esperienze  

Anna Maria Cellini

Io sono un sogno di Dio

Breve, troppo breve la vita di questo prete che ci ha lasciato a soli 28 anni.

È la sera del 30 aprile 2004 quando cade, sotto gli occhi terrorizzati dei suoi ragazzi, facendo un volo di tre metri nella palestra dell’oratorio: stava mettendo a posto dei materassi, durante i festeggiamenti per la conclusione dell’esperienza di vita comunitaria oratoriana intitolata: "Fratello alla grande".

Dal 2000, anno della sua ordinazione sacerdotale, don Giovanni aveva il compito di animare l’oratorio di Verdello, in provincia di Bergamo, dove raccoglieva tanti giovani per avvicinarli con gioia e partecipazione alla vita cristiana: giochi, campi scuola, momenti di festa, aiuto nello studio, grande passione per la musica che lo ha aiutato nel suo ministero sacerdotale, durante il quale ha continuato a comporre canzoni. Con la sua chitarra, don Giovanni cantava la gioia di vivere e proponeva «percorsi di fede impegnativi e radicali». A diciotto anni nel suo diario scriveva: «A ogni giovane auguro di scoprire in Cristo e nella sua chiamata il senso vero dell’esistenza, come l’ho scoperto io. In fin dei conti è solo lui che importa. Tutto il resto passa». Don Giovanni aveva un sorriso che contagiava, un sorriso da bambino felice, ma era tutt’altro che un bambino.

Era un prete e un prete in gamba, come attestano le testimonianze dei genitori e delle persone che lo hanno conosciuto.

 

Lo chiamavano tutti don Giò

Giovanni Bertocchi nasce nel 1975, ad Alzano Lombardo (BG) poi risiede a Clusone (BG) un grosso centro nella Val Seriana. A 14 anni entra in seminario a Bergamo dove consegue il diploma di maturità classica. Nel 2000 completa gli studi e ottiene il bacellierato in teologia; il 3 giugno dello stesso anno viene ordinato sacerdote, diventando così per tutti don Giò.

Fondamentale nella vita di don Giò è stata la sua famiglia e sono proprio la madre Maddalena, il padre Piero e le due sorelle Barbara ed Elisabetta ad acconsentire ad aprire una finestra sul mondo interiore del loro amato Giovanni, dopo quattro anni dalla sua morte. Grazie a loro e al lavoro di mons. Arturo Bellini, sacerdote e giornalista bergamasco, sono stati raccolti in un libro tutti gli appunti di don Giò. «Sono sei quaderni, più i suoi diari di scuola, dal 1989, quando entrò in seminario, a pochi giorni prima di morire – spiega papà Piero. Il giorno che don Giò morì ce li portò una catechista di Verdello. Ci disse che li aveva sempre visti nella libreria di nostro figlio, poi un giorno gli chiese cosa fossero. "Quelli li potranno leggere solo i miei genitori", rispose. Ho cominciato a leggerli poco dopo la sua scomparsa, poi li ho trascritti al computer». Quando se li è visti recapitare nella sua email, mons. Arturo Bellini, parroco a Verdello, ha ricordato ai Bertocchi il suggerimento del Convegno ecclesiale di Verona: «Custodire e diffondere la testimonianza di quanti hanno saputo dar voce al Vangelo nel proprio ambiente di vita». Ne è nato un libro che, forse, esaudisce uno dei desideri di questo ragazzo bello e contento di essere prete. Più di 200 pagine che si leggono d’un fiato e aprono al lettore l’anima di un adolescente convinto di diventare prete, poi di un seminarista pieno di dubbi su di sé e con la grande certezza di «essere amato e perdonato». Il senso della vita, in un diario spirituale fatto di frasi spezzate ma fluenti, pensieri liberi vergati con la sua inconfondibile scrittura minuta, tanto piccola che papà Piero a volte ha avuto bisogno della lente di ingrandimento per decifrarla.

Voglio essere un libro aperto

Don Giò ha voluto diventare sacerdote per essere santo, lieto di giocarsi unicamente per il Signore. Ha desiderato essere un libro aperto come le braccia e le mani di Cristo sulla Croce. Il 17 agosto 1995 al campo scuola di Azione Cattolica, scriveva infatti: «Voglio essere un libro aperto. Voglio migliaia di pagine bianche su cui sia Tu a scrivere il resto della mia storia... Voglio che sia Tu a completare le pagine della mia esistenza, le frasi della mia vita... Voglio davvero che i miei puntini di sospensione siano i tuoi punti esclamativi visti dal basso». Don Giò, quelle pagine, le ha scritte e colorate di note e pentagrammi, di parole, ma anche di incontri e sorrisi ai suoi ragazzi che il 3 aprile di sei anni fa hanno riempito la chiesa per potersi avvicinare alla sua bara e dargli un bacio.

Don Giò è stato capace di cogliere di più, di guardare "oltre e alto" e «anche ora può segnare nuovi sentieri luminosi, perché i passi di una persona non si fermano con la morte». Tante sono le persone che hanno incrociato nella loro vita don Giò e per questo i suoi genitori hanno scelto di tenere vivi i contatti attraverso un originale gesto: dopo la morte del sacerdote il suo cellulare è rimasto acceso per raccogliere, attraverso gli sms, i ricordi di chi lo ha conosciuto.

