esperienze  
 

Paolo Risso

"Il Padre Pio delle Dolomiti":

don ENRICO VIDESOTT

Il 3 luglio 1912, a S. Lorenzo di Sebato (BZ), da umile famiglia nasce Henrich Videsott, e ama subito e fortemente Gesù come unico della sua vita. È ancora ragazzino e già lavora per arrotondare le entrate in casa. Tra i lavori che compie, quello di accudire le capre al pascolo, le quali essendo pressoché autosufficienti, gli permettono di pregare – Rosari su Rosari alla Madonna – e di contemplare Dio.

La Messa, unica passione

Assistendo alla 1ª Messa di un sacerdote appena ordinato, comincia a desiderare di consacrarsi a Dio sulla stessa via. Un cappuccino lo aiuta a intraprendere il cammino. Scuola media a Bressanone, Liceo classico dai Padri Agostiniani nella città stessa. Superato l’esame di maturità, nel 1932, a 20 anni, Enrico entra in Seminario a Bressanone per gli studi di Teologia. È latinista e grecista, tanto che dopo un anno di seminario, già legge il Nuovo Testamento non solo in latino, ma in greco.

Al centro di tutto: Gesù Cristo da amare, adorare, imitare, vivere e annunciare ai fratelli. La sua unica passione: il Santo Sacrificio della Messa. Il 29 giugno 1937, solennità dei Santi Pietro e Paolo, è ordinato sacerdote. Ha 25 anni, quando sale all’altare per la prima Messa: da quel giorno, il più bello della sua vita, nessuno più lo distoglie più dall’altare, ben sapendo che senza l’altare e senza la Messa, il prete è un disoccupato e un fallito e diventa un intrallazzatore e un gaudente, come desidera il mondo nei suoi piani ormai non più segreti.

Quel giorno, chiede una grazia alla Madonna: il dono della parola giusta e conquidente, per parlare di Gesù e portare le anime a Lui, strappandole alla dannazione eterna dell’inferno. Ora non fa altro che obbedire al suo Vescovo che lo manda là dove c’è più bisogno di un sacerdote tutto di Dio. Lui non cerca la carriera e neppure il primo posto, anzi si direbbe che gli piace stare all’ultimo, ma sempre in prima linea per essere e fare il prete, all’altare con la Santa Messa, al confessionale a donare il perdono di Dio, sul pulpito a predicare il Vangelo, e l’amore a Gesù, la conversione delle anime; nella case e nelle vie, dovunque si vive e si soffre, a portare la luce e la consolazione della Fede.

Sa che solo il sacerdotelui stessopuò donare a piene mani Gesù, unico Salvatore. Don Enrico lo fa nelle diverse sedi dove è inviato: cappellano per un anno, nel 1937/38 a Vallarga (dove conosce la nobile figura di S. Giuseppe Freinademetz (1852-1908), nativo della Val Badia e missionario in Cina); nel 1938 a Malles, nel 1939 a Weitental, poi a Pieve di Marebbe; dal 1941 fino al 1943 a Brunico. Pare debba avere sempre la valigia in mano, ma lui è lieto perché dovunque ci sono l’altare e il Tabernacolo e ciò basta per essere felici.

Durante la IIª guerra mondiale, a causa di franchezza e di carità, rischia di finire deportato a Dachau in Germania, ma il suo Vescovo lo mette al sicuro fuori, ma non lontano dalla sua diocesi di Bressanone, a Cortina d’Ampezzo, dove ancora come cappellano rimane fino al 1947. A 10 anni dalla sua ordinazione a prima vista pare un povero prete senza incarico stabile, ma lui è pienamente soddisfatto per il suo sacerdozio santo.

Il suo primo modello per essere conforme a Gesù sommo ed eterno Sacerdote, è S. Giovanni M. Vianney, il santo Curato d’Ars, quindi S. Giuseppe Cafasso, P. Pio da Pietrelcina ancora vivo e operoso al massimo a S. Giovanni Rotondo, tutti sacerdoti che vivono soltanto per Dio e per le anime da salvare e condurre in Paradiso. Il testo più caro che medita è quello che nei Vangeli racconta la passione di Gesù, consapevole che per portare le anime a Dio, il sacerdote deve vivere di Gesù Crocifisso che offre al Padre nel Santo Sacrificio della Messa.

Capita così che l’ancor giovane don Enrico ha già tanti "figli spirituali". Si narra già di conversioni e di guarigioni, a dir poco singolari, operate da lui che, sempre più, appare avere "il filo diretto" con Dio: Gesù opera prodigi per mezzo suo. Dal 1948 è a Pieve di Livinallongo, in seguito a Mezza Selva. Infine, a 52 anni, la prima sistemazione che si può pensare definitiva: parroco a La Valle in Val Badia, dove rimarrà per 35 anni, sino all’ultimo, come padre, guida, maestro, intercessore, saggio e santo presso Dio per i suoi parrocchiani e per lo stuolo sconfinato di anime che verranno a Lui anche da lontano.

