pastorale familiare

Marina Berardi

 

Quando la "Casa" sa di famiglia

Dopo alcuni mesi di assenza, torno a condividere degli scorci di quotidianità. Lo spunto di questa riflessione ha origine da una memoria con radici lontane nel tempo, una memoria condivisa con alcuni protagonisti, con chi quella storia l’ha scritta con la vita, ma anche con chi ne è stato reso partecipe per grazia, come me e come molti dei lettori: la Casa del Pellegrino ha compiuto 50 anni!

Lo stesso Gesù aveva chiesto alla Madre la magnifica Opera del Santuario; famosa l’estasi del 14 maggio 1949, da lei diligentemente annotata su un quaderno, in cui le svela il progetto e, anni più tardi, anche il luogo: Collevalenza. Da allora, sono migliaia i pellegrini e le famiglie che raggiungono e si fermano per qualche giorno in questo Roccolo della misericordia, provenienti ormai da diverse parti del mondo.

Perché scegliere una casa del pellegrino e non un albergo? Quando ancora la struttura era in costruzione, lo stesso Gesù, in un’estasi, deve aver insistito con la Madre che non si doveva chiamare "albergo", tanto che lei prontamente gli assicura: "Va bene, Signore, va bene. Casa del Pellegrino e basta" (30.9.1963). Quanta delicatezza e quale dettaglio! Tutti noi sappiamo come il nome indichi un’identità e racchiuda in sé un progetto: l’albergo è per gli ospiti, mentre la "casa" è per il figlio che torna, quel figlio che Gesù attende e desidera riabbracciare, quel figlio che è ciascuno di noi.

Gesù ha voluto a servizio del suo Santuario una struttura semplice ma curata, espressione del suo desiderio di alloggiarci nel suo Cuore. Qui, nell’intimità con Lui, nel silenzio, nell’ascolto, nella distensione, nella contemplazione della natura, nella preghiera e nella fraternità, ci vuole insegnare ad amarci fra noi come Lui ci ama. Abitare una casa vuol dire, infatti, fare l’esperienza di essere amati e di amare, di appartenersi, di relazioni profonde e capaci di nutrire il cuore, di comunione, di servire e di aprirsi all’altro.

In molti ricordano come la Madre desiderasse un’accoglienza premurosa per ciascun pellegrino, anche attraverso attenzioni e dettagli che, per quanto piccoli e normali, dovevano favorire un’esperienza di famiglia, un sentirsi attesi, felici di essere finalmente giunti a casa.

Il sogno di Dio è grande e, nella sua misericordia, continua a realizzarlo attraverso strumenti spesso fragili e inadeguati che però, per vocazione, spendono con passione la propria vita. È Lui a dire alla Madre: "[…A Collevalenza… le Ancelle e i Figli, vivranno] aiutandosi mutuamente, le figlie con il lavoro materiale, i figli assorbiti dal lavoro spirituale, …diffondendo attorno a loro il soave profumo del buon esempio e attirando a Me quanti passeranno o si fermeranno in questo ‘Roccolo’ di anime, diventando entrambi il richiamo che attira a Me le anime che visiteranno questo unico Santuario del mio Amore Misericordioso" (Diario, 14.5.1949). Quale gioia quando, per grazia, questo sogno si avvera! I pellegrini stessi, nel partire, condividono e narrano con gratitudine e stupore quanto il Signore ha compiuto in loro, anche attraverso un clima di accoglienza, di famiglia e di pace.

Rifacendomi a una metafora tanto cara a Madre Speranza, quella della pigna, direi che così come sono diverse le brattee che, strette insieme, custodiscono i semi, lo sono anche coloro che collaborano al sogno di Dio: Laici dell’Amore Misericordioso, Volontari, Membri di Associazioni, Operai e Dipendenti. Ho pensato di dare spazio a questi ultimi, a Claudia che a Collevalenza ci vive e viene ogni giorno al Santuario per lavoro. In occasione della commemorazione del 50° della Casa del Pellegrino proposta a tutti i dipendenti, non è riuscita a condividere quanto custodiva nel cuore ma, appena tornata a casa, ha voluto affidare ricordi, sentimenti ed emozioni ad una lettera indirizzata alla beata Madre Speranza che, per altro, quando era bambina l’ha tenuta tra le sue braccia. La condivido con voi, come lei lo ha fatto con me.

"Madre, l’emozione mi ha impedito di parlare. Avrei voluto raccontare che nella mia vita c’è stato il ‘tuo amorevole-zampino’! Sono stata in collegio, ho avuto la fortuna di conoscerti, di venire a Collevalenza e recitare la poesia per il ‘tuo’ onomastico, il 18 dicembre, e di salutarti e abbracciarti. Una gioia immensa.

