Verso una cultura della misericordia

A cura del CeSAM una serie di
riflessioni sulle sette Opere di misericordia spirituale (5)

 

 

Perdonare le offese

FRANCESCA PETETTA

 

«Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?» (Mt. 18, 21). Nella domanda che Pietro rivolge a Gesù, c’è innanzitutto la curiosità, tutta umana, di scoprire il numero di giustificazioni che un uomo buono è chiamato ad offrire a chi lo offende. Senza difficoltà riusciamo a percepire l’espressione quasi infantile del discepolo che non può fare a meno di interrogare il suo maestro per apprendere da quest’ultimo ciò che non conosce. Pietro è sicuro che Gesù, modello di bontà e virtù, sa perdonare "molto" ma, com’è tipico di ogni uomo, vorrebbe quantificare tutta quella virtù, perché sulla quantità si erge il raziocinio umano che spesso proprio su di essa fonda i presupposti per il rispetto rigoroso della regola.

Il tentativo di quantificazione contenuto nella seconda parte della domanda di Pietro presenta un numero molto specifico, il sette. Al di là delle riflessioni riguardanti il significato simbolico di quel numero, è interessante in questa sede osservarne piuttosto il portato emotivo e relazionale, per scoprire come lo stato d’animo di colui che sarà la pietra fondante della Chiesa cristiana sia lo stesso di ognuno di noi.

Il numero sette suona a Pietro come iperbolico ma, in un certo senso, anche ragionevole: è abbastanza elevato da sembrare degno dell’approvazione dell’amore infinito divino e, allo stesso tempo, abbastanza quantificabile da poter rassicurare l’intelletto umano finito. Il numero sette, in questo senso, può essere considerato come il simbolo del dissidio interiore che sperimentiamo nel momento in cui la vita ci pone dinanzi all’odio da una parte e alla chiamata a un difficile perdono dall’altra. Sappiamo che lo sforzo per perdonare è grande, iperbolicamente fuori dalla nostra portata, così come sappiamo che il perdