

 

La "crisi" del prete non è certo una novità e tuttavia rappresenta un tratto significativo e preoccupante dell’attuale stagione ecclesiale. Don Roberto Repole, docente di Ecclesiologia presso la Facoltà teologica di Torino, esamina con sereno coraggio le ragioni che possono spiegarla, operazione particolarmente urgente specie laddove, come nella sua diocesi d’appartenenza, il fenomeno ha assunto un rilievo numerico allarmante. Burnout, fine del regime di cristianità, recezione non armonica del Concilio Vaticano II, sono solo alcuni dei molti aspetti di un disagio che interpella la Chiesa su due questioni fondamentali: anzitutto il discernimento circa le modalità storiche con le quali il ministero sacerdotale possa vivere nella Chiesa e nella società odierne; in secondo luogo i modi attraverso cui il ministero possa rappresentare un segno di contraddizione per la mentalità corrente. Più in generale sembra imporsi alle Chiese diocesane «l’urgenza di ripensare, in un modo paziente ma realmente condiviso da tutti (vescovo, preti e laici), la figura ecclesiale nell’orizzonte della fine della cristianità; e l’importanza che i preti si percepiscano responsabili, per quel che è loro possibile, dei conseguenti cambiamenti ecclesiali oggi richiesti dal nuovo modello culturale».

È piuttosto usuale, e non solo da ora, il ricorso al vocabolario della crisi, qualunque sia la realtà di cui ci si interessa. Si e parlato e si parla così di crisi culturale, dell’economia, della finanza, della politica, del lavoro... Senza nulla togliere alla tragedia concreta che, spesso, viene descritta attraverso l’uso di questa parola e lungi dal voler disprezzare la singolarità di ogni epoca storica, il motivo di un uso tanto frequente può essere, alla fine, piuttosto semplice: la crisi è correlata a ogni momento di passaggio, la transizione è connaturale al trascorrere del tempo. Non stupisce, perciò, che si parli di crisi del prete. Anche in questo caso, non si tratta né di una novità né di un fatto recente. È sintomatico, in tal senso, che una prestigiosa ricerca sul ministero ordinato, pubblicata quasi quarant’anni fa, esordisse già così: «Le forme tradizionali del ministero sono oggi messe in questione in tutte le Chiese d’Occidente. Preti e pastori attraversano una crisi di identità. Il loro reclutamento va diminuendo in maniera catastrofica. Questi fatti sono noti e suscitano numerosi dibattiti»1.

Date queste premesse, è evidente che i motivi di crisi debbono essere rintracciati di epoca in epoca e di stagione in stagione. Il farlo implica, in fondo, una consapevolezza teologica: quella di un ministero fondamentale all’esserci della Chiesa che non può che esistere — come la stessa Chiesa, del resto — all’interno della storia. È quanto ben traspare dal modo in cui Ferretti introduce un suo recente libro, dove vengono raccolte alcune sue meditazioni sul ministero del prete offerte al presbiterio torinese. Dice infatti il noto filosofo di Torino:

L’intento [delle meditazioni, n.d.r.] è stato quello di riflettere sull’identità del presbitero diocesano non tanto in riferimento a un modello ideale astratto, quanto a partire da quell’identità che si è andata costruendo e si va costruendo nella nostra storia concreta. Quindi l’’identità di una storia, vissuta, ricordata e raccontata, alla luce della Parola di Dio e avendo presente la storia della Chiesa e del mondo di questi ultimi decenni2.

Ma rintracciare i motivi di crisi del ministero presbiterale risulta, altresì, sensato solo se si concepisce la crisi come qualcosa che chiede di essere interpretato, da parte della Chiesa nel suo insieme e dei preti in specifico. A nulla varrebbero, in altri termini, analisi minuziose e studi accurati sulla situazione attuale del clero e sulla crisi che esso attraversa, se questi dovessero rimanere dei resoconti capaci solo di favorire la depressione o la rassegnazione, di incentivare fin troppo facili piagnistei o di far indulgere a tal punto sul presente, da rendere incapaci di sognare alcun futuro. È in questo orizzonte che si collocano le pagine che seguono. Dopo aver richiamato alcuni motivi di crisi segnalati da più parti, si proverà a evidenziarne uno più strettamente connesso al modo in cui è stato ripensato teologicamente il ministero negli ultimi decenni, in quanto esso si realizza (e non può che realizzarsi) all’interno della presente storia e della cultura contemporanea. Ma ciò viene fatto unicamente perché si è convinti che quanto più si è capaci di uno sguardo lucido sulla realtà del ministero presbiterale, nelle sue bellezze come nei suoi elementi critici, tanto più si avranno strumenti per leggere e interpretare, in essi, l’appello che il Signore sta rivolgendo alla Chiesa e ai suoi ministri.

 

Una crisi dai molti volti

Una mappa completa ed esaustiva degli elementi critici che accompagnano, oggi, il ministero presbiterale è probabilmente un’ambizione destinata a restare irrealizzata. Rimane tuttavia certo che, come afferma Greshake:

negli ultimi anni il tema del ‘prete’ è diventato una specie di muro del pianto su cui battono il capo tanti sacerdoti, ma anche vescovi sconsolati e laici disorientati. Ci si lamenta della mancanza, sempre più palpabile, di sacerdoti e della scarsa disponibilità dei giovani a impegnarsi in questo ministero (o non forse nella forma in cui attualmente tale ministero viene esercitato?). Ma anche parecchi sacerdoti considerano ormai superato, non più sostenibile, un modo di vivere (da celibi, soli, privi di assistenza) e un modo di operare che li propone come manager responsabili di un numero sempre crescente di comunità e quali distributori di ‘servizi’ con il compito di soddisfare i bisogni religiosi di fedeli sempre meno interessati3.

Ugualmente difficile è ricostruire, in maniera convincente, una mappa di tutti i motivi che possono rendere il ministero del prete pesante, difficoltoso, poco appetibile e, per molti, addirittura incerto sotto il suo profilo identitario. Non si può che accennare qui ad alcuni di essi, scoperti ed indagati anche da prospettive epistemologiche differenziate; e per questo spesso connessi tra loro, quando non sovrapponibili l’uno all’altro.

 

La ‘sindrome del buon samaritano deluso’

Si è, di recente, letto il disagio dei preti nell’ottica del burnout, una sindrome lavorativa, che è stata anche chiamata ‘sindrome del buon samaritano deluso’, per la quale:

persone che avevano scelto di dedicare la propria vita ad aiutare il prossimo e avevano iniziato con molto slancio, a un certo punto si trovano svuotate di energie e di ideali, incapaci di ritrovare le motivazioni e la forza che avevano in precedenza4.

Sembrerebbe così colpire anche molti preti quello che alcuni studiosi del fenomeno in questione considerano il principale pre-requisito del burnout, ovvero una mancata chiarezza dello scopo ultimo e delle prospettive della organizzazione aziendale per cui si lavora. Nella vita dei preti ciò significa una certa mancanza di chiarezza circa la missione e la visione della Chiesa di cui si fa parte e che si rappresenta5. Afferma Ronzoni:

Potrà sembrare assurdo o paradossale che — con tutti i suoi studi teologici ed ecclesiologici — nella Chiesa cattolica possano sussistere incertezze circa la propria missione e la visione del proprio futuro. Ma qui non è in gioco la teologia o il magistero della Chiesa cattolica, quanto piuttosto la reale consapevolezza esistente nei presbiteri circa la visione e la missione della Chiesa, che in buona parte corrisponde alla loro stessa missione6.

Ma paiono colpire la vita di molti preti, sia pure in un modo specifico, anche alcune delle cause del burnout che gli studiosi del fenomeno hanno riscontrato. Si tratta, anzitutto, della mancanza di senso di appartenenza comunitario, ovvero una solitudine da non attribuirsi tanto al fatto di non vivere con altre persone, quanto piuttosto al fatto di non avvertire l’appartenenza a un corpo ecclesiale o presbiterale con cui condividere gli stessi valori, ideali e obiettivi. Si tratta, poi, di un sovraccarico di lavoro, dovuto non tanto all’eccessivo impegno profuso quanto alla percezione di dover essere responsabili di tutto; e si tratta, infine, di una gratificazione insufficiente, nel senso di una fatica a vedere la realizzazione dei progetti pastorali fatti o dei valori per cui si è spesa l’esistenza. Così — asserisce sempre Ronzoni — quando si assiste

al fallimento di un progetto apostolico, subendo l’incomprensione dei parrocchiani o dei superiori per le proprie scelte pastorali, rimanendo frustrati nelle proprie aspirazioni evangeliche, rimane sempre aperta la possibilità di attribuire un senso anche a queste sofferenze, ma la mancanza di queste oneste gratificazioni può anche sfociare nel burnout7.

