Pastorale Familiare

Marina Berardi

 

 

"Come fare
per essere
felici?"

Una domanda che risuona in ogni latitudine e longitudine della terra, perché ogni uomo la porta in sé, a testimoniare l’anelito di pienezza e di felicità propri del cuore umano. Una domanda che Andrea pose a Santa e che lei, in occasione del primo anniversario della morte di lui, ha desiderato condividere con noi. Una domanda custodita in quelle preziose lettere, straordinarie testimoni di un cammino che, fin da fidanzati, andava maturando nella fede e nell’amore. Una domanda che anch’io custodisco nel cuore, soprattutto quando la mia vita si intreccia con quella di persone schiacciate da sofferenze fisiche e morali, assetate di senso, di pace, di felicità o anche con quella di giovani che si affacciano sul mondo, desiderosi di arricchirlo in umanità e "di fare la differenza" nella ricerca del bene dell’altro e di una società migliore.

Allora, "come fare per essere felici? Basta semplicemente fidarsi di Colui che ci ha dato la vita, ci conosce e ci ama e seguirlo per le vie su cui ci condurrà. Sarebbe pura pazzia e illogico non avere fiducia in Chi ci ha amato, ci ama e ci amerà domani e dopodomani e ci ha dato la vita per sempre. …Le strade che ci vuole far percorrere sono quelle dell’amore.

Personalmente, amare significa uscire da se stessi, guardare l’altro e volergli bene per ciò che ha di buono e bello, abbracciare e portare con gioia la croce perché rappresenta il bene di quella o quell’altra persona. E quando ciò accade, e la croce riesci a portarla fino in fondo con dignità, senza mostrare agli altri che la stai portando, ma [la porti] nel segreto e nella complicità con Gesù, un’allegrezza divina ti attraversa e ti fa sorridere" (Andrea).

Andrea era un ingegnere competente ed affermato, volato addirittura in Cina - come hanno detto i suoi figli nell’ultimo saluto -, ma desiderava essere, soprattutto, un marito e un papà speciale, sempre più a somiglianza di Gesù…, semplicemente felice di ciò che era e aveva: la sua famiglia*. Credo che ci faccia bene ricordare tutto questo, scovare i gesti di bontà e di amore attorno a noi, nel tentativo di creare un contraltare a quelle notizie che i telegiornali ci servono noncuranti all’ora di cena, proprio quando la famiglia si ritrova insieme dopo una giornata di fatiche e di impegni. E noi siamo lì – magari con i bambini! - ad assistere, spettatori impotenti e attoniti, ad una inesorabile escalation di violenza, ad un bollettino di guerra, che non si svolge solo sul fronte internazionale ma anche su quello familiare e, in particolare, gettando discredito sulla figura paterna, troppo spesso al centro di una cronaca nera raccontata con una dovizie di particolari che, a dir poco, fanno indignare. In questo modo si finisce per dare voce quasi esclusivamente a modelli negativi, come se la famiglia e la figura maschile fossero all’origine dei fallimenti e dell’infelicità che si consumano fra le mura domestiche. Questo è quanto i mezzi di comunicazione ci vorrebbero far credere, con effetti deleteri e devastanti sui bambini che, quando meno te l’aspetti, rigettano quanto abbiamo servito loro: "Mamma, perché quel papà ha…", "Mamma, perché a quei bambini… A me la maestra non mi mena…".

È vero, c’è altro attorno a noi, c’è altro nelle nostre case ogni volta che riusciamo a rinunciare a quell’esasperato senso di pretesa, di prepotenza, di possesso, consapevoli che l’altro, per quanto ci appartenga, rimarrà sempre e solo un dono.

Madre Speranza, insieme a tante famiglie che seguono le sue orme, ci testimonia che non c’è nulla di più grande, desiderabile e vero che cercare la propria felicità facendo felice l’altro: lieti di portare il peso, di offrire se stessi, di essere un "abisso senza fondo"… solo perché l’altro sia felice e faccia esperienza di essere prezioso. Lei con la sua vita ci fa scuola e ci invita a lasciarci muovere dall’amore, come Gesù, amandoci come Lui ha amato noi: "Come vorrei veder scolpito questo comandamento in tutte le mie figlie! Che tutte amino le proprie sorelle fino al sacrificio, dimenticando se stesse, e allora sì che le nostre case sarebbero il fedele ritratto della casa di Nazareth, allora sì che sarebbero ben attesi i poveri, vivrebbero in una sana allegria e nella casa si respirerebbe amore e carità, non ci sarebbero dispute, tutte cederebbero i propri diritti per non turbare la pace delle proprie sorelle, farebbero il bene a tutti e non avrebbero altro desiderio che quello della felicità altrui".

Questa felicità non avrà mai fine perché frutto di quel piccolo seme che è il dono totale e incondizionato di sé: un seme che marcisce nel segreto di un cuore, di una casa, di una comunità e che germoglia, matura e si coglie dall’albero della croce, che Gesù ha trasformato nell’albero della Vita. Vivere così non è da eroi, ma è solo la naturale e logica risposta a quanto Gesù ha fatto per noi: "Egli per primo si è volontariamente spogliato di tutti i suoi diritti e beni per amore nostro" (M. Speranza), per far felici noi.

"Egli si è abbassato fino a noi per darci il suo amore e colmarci dei suoi benefici. Noi andiamo a Lui, nostro Padre e unico Signore, perché ci sovvenga nelle necessità; ci aiuti a pagare i nostri debiti e a sanare la nostra irrimediabile debolezza, sempre assetata di felicità e di amore. In Lui troveremo l’una e l’altro. Egli infatti, per l’amore che ci porta, esaudisce tutti i desideri del nostro cuore, mentre ci dona la felicità, che deriva dalla sua conoscenza, e la perfezione.

Non dobbiamo dimenticare che sulla strada che conduce a Dio e alla santità non possiamo fermarci. O si avanza, o si retrocede, perché chi desidera fermarsi senza dubbio cadrà" (M. Speranza).

Il segreto della felicità è quello di percorrere il cammino della vita in cordata, uniti a Gesù e tra di noi, pronti a sostenere, sorreggere e spronare l’altro, certi che il Padre ci ha legati così per l’eternità. Come ci racconta una missionaria del Pime, la vita ogni giorno ci offre la possibilità di generare e di essere generati nell’amore: "Ricordo un vecchio africano che mi chiamava mamma quando passavo accanto alla sua capanna e un giorno gli chiesi: qual è il giorno in cui ti ho partorito? Mi rispose: il giorno in cui mi hai ascoltato".

Gettare i ponti dell’accoglienza, della comunione e del dialogo ci rende felici!


* Rivista dicembre 2013: Famiglie di Speranza.

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ultimo aggiornamento 16 ottobre, 2014