Quando partivo per tornare a casa, finita la terza media, mi portarono a salutarti. Tu mi hai messo seduta sulle tue ginocchia e mi hai detto: ‘Qui ritornerai, hija mia (figlia mia). Allora ti dissi: ‘No, Madre, io torno a casa’, ma tu, accarezzandomi, ripetevi: ‘No, hija mia, tornerai qui’.

Per un po’ di tempo, ripensando alle tue parole, non sono più venuta a Collevalenza per paura che mi convincessi a diventare suora. Ma dopo qualche anno tornai e il 15 agosto 1978, al Roccolo, ho conosciuto Stefano, mio marito, e così ho capito il senso delle tue parole.

Ora lavoro al Santuario e per me vuol dire continuare la vita in famiglia.

Grazie, Madre, perché da trentatré anni vegli sul nostro amore e sulla nostra famiglia.

Tutto per amore".

Poche righe, essenziali, che raccontano una vita e che svelano, soprattutto, la tenerezza e la premura di un Dio che si prende cura di ognuno come se fosse l’unica creatura al mondo. Diversi gli spunti che ci parlano di ciò che per Claudia è davvero importante, che ci dicono ciò che rende possibile il miracolo di una Casa - e magari di un posto di lavoro! – che sa di famiglia. E, come in ogni famiglia che si rispetti, c’è il momento della gioia e del dolore, della fatica e dell’incomprensione, della condivisione e del perdono reciproco. Il segreto? Far tesoro di ogni evento, anche di quelli che non siamo noi a scegliere, di quelli che nella giornata ci appaiono casuali, di quelli che viviamo con distrazione o magari, come Claudia, con preoccupazione, nel timore di doversi fare suora. Nel progetto di Dio tutto è destinato a svelarci una preziosa trama, tutto apre a un bene più grande.

Quanta sofferenza e impotenza si sperimenta davanti alle sconfinate necessità di tante famiglie che soffrono e vivono l’umiliazione per la mancanza del lavoro. Come ha ricordato Papa Francesco, il nostro "è un mondo dove il lavoro non si considera con la dignità che ha e che dà" (Genova, 17.5.2017).

A questo proposito, voglio chiudere con un’altra storia di vita di cui mi è stato fatto dono. È un racconto che schiude le porte della speranza, che sa narrare la vita come dono, che parla del miracolo che accade quando lavoro, senso di appartenenza, realizzazione di sé e spirito di famiglia si coniugano insieme.

"Voglio raccontare la mia semplice e al contempo grande esperienza. Sono arrivata a Collevalenza per la seconda volta perché, già alla fine degli anni ’60, vi avevo lavorato. Sono tornata, però, con atteggiamenti e sentimenti diversi, frutto anche dell’esperienza di una vita che, nel provarmi, mi ha fatta maturare, che mi ha insegnato ad apprezzare e gioire delle più piccole cose. Sono certa che il Signore e Madre Speranza mi hanno aiutata a tornare a casa, perché è questo che considero il Santuario.

Nei mesi che precedettero la beatificazione della Madre, la sera molto spesso mi mettevo sulla piazza, cercavo di pregare e di parlare con lei; mi perdevo negli occhi della grande foto, sentivo che come una mamma anche lei mi guardava, mi ascoltava e mi capiva. Tornavo nonostante il freddo, perché avevo la certezza interiore che mi avrebbe aiutata e questo mi rasserenava e tranquillizzava.

Ora lavoro al Santuario e, quale che sia il servizio che mi è chiesto, mi accorgo di avere il sorriso sulle labbra, espressione della gioia del cuore, conquistata anche in mezzo alle inevitabili fatiche e difficoltà che in ogni ambiente si incontrano. Tutto per me diventa occasione per accogliere ed essere accolta, per dilatare il cuore. Al di là dei miei limiti e delle cose che certamente potrei migliorare, il mio cuore c’è sempre ed è bello donarlo e condividerlo con le suore, le colleghe e i pellegrini.

Penso che il Signore non solo ha voluto che trovassi lavoro ma anche che non mi allontanassi troppo da Lui, che sperimentassi che non mi ha mai abbandonata, che continua a chiedermi la mia piccolezza per farne il capolavoro che Lui desidera".

Come ci ha ricordato Papa Francesco, proprio questo sembra essere il sogno e l’invito del Signore: «Siamo famiglia, voi siete la mia famiglia se ascoltate la mia parola e se la mettete in pratica». Occorre far proprio lo stile di chi, con i suoi problemi, durante la giornata, «va nel bus, nel metro, e interiormente parla col Signore o almeno sa che il Signore lo guarda, gli è vicino: questa è la familiarità, è vicinanza, è sentirsi della famiglia di Gesù» (Omelia a S. Marta, 27.9.2017) e, perché no, magari anche un po’ della famiglia dell’Amore Misericordioso.

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ultimo aggiornamento 13 novembre, 2017