Giornata di Santificazione Sacerdotale  

Collevalenza: la Giornata Regionale di Santificazione
Sacerdotale con il Card. Francesco Montenegro,
Arcivescovo di Agrigento e Presidente della Caritas Italiana

A scuola dei poveri: quale Chiesa?

Giovedì 11 giugno, la giornata regionale di santificazione sacerdotale, presenti arcivescovi e vescovi dell’Umbria e circa 200 presbiteri si è aperta a Collevalenza presso la struttura di accoglienza del Santuario dell’Amore Misericordioso con la recita dell’Ora Media guidata da mons. Benedetto Tuzia, vescovo di Orvieto-Todi.

Subito dopo il Cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas italiana, ha introdotto il tema dell’incontro "A scuola dei poveri: quale Chiesa?" osservando che questo incontro che guarda a Firenze e al nuovo umanesimo sarà affrontato da una prospettiva particolare. Infatti -ha detto- "interpreto – è solo il mio punto di vista- il termine "nuovo" puntando l’obiettivo sulla dignità e grandezza che è propria di ogni uomo e perciò anche sulla carne dei poveri.

Ci sarà un nuovo umanesimo quando finalmente il povero troverà posto alla mensa dei popoli e anche e soprattutto a quella preparata dal Signore che non disdegna far entrare nella sua casa quanti sono per strada e non calcolati da nessuno. Sino a quando questo non avverrà ho difficoltà a pensare che sarà possibile un nuovo umanesimo.

La Chiesa, infatti, con il Concilio insegna che la fedeltà a Dio si misura con la fedeltà all’uomo: fedeltà fatta di ascolto, dialogo e comprensione e che deve diventare attenzione, preoccupazione e cura.

Questo nostro incontro vuole guardare a Firenze, ma affronterò il tema da una prospettiva particolare. Spero di non deludervi e già vi chiedo scusa. Interpreto — è solo il mio punto di vista — il termine "nuovo" puntando l’obiettivo sulla dignità e grandezza che è propria di ogni uomo e perciò anche sulla carne dei poveri. Ci sarà un nuovo umanesimo quando finalmente il povero troverà posto alla mensa dei popoli e anche e soprattutto a quella preparata dal Signore che non disdegna fare entrare nella sua casa quanti sono per strada e non calcolati da nessuno. Sino a quando questo non avverrà ho difficoltà a pensare che sarà possibile il nuovo umanesimo. Rafforzo questa mia idea contemplando l’immagine del Crocifisso — amore misericordioso — che risorge portando addosso i segni della sofferenza. Possiamo parlare di nuovo umanesimo, perciò, se terremo conto e accetteremo tra noi quanti nella società e anche nella chiesa sono esclusi mentre sono il seme del nuovo, il perno e la chiave per imboccare la strada di un mondo diverso e più umano.

Questo avverrà nella misura in cui anche l’ultimo della fila verrà preso in considerazione e si vedrà riconosciuta la sua dignità di uomo. Parlerò perciò in modo particolare di poveri e di quale chiesa vogliamo essere se vogliamo partecipare a realizzare il progetto della costruzione di cieli nuovi e terra nuova.

Mi piace ricordare quanto dicono Mons. Romero e P. Zanotelli. Il primo afferma che i poveri "sono coloro che ci dicono che cosa è il mondo e quale è il servizio della Chiesa al mondo". P. Zanotelli dice: "Solo se ripartiamo dagli ultimi potremo cominciare a vedere la luce. Gli ultimi sono il cuore del vangelo. Sono loro che rivelano il volto di Abbà. Una chiesa che non mette loro al centro non è chiesa".

Entro nel tema

"Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore". L’inizio della GS non solo raccoglie e sintetizza una delle principali acquisizioni del Concilio in merito alla vita e alla missione della Chiesa nel mondo contemporaneo, ma permette anche di comprendere il senso del cammino delle Chiese Italiane negli ultimi cinquant’anni e, nello specifico, il senso del "convenire" a Firenze tra qualche mese.