 

Soltanto sacerdote

Non prende iniziative eclatanti, non compie grandi imprese agli occhi del mondo, ma è sacerdote, solo e sempre sacerdote, cioè alter Christus che adora Dio e si immola per la sua gloria, che si dedica giorno e notte alla salvezza delle anime. Questo deve fare il sacerdote. Come già altrove è passato, diventano famose e ricercate le sue "benedizioni: quando don Enrico benedice, le cose cambiano: lontani da Dio ritornano a Lui, malati guariscono, ragazzi trovano la retta via, bambini nascono da genitori prima impossibilitati ad averne, soluzioni si prospettano per problemi insolubili. Una folla di anime senza confini va a farsi benedire da don Enrico, a consigliarsi da lui, a partecipare alla sua Messa. La sua "benedizione", come egli spiega, è solo Gesù Cristo, la "benedizione" per eccellenza, con cui, citando S. Paolo, "siamo stati benedetti da Dio in Cristo" (Ef 1,3).

Scrive Cristina Siccardi nel libro "Don Enrico, vita e testimonianza" (Comitato Amici di don Enrico, 39030 La Valle, Bolzan): "Don Enrico era sacerdote da capo a piedi. Celebrava la S. Messa con tutto l’ardore di un prete che ha compreso che cosa significa essere ministri di Dio. Confessava, amministrava i Sacramenti, predicava, pregava e benediceva. Tutto il resto era per lui perdita di tempo e, soprattutto perdita di Dio. La gente, d’altro canto, da lui non cercava altro, se non che continuasse a essere don Enrico, colui che con i suoi occhi imbevuti di tenerezza e di trasparenze ultra-terrene, sapeva ascoltare e guidare secondo un unico metro di misura, la Verità portata da Cristo, trasmessa alla Chiesa dalla Tradizione. Finivano gli incontri, ma proseguiva il legame d’anima attraverso lo strumento principe di collegamento tra le creature e il Padre, la preghiera. Si interessava di tutti e di ciascuno. Don Enrico era un sacerdote realizzato e felice di essere sacerdote" (pp."19-20).

Già prima ma ancora di più quando don Enrico arriva come parroco a La Valle (1964), soffia un vento infido che qualcuno molto alto, come il Card. Charles Journet, definisce "un vento di follia", e pare che anche là dove dovrebbero ardere e brillare i fari, venga via via a mancare la luce.

Che fa don Enrico? Egli rimane forte e stabile nella Fede Cattolica di sempre e non si fa influenzare dal vento rivoluzionario del modernismo, entrato anche tra uomini di Chiesa. Fede e sacrificio, rinuncia e abbandono alla sua volontà sono le sue linee e al centro della sua vita intera, ci sono il Sacrificio della Messa e la preghiera; non ha altri interessi al di fuori di Dio, di Gesù Cristo, della Madonna e dei suoi "figli spirituali" che accorrono non solo dalla sua parrocchia e dintorni, ma sa tutto il Tirolo, dal Nord-Italia, dall’Austria, dalla Svizzera, dalla Germania e dall’Europa orientale: a volte vengono anche dall’Africa e dal Messico.

Tutti alla ricerca in lui non dell’uomo brillante, non di un cattolicesimo diventato solo umanitarismo o educazione civica senza il soprannaturale – come dilaga in gran parte oggi con danno immane delle anime – ma della Vita divina, della Grazia santificante e della salvezza eterna: proprio il contrario di quanto propala il razionalismo del XIX e del XX secolo; o quella strana "religione dimezzata" della misericordia senza la Verità.

Quando è ancora in vita, don Enrico è chiamato "il padre Pio delle Dolomiti", oppure "il Segenspfarrer" (= il parroco delle benedizioni) perché sino all’ultimo, nessuno, nulla – neppure la modernità, riesce a distoglierlo dalla sua vita di unione e di intimità con Gesù, di identificazione con Lui, in crescita sino all’ultima ora. La quale venne per lui, il giorno dell’Immacolata, 8 dicembre 1999, quando all’improvviso il suo cuore si ferma. Dopo alcuni minuti riprende a pulsare e lui, lucido e consapevole, riceve l’Estrema Unzione e il suo Gesù, ancora una volta, nell’Eucaristia, prima di vederlo per sempre nella gioia eterna all’una e trenta del 9 dicembre 1999, nella notte gremita di stelle sulle sue Dolomiti innevate.

Gli viene ancora chiesta, sul letto di morte, la sua benedizione. Alza la mano a benedire, quindi dice: "La benedizione di Dio è irradiazione della sua santità. Quando il sacerdote benedice, è Gesù che benedice".

Riposa, don Enrico Videsott, nel cimitero della sua parrocchia, in un’umile tomba sempre coperta di fiori, ma la sua fama di santità è già dilagata, si potrebbe dire, nel mondo intero. Ora si sta avviando la sua Causa di beatificazione.

O Gesù, al mondo smarrito, a preti che a volte non sanno più chi sono né che cosa fare, dona al più presto, anzi subito, numerosi e santi preti come don Enrico: e null’altro.

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ultimo aggiornamento 15 marzo, 2017