 

Fine della cristianità

L’attuale crisi del prete può tuttavia venire letta anche secondo altre prospettive. Una può essere offerta dalla presa di coscienza della cosiddetta ‘fine della cristianità’. Si tratta di un fatto evidente, tanto a livello filosofico quanto a livello sociologico. In letture di questo genere, la fine della cristianità viene spesso connessa alla cosiddetta secolarizzazione8. Si tratta in ogni caso di una realtà che, in un modo o nell’altro, viene data per assodata anche all’interno del mondo ecclesiale, a livello di riflessione teologica, come pure in autorevoli interventi magisteriali. Basti citare, per fare un esempio lampante, la forte insistenza con cui Giovanni Paolo II ha spronato la Chiesa che vive in Occidente a una «nuova evangelizzazione»: e infatti palese che si può parlare di «nuova evangelizzazione» solo se si considera che la Chiesa si trova ad abitare un mondo che non è più ‘normalmente cristiano’. Si pensi, per fare un esempio diverso, agli Orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il primo decennio del Duemila, in cui si constatava, in Italia, un «crescente analfabetismo religioso delle giovani generazioni»9: fenomeno che è probabilmente andato accentuandosi in questi ultimi dieci anni10.

Alla lucida lettura che segnala la fine della cristianità corrisponde, tuttavia, fatica e lentezza nel ricercare una ‘figura ecclesiale’ che esprima realmente un altro modo di abitare la storia. Sembra quasi di essere nel guado: consapevoli di non poter più vivere come se tutti fossero cristiani, non si sa ancora quale forma di Chiesa assumere. Nei fatti, si mantiene l’idea di un prete ancora corrispondente a un regime di cristianità: è quel che è postulato nel modo di ‘gestire il ministero’; è quello che è ancora normalmente richiesto ai preti nelle comunità cristiane11. Ciò avviene, però, mentre si registra una forte contrazione numerica del clero, cosa che non può che creare disagio, sconcerto e disorientamento in molti preti, i quali spesso stentano a comprendere che cosa debbono curare e che cosa possono tralasciare12; e non trovano sempre le energie per ripensare, in un nuovo orizzonte, il loro stesso ministero.

Non aiutano nemmeno, quando non portano addirittura a inutili ‘sensi di colpa’, quei proclami che ambirebbero a distinguere ciò che sarebbe prioritario, nel ministero del prete, da quel che non lo sarebbe. Si tratta di interventi che finiscono, invece, col segnalare soltanto le mille realtà cui il prete dovrebbe prestare attenzione: dalla cura di una intensa vita spirituale personale, all’attenzione ai giovani, ai malati, agli anziani, ai ragazzi, alla catechesi degli adulti, ai poveri... Una certa ‘burocratizzazione’ della pastorale può contribuire, talvolta, a rendere ancora più complesse le cose: perché ogni ufficio, a qualunque livello, sembra sentire la necessità di promuovere la realtà di cui si occupa, come se fosse l’unica di cui un prete deve prendersi cura.

 

Il discredito delle istituzioni e la difficile recezione del Vaticano II

Questa stessa crisi può, tuttavia, venire letta anche secondo altre prospettive. Ne segnalo due. La prima è la disaffezione che colpisce le istituzioni, di qualunque genere esse siano13. E non c’è dubbio alcuno che il ministero ordinato pone i presbiteri sul lato degli elementi istituzionali della Chiesa. È dunque abbastanza normale che, in un’epoca piuttosto scettica verso ogni forma istituzionale, si guardi con un certo sospetto anche alle istituzioni ecclesiali; e che i preti si possano così sentire ‘strutturalmente delegittimati’ in ciò che sono e rappresentano. Ne è prova il fatto che, quando qualcuno oggi vuole complimentarsi con un prete ed esprimergli la sua stima, gli dice che egli ‘non è come gli altri’ o che ‘non sembra un prete’, slegandolo così da quella istituzione che è la ragion stessa del suo esistere come prete14.

La seconda prospettiva può essere rintracciata nella linea di un certo travaglio nella recezione di elementi innovativi e salutari offerti dal Vaticano II. Con esso si è prospettata una Chiesa che vive nel mondo e non è immune dalla storia, una Chiesa che è sacramento di salvezza (LG 1; 48; GS 45; AG 2); e, conformemente a ciò, lo stesso profilo del prete non si riduce al suo essere sacerdote, ma è anzitutto quello del missionario, responsabile con tutta la Chiesa dell’annuncio di Cristo al mondo15. È, però, ovvio che la ricerca di una propria identità all’interno di questi vasti orizzonti risulta, per i presbiteri, assai complessa. Sarebbe molto più semplice, per un prete, pensarsi come l’uomo del sacro, della celebrazione eucaristica e del culto. Allo stesso modo il Concilio, pensando alla Chiesa in termini di popolo di Dio, pone su un piano di pari dignità tutti i cristiani e apre la possibilità di ripensare anche a dei ministeri laicali; cosa che, in modi diversi, è avvenuta nei decenni post-conciliari sulla scia, soprattutto, di una decrescita numerica del clero. Ciò ha portato al fatto che molti laici hanno iniziato a fare quel che prima facevano normalmente i preti. E anche questo può creare, nel clero, un problema di identità, al punto che «sono tanti i preti che si chiedono se esiste "ancora" uno specifico che li contraddistingua»16.