La parola d’ordine e il filo conduttore di questo percorso è il termine "umano", anzi "genuinamente umano", come è scritto sul testo conciliare. Questa espressione contiene tutta la concretezza e la complessità dell’esistenza umana che Cristo ha assunto nell’incarnazione e che ora la Chiesa, sua continuazione, deve saper assumere. La Chiesa col Concilio insegna che la fedeltà a Dio si misura con la fedeltà all’uomo: fedeltà fatta di ascolto, dialogo e comprensione e che deve diventare attenzione, preoccupazione e cura. La Chiesa sa pure che non può presentarsi come via per l’uomo se prima e contemporaneamente non assume l’uomo come via per se stessa.

Nella Chiesa è sempre stata presente l’attenzione verso
l’humanum. Se ne è discusso a Roma nella prospettiva della promozione umana; in quella dell’orizzonte comunitario a Loreto e sociale a Palermo; e a Verona si sono segnati i sentieri degli affetti, del lavoro e della festa, della fragilità, dell’educarsi vicendevolmente e del convivere nel rispetto di regole stabilite democraticamente. Fa da sfondo in questo cammino il Vangelo che illumina di senso il volto dell’uomo e permette di intuire le risposte ai suoi interrogativi profondi (GS 41). Dice Papa Francesco: "lo credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento, che si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri".

II “nuovo umanesimo in Gesù Cristo” si configura come un umanesimo incarnato, che non può non andare nelle periferie più lontane dell’esistenza

Oggi si vuole sganciare l’uomo da Dio e dai poteri della Chiesa e dell’Impero che in passato lo avevano in qualche modo tenuto a bada. Si vuole il ritorno dalla soprannatura alla natura, dalla trascendenza all’immanenza perché l’uomo creda nella sua capacità di assoluta indipendenza.

L’invito al Convegno dice che a Firenze si "affronterà il trapasso culturale e sociale che caratterizza il nostro tempo, per proporre un umanesimo profondamente radicato nell’orizzonte di una visione cristiana dell’uomo ricavata dal messaggio biblico e dalla tradizione ecclesiale, e per questo capace di dialogare col mondo".

II "nuovo umanesimo in Gesù Cristo" si configura come un umanesimo incarnato, che non può non andare nelle periferie più lontane dell’esistenza, per portare la speranza cristiana là dove non c’è più motivo per sperare. Un umanesimo perciò che si mette "in ascolto, concreto, plurale e integrale, d’interiorità e trascendenza".

In ascolto perché dà uno sguardo credente sulla realtà, senza pessimismo o illusioni, «per riconoscere la bellezza dell’ umano ‘in atto’».

Concreto perché vuol rispondere ai bisogni facendosi attenzione sollecita e cura premurosa e vuole assumerne i limiti facendoli diventare punti di forza, attraverso un impegno di promozione umana.

Un umanesimo plurale e integrale che si apre in maniera incondizionata e intelligente, senza scandalizzarsi o spaventarsi del "diverso", ma accogliendolo come portatore di ricchezza. È un interesse a 360 gradi, in cui porta il suo contributo per il bene comune.

Un umanesimo d’interiorità e trascendenza che ripensa l’esistenza con quel desiderio di vita piena che si gusta nella preghiera, si apprende nell’ascolto della Parola di Dio e si matura facendo incontrare ogni uomo con la verità che risplende nel volto umano e divino di Cristo.

II convegno perciò si muoverà tra i capi di una linea rossa: Chiesa e uomo.

Parliamo un po’ dell’uomo ma, come dicevo, guardando l’uomo della Croce, in modo particolare l’uomo povero.

Uno scultore lavorava su un grande blocco di marmo. Un ragazzino passava ogni giorno senza comprendere cosa l’uomo stesse facendo. Qualche settimana dopo, il piccolo vide un grande e solenne leone al posto del blocco di marmo. Entrò, e chiese allo scultore: "Come sapevi che c’era un leone nella pietra?".

Gesù non solo è per i poveri, ma appartiene ed è con loro. Da quando sul Golgota è stato innalzato il Nazareno, ogni uomo, ogni povero, “carne sanguinante di Cristo”, è diventato il nascondiglio di Dio.

Parlare dell’uomo non è facile. È come trovarsi davanti a un blocco di marmo informe, eppure dentro ogni uomo c’è un capolavoro. Diceva Mons. Bello: "Ogni uomo ha il suo volto. Un identikit intrasferibile. Una individualità unica. Un’esclusiva ricchezza spirituale. Un’irripetibile valenza di dono. Dio ci conosce per nome e non per sigla". Per questo, come dice il Vangelo, il posto dell’uomo, anche e soprattutto se fragile, è stare al centro (l’uomo dalla mano malata, i bambini).

E mentre parliamo dell’uomo, di ogni uomo, mi viene in mente ciò che è rimasto semplicemente uno slogan ... senza effetto: ripartire dagli ultimi.

Gesù non solo è per i poveri, ma appartiene ed è con loro. Da quando sul Golgota è stato innalzato il Nazareno, ogni uomo, ogni povero, "carne sanguinante di Cristo", è diventato il nascondiglio di Dio. Ecco perché ogni uomo va guardato con gli occhi del cuore, perché "impastato di Dio". Anche il povero: che è passaggio obbligato per incontrare l’uomo perfetto, Gesù. "Il povero è il nostro tormento se lo sfuggiamo. Se ce ne preoccupiamo diventa la nostra gioia. Se ascoltiamo le sue silenziose lezioni diventa nostro maestro di vita. E il nostro compagno di viaggio che, ultimamente, è sempre al nostro fianco" (Paolo VI).

Mons. Bello parlava degli angeli creati con due ali, mentre gli uomini sono stati creati con un’ala sola, perciò se vogliono volare hanno bisogno di abbracciarsi due a due. Io posso volare se l’altro mi presta la sua ala. Ogni altro, anche se povero.

L’altro è colui del quale ho bisogno per completarmi come uomo (Puzzle). Che devo amare con tutto il cuore e sul quale e alla cui presenza sarò giudicato. Per mezzo dell’altro Dio mi chiama, mi arricchisce e misura la mia capacità e volontà di amore. L’altro, ogni altro, è ‘uno’ per il quale io sono fatto. Non vale meno di me, ma quanto me: è unico, irripetibile, inviolabile. È la prova che Dio continua a venire in questo mondo e a venirmi incontro. L’altro è un insieme unico di esperienze e di speranze, di paure e di coraggio, di gioia e di lacrime. Ha qualcosa che sa fare bene e qualcosa che sa far meglio di qualsiasi altro al mondo.

Può vivere vicino a me, ma anche per me; può confrontarsi con me, incontrarmi, comprendermi. L’altro è insomma mistero, come il Verbo fatto carne è mistero. E … anch’io sono mistero, sono l’altro per l’altro.

Ma l’altro è anche il povero, lo ripeto. Per lui il Figlio di Dio ha lasciato il cielo e si è fatto uomo.

Parlare di poveri è puntare l’obiettivo su chi è privo di risorse economiche e di condizioni di vita e di diritti. La povertà ha tanti volti, non tutti facilmente decifrabili. Eppure loro sono volto di Cristo. Sono Gesù che ci invita a convertirci.

Mi viene in mente il monaco Epifanio che si mette alla ricerca di un modello per dipingere il volto di Cristo. Trova la gioia nel volto di una fanciulla; la forza in quello di un contadino; la solennità in un vescovo celebrante; la malinconia negli occhi di una donna perduta; la presenza di Dio in un mendicante; la bontà in chi assisteva i malati; la sofferenza negli occhi di un morente; la severità in un monaco; la giustizia in un principe saggio; la tenerezza in una madre che allattava; la paura in un ladro inseguito; la disperazione nei genitori colpiti dalla morte del figlio; l’allegria nei giochi di un giullare; la misericordia in un santo confessore; il mistero nel volto bendato di un lebbroso.

Papa Francesco, ripetendo con forza il "Duc in altum" (prendi il largo), ci chiede di puntare la prua della chiesa verso le periferie esistenziali. Ci chiede cioè di rivolgerci la dove "c’è sofferenza, sangue versato, cecità che desidera vedere, prigionieri di tanti cattivi padroni"; o verso i luoghi abitati "da tutti coloro che sono segnati da povertà fisica e intellettuale"; o dove c’è "chi sembra più lontano, più indifferente", o dove "Dio non c’è"; o verso "le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo"; "o coloro per i quali Gesù è venuto: "gli ultimi". Accredita poi le sue parole affermando che: "La realtà la si capisce meglio non dal centro, ma dalle periferie".

Gesù, l’uomo perfetto, è la prova chiara della piena solida rietà di Dio con l’uomo. Pianto e gioia, determinatezza e misericordia, tenerezza e denunce, annunci di beatitudine e accuse d’ipocrisia riempiono le sue giornate.

Se un nordamericano utilizza in media 600 litri d’acqua al giorno e un africano 30. Se metà della popolazione mondiale per vivere ha a disposizione meno di 2 dollari al giorno. Se 4 cittadini statunitensi possiedono insieme una fortuna equivalente al prodotto interno lordo di 42 nazioni povere, per complessivi 600 milioni di abitanti. Se ciò che mangia l’americano lo mangiano 3 italiani e quello che mangiano 3 italiani, lo mangiano 1000 afri-cani: 1 mangia per 1000, non dovrebbe essere difficile comprendere il perché delle carrette del mare e dei viaggi della speranza. La nostra è la società dell’insicurezza, composta da due classi: coloro che hanno più pranzi che appetito e chi ha più appetito che pranzi. La gente fugge «dal peggio verso il meglio», dalla loro fame al nostro piatto.

A questo punto mi piace fare un riferimento al Magnificat. "Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia".

Maria, dopo suo ‘eccomi’, proclamando il Magnificat dichiara ad alta voce la consapevolezza che in lei si sta compiendo la promessa di Dio, descrive l’azione di Dio che va contro ogni logica umana e proclama di sentirsi protagonista nella realizzazione della nuova storia. È come se volesse sottolineare la presenza attiva e sconvolgente di Dio nella storia degli uomini. Infatti lo è da quando, ascoltando il grido che s’innalza dal Nilo, mise sottosopra il Paradiso, entrando attivamente nelle vicende degli uomini. Gesù, l’uomo perfetto, è la prova chiara della piena solidarietà di Dio con l’uomo. Pianto e gioia, determinatezza e misericordia, tenerezza e denunce, annunci di beatitudine e accuse d’ipocrisia riempiono le sue giornate. Maria legge la storia con sguardo profetico. La sua lettura è appunto confermata da Gesù che ci rassicura che Dio sta coi poveri e vuole capovolgere la loro sorte in un destino di vita buona. II sogno di Dio, insomma, è che ci sia una società nuova (giustizia) nella storia.

Se Maria è modello e tipo della Chiesa, se noi siamo la continuazione di Gesù, l’uomo nuovo e perfetto, chiediamoci: quale chiesa, allora? Uscire, annunciare, abitare, educare.

In ciò che vi dirò leggete i cinque verbi di Firenze. Ritengo la possibilità un nuovo umanesimo se ci sarà un’idea di chiesa ... diversa o, più esattamente, fedele a quella voluta dal suo fondatore. "La tua Chiesa sia testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo", preghiamo nel Canone V. Trasfigurazione.

Chiesa di frontiera, convinta di speranza, "più coraggiosa, più libera, più giovane" (Benedetto XVI) che con un occhio sereno guarda indietro e con l’altro, luminoso, guarda in avanti. Chiesa che riflette il volto di Dio-amore, e che porta sempre con sé il Iibro della Parola, il Pane, l’olio e il vino, assieme ad una brocca colma d’acqua, "per ridare un cuore nuovo all’umanità contemporanea immersa in una civiltà malata" (Giovanni Paolo II), che sembra veder esaurire le scorte di speranza. Chiesa che — come dice l’Abbe Pierre — tiene un vetro rotto, per sentire i lamenti che vengono da fuori, e che è stanca di essere partigiana di cause modeste rispetto a quelle dell’universo.