 

Il "don" più pazzo di noi

Il 4 dicembre 1990 don Giovanni annotava: «Spesso mi ritrovo a pensare che io sono un sogno di Dio. Io vedo Dio che sogna la nostra storia».

Aveva 15 anni. Pensieri più grandi di un ragazzo quindicenne, amante della vita che accoglieva ogni giorno come dono da corrispondere. Un ragazzo che non aveva paura di voler diventare santo, né di dirlo. Poco prima di morire, scriveva: «Le esperienze che hanno segnato la mia vita sono autentiche. Io davvero ho incontrato Dio! Davvero mi sono sentito amato e perdonato da Gesù. Per questo ho scelto di giocarmi con lui. Per nessun altro motivo». Mons. Bellini dipinge don Giò come un prete che «non ha fatto cose straordinarie, ma ha vissuto in modo appassionato l’ordinario della sua vita.

L’esperienza di sentirsi "amato e perdonato da Dio" lo ha segnato profondamente e lo ha portato a rispondere al dono di Dio con tutto se stesso e a comunicare con giovanile entusiasmo la speranza che gli bruciava in cuore».

Don Giò, "il ‘don’ più pazzo di noi", come lo definivano i suoi giovani, è stato espressione luminosa di un’esperienza vissuta con autenticità che ha irradiato la testimonianza della "bella notizia" di Gesù nella vita di tutti i giorni. Nelle pagine del suo diario si legge: «La mia scelta di vita come sacerdote implica il dono di tutto me stesso. Devo essere tutto a tutti. Tutto per i ragazzi, per i loro bisogni. Tutto per i genitori, con la fatica dell’educare. Tutto per la comunità che a volte ha sete di Dio, altre no.... Tutto per i baristi dell’oratorio, per le signore delle pulizie, per i catechisti, per gli anziani, per i malati...».

La corda non ci ha abbandonato

Don Giò conosceva e amava don Bosco e voleva bene ai giovani con cuore «salesiano». La sua prima festa che organizzò e animò in onore del patrono del suo oratorio, la impostò tutta sul tema della corda, in ricordo di quella memorabile corda che il piccolo Giovannino Bosco tirava tra due piante sui prati dei Becchi e se ne serviva per fare il saltimbanco: «La corda non ci ha abbandonato neanche per un momento – scriveva Giò sul notiziario parrocchiale – l’abbiamo ricevuta, tagliata e riannodata durante le confessioni, per dire che il peccato ci fa perdere il legame con Gesù, ma il perdono lo riallaccia. Ci abbiamo fatto sopra altri nodi, trovandoci a pregare insieme prima di andare a scuola. Per ogni nodo un episodio della vita di don Bosco ci suggeriva qualcosa che ci avvicina a Gesù: la famiglia, gli amici, lo studio, la preghiera, l’oratorio, la speranza, la nostra vocazione». Don Giovanni consegnò ai suoi ragazzi alcune parole da accogliere durante la settimana e da custodire per la vita: un invito a pregare con don Bosco e a decidere con Gesù nel cuore, perché è «con Gesù nel cuore che bisogna decidere». Per ogni giorno della settimana, affidò un brevissimo messaggio: «Chi vive nella ricchezza dimentica facilmente il Signore. L’aiuto di Dio non manca se si lavora davvero con allegria. In ogni giovane c’è un punto accessibile al bene. A chi fa del bene verrà fatto del bene. Per fare del bene occorre avere un poco di coraggio. La Provvidenza di Dio, ai grandi bisogni, manda grandi aiuti».

Ringraziamo il Signore per avercelo dato

Quanta gente è passata da casa Bertocchi in questi anni. Ci andava per portare consolazione, se ne tornava a casa consolata. Chi la conosce bene, parla di mamma "Mema", Maddalena, come «un treno di Dio»: mai ferma, in piedi di notte a cucinare per chiunque passi da casa, amico o sconosciuto, con quel grande pane sempre in tavola. Il giorno dei funerali era lei a raccogliere le lacrime della gente di Verdello. E lasciò tutti con un nodo in gola, quando disse che «Dio è un artista e fa le cose per bene. Giovanni era un dono desiderato, ma non è mai stato mio, apparteneva a Dio. E adesso so che lui è felice, è con Dio. Per questo gioisco, siate felici come me». Lei anche oggi, insieme a papà Piero, risponde a chi ancora non ha capito il senso di questa morte – «incomprensibile fatalità in un’ottica semplicemente umana, evento di grazia sotto il profilo di una lettura coraggiosa della fede cristiana», scrisse don Oliviero Giuliani, direttore dell’oratorio di Clusone ai tempi in cui Giò frequentava la scuola elementare – lei risponde: «Continuiamo sempre a ringraziare il Signore per avercelo dato».

A questa eccezionale gratitudine, don Oliviero aggiunge: «Ho conservato l’immagine così solare di quel fanciullo di cui ho seguito l’evoluzione della sua scelta vocazionale. Ora il volto di don Giò continua a sorridere e a risplendere. Ora don Giò può contemplare il volto di Dio a viso aperto, faccia a faccia, nella perfetta intesa come tra padre e figlio. E anche a noi è dato di avvertirne un arcano riflesso».

(articolo estratto dalla rivista

"TESTIMONI")

GIOVANNI BERTOCCHI,

Io sono un sogno di Dio,

Messaggero, Padova, 2009,

pp. 240, euro 13,00.

Articolo precedente

Articolo successivo

[Home page | Sommario Rivista]


realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggiornamento 11 gennaio, 2011