Non c’è dubbio alcuno che le suddette linee prospettiche offerte dal Concilio vadano, se possibile, perseguite sempre più intensamente, anche perché offrono un’immagine di Chiesa più adatta per questo nostro tempo. Ma è ugualmente indubbio che i mutamenti di prospettiva da esse richieste domandano un ripensamento della identità del prete che ha bisogno di tempo e pazienza per venire realizzato. E non stupisce, pertanto, che questa lenta recezione, unita ai motivi di crisi suddetti, possa avere come effetto un certo disorientamento nel clero.

(segue)


1 J. Delorme (a cura di), Le ministère et les ministères selon le Nouveau Testament. Dossier exégétique et réflection théologique, Editions du Seuil, Paris 1974, p. 7.

2 G. Ferretti, Essere preti oggi. Quattro meditazioni sull’identità del prete, Elledici, Leumann (TO) 2009, p. 10.

3 G. Greshake, Essere preti in questo tempo. Teologia — Prassi pastorale — Spiritualità, Queriniana, Brescia 2008, p. 15.

4 G. Ronzoni (a cura di), Ardere, non bruciarsi. Studio sul «burnout» del clero diocesano, Messaggero, Padova 2008, p. 8.

5 Cfr. G. Ronzoni, Cause strutturali del burnout nel ministero presbiterale, in G. Ronzoni (a cura di), Ardere, non bruciarsi, cit., pp. 55-73, pp. 57-61.

6 G. Ronzoni, Cause strutturali del burnout nel ministero presbiterale, cit., p. 59.

7 Ibi, p. 70.

8 Si possono vedere a mo’ di esempio le prospettive offerte da G. Vattimo, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002; e da C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009. Per una acuta rilettura delle prospettive offerte dai due pensatori citati, si possono utilmente consultare i capitoli ad essi dedicati da O. Aime, Il circolo e la dissonanza. Filosofia e religione nel Novecento, e oltre, Effatà, Cantalupa (TO) 2010.

9 CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del Duemila, n. 40.

10 Si veda l’interessante analisi di A. Matteo, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.

11 Si possono leggere con profitto, a tal riguardo, le considerazioni fatte a proposito del legame in Italia tra prete e parrocchia in L. Bressan, La «rivincita» della parrocchia, in E Garelli (a cura di), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, il Mulino, Bologna 2003, pp. 101-145.

12 Per avere un’idea di quanto consistente sia tale contrazione del clero in Italia, cfr. M. Offi - E Garelli, Profilo e tipologia del clero italiano, in F Garelli (a cura di), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo, cit., pp. 303-350, pp. 303-304.

13 Cfr. quanto asserisce a proposito dello stesso ruolo dei politici M. Lacroix, Il culto dell’emozione, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 25.

14 Dice giustamente Torresin: «Di fatto non è per nulla facile riconoscersi in un ruolo con un profilo così fortemente istituzionale, proprio in un tempo come il nostro, nel quale sembra che siano le biografie personali a dare un significato particolare e unico alla personalità di ciascuno. E infatti si apprezza il prete perché è particolare, originale, carismatico; meno per il suo appartenere a una Chiesa e una istituzione». A.
Torresin, Il paradosso del ministero. Quando la missione ridefinisce il prete, «Il Regno/Attualità», 55 (2010/2), pp. 22-26, p. 25.

15 È lucido, in tal senso, il giudizio di Castellucci il quale, dopo aver evidenziato il fatto che la Chiesa viene presentata dai documenti del Vaticano II quale «realtà essenzialmente "missionaria"» e che ciò implica che «ogni battezzato è quindi partecipe della missione ecclesiale: nessuno è passivo nella Chiesa», asserisce: «Se è così, il ministero ordinato non può accontentarsi di una posizione "statica", quale quella delineata dalla concezione cultuale: deve invece partecipare, a suo modo, alla missione ecclesiale». E. Castellucci, Il ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2002, p. 209.

16 G. Greshake, Essere preti in questo tempo, cit., p. 19.

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ultimo aggiornamento 11 gennaio, 2011