Chiesa che perciò coraggiosamente annuncia non un vangelo dolcificante e stranamente garante di coscienze tranquille, ma piuttosto dono da realizzare, fuoco da accendere e sogno in cui abitare. Che sa di non dover parlare di se stessa, ma di annunciare il crocifisso risorto e dare testimonianza con la propria vita. In una parola, Chiesa che si fa prossima, perché è "traiettoria di Cristo nella storia" (Paolo VI). Chiesa che - come scrive Antoine de Saint Exupery - sa che, prima di costruire una nave, occorre risvegliare la "nostalgia del mare" e solo dopo ci si preoccupa degli attrezzi da usare e del lavoro da organizzare.

Chiesa consapevole di essere a servizio del mondo, come dice il Papa. Che fa dell’amore per l’uomo il suo credo. Chiesa dell’incontro, del dialogo, "dalle porte aperte", che sta per strada "con dolce e confortante gioia", che parla "con audacia anche controcorrente" e che scandalizza con i gesti dell’amore. Aperta al mondo, anche a quello della violenza, delle periferie, della mafia, della povertà, o di chi non ha mai sentito parlare di Dio. Chiesa che crea, anche rischiando, solidarietà attorno al fratello ferito e mette a sua disposizione il proprio tempo e le proprie cose. Che si commuove dinanzi alla solitudine del lebbroso e lo guarisce toccandolo; che piange, senza vergognarsi, con e per la mamma che accompagna alla sepoltura il figlio, che partecipa alla gioia dei due sposini di Cana e non permette che la festa finisca malamente. Che aspetta e cerca il figlio che si allontana da casa e sa fare festa perché ritorna. Che spezza con competenza e devozione il pane della vita e, con altrettanta competenza e devozione, riconosce nei poveri e nei sofferenti il Cristo povero e sofferente e li circonda di simpatia e amicizia. Che considera ricchezza povero, perché, assieme all’Eucaristia, sa che è parte del testamento lasciatole dal suo fondatore. Chiesa che si occupa delle cose di Dio, sapendo che a Dio stanno a cuore le cose degli uomini. Chiesa che offre un amore misurato, perché sa che dare di meno è egoismo e dare di più è offesa. Chiesa che ama servendo e che serve amando, perché una chiesa che non serve, non serve a niente. Chiesa che ha bisogno dei poveri, cosi come ha bisogno di Cristo, della Parola, dell’Eucarestia.

Chiesa che sa che con l’incarnazione ormai tutto è sacro, cioè luogo degno di Dio: non solo il tempio, ma anche il barcone, la baracca, la strada, l’ospedale, l’emarginazione. Che riconosce questi come luoghi "teologici", adatti a vivere la fede e dove si può incontrarLo sicuramente. "Cristo spesso è dove noi non abbiamo coraggio di andare. Quando Lo cerchiamo nel tempio, Lui si trova nella stalla; quando Lo cerchiamo tra i sacerdoti, si trova in mezzo ai peccatori; quando Lo cerchiamo libero, è prigioniero; quando Lo cerchiamo rivestito di gloria, è sulla croce ricoperto di sangue. Spesso seduto sui gradini delle nostre chiese con la mano tesa (Frei Betto).

Chiesa — come dice il Papa — "ferita e sporca" perché esce per le strade e si pone di fronte al mondo in modo nuovo; nuovo nell’amarlo, nel valorizzarne i progetti, i desideri, le interpretazioni e la voglia di costruire futuro. Chiesa che esce nelle piazze a tutte le ore del giorno e aspetta che il grano germogli nonostante la zizzania. Che è seminatrice di speranze più che di paure, che sa dire più ‘sì’ che ‘no’, ‘alzati e cammina’ e non solo ‘stai sbagliando’, ‘gettate di nuovo le reti’ anziché ‘non ho tempo per te’. Chiesa che "sa parlare più di Lui che del diavolo; del cielo che dell’inferno; della bellezza che del peccato; dell’amore che delle norme; del bene che del male; di ciò che è bello fare che di quello che è proibito; dell’oggi e del futuro che del passato". Chiesa non ingessata (fratello maggiore), non indifferente (sacerdote e levita), non presuntuosa (operai della prima ora), non paurosa del confronto (gli apostoli scandalizzati dei miracoli compiuti dagli altri), che sa passare dai riti alla celebrazione vera dell’amore (Pietro e Giovanni guariscono lo storpio prima di entrare nel tempio), che esce dal tempio (dove si può anche pregare col cuore spento come Zaccaria), che percorre instancabilmente le Samarie di oggi (cultura, economia, politica, massmedia, città), costellate di pozzi (samaritana), affiancate da marciapiedi (cieco nato), ricche di alberi (Zaccheo), di case (Simone il lebbroso) e di piscine (malato di Betzata). Che conosce palmo a palmo sia la strada che da Gerusalemme va a Gerico (Samaritano), sia quella di Emmaus (viandanti senza speranza).

Chiesa che preferisce la strada perché è soprattutto qui che s’incontra la povertà, la sofferenza, il disagio e l’abbandono, e perché qui risuona diversamente la Parola che parla di giustizia, di povertà, di amore, di servizio, da come invece risuona nei luoghi sacri dove si riesce a farla diventare soft, dolce, indolore. Dice Mazzolari: "Lungo la strada è cominciata la Chiesa; lungo le strade del mondo la chiesa continua. Non occorre, per entrarvi, né battere alla porta, né fare anticamera. Camminate e la troverete; camminate e vi sarà accanto; camminate e sarete nella chiesa".

Chiesa che non offre un Dio congelato, ma vivo, presente, vicino, in cammino, imprevedibile e giovane. Dio "che si mette a tavola con tutti quanti; che gli piace un bicchiere di vino con gli amici. È un uomo forte e mansueto; energico, tenero e disponibile; pieno di ammirazione per l’uomo; uno che sa piangere e sa ridere; uno che si esalta e si dispera; uno che affronta la croce col cuore che trema, come succede a tutti noi. Che non si ferma all’anima. Lui abbraccia tutto l’uomo: la sua fame, la sua sete, la sua dignità" (Marinetti).

Questa è la mia proposta di riflessione. Una Chiesa cosi è capace di "inventare" un umanesimo nuovo. I modelli non le mancano: ci sono, come dicevo, Gesù e Maria.

Chiudo con una immagine: A Madre Teresa una vecchietta, raccolta da lei tra i rifiuti e ripulita con delicatezza, disse: "lo non so se Dio esiste, ma se esiste deve avere la tua faccia".

E vorrei concludere, forse voi lo sapete, con quello che Madre Speranza – io sono stato qui alcuni giorni per riposarmi, quando ero giovane prete; abbiamo fatto cena con Lei, eravamo 5-6 preti, lei a capotavola che ci parlava e dice: "Voi la sapete la storia del chicco di grano?" e noi subito, ma sì, perché se non marcisce… dice, no, no, state attenti, (col suo accento spagnolo) è più lunga di quello che voi pensate e proprio ce lo spiegò così: "il chicco di grano arriva a terra e si sente male, poi finisce sotto terra e sente il peso della terra, se vuole spuntare deve lottare con la terra e quando spunta, deve lottare col sole, con l’acqua, col vento e poi diventa spiga... e lui fece un gesto "ci sono riuscito!…" no, arriva il contadino e lo taglia… e poi si trova dentro un sacco schiacciato da altri chicchi di grano… e dice: "è finita!" e invece no, c’è una pietra che tra poco lo tritura e poi si ritrova farina e poi finisce in un forno… e si è bruciato… diventa pane… si trova sulla tavola e c’è qualcuno che col coltello la taglia e poi qualche altro lo prende e lo morde e lo mangia senza delicatezza… (la spiegò così) e concluse: solo quando diventa vita (noi alla siciliana diciamo ‘sangue’) di chi la mangia, solo allora finisce la storia del chicco di grano. È una storia lunga quella dell’amore.

Bene, nella pagina del samaritano ci sono dieci verbi dell’amore; qua nel chicco di grano c’è una storia lunga di cui dobbiamo tener conto; e ci accorgiamo che quando non viviamo tutta la storia del chicco di grano o saltiamo qualcuno dei verbi del samaritano rischiamo di "amarci" e non "di amare".

S. Em.za Card.
Francesco Montenegro

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ultimo aggiornamento 06 aprile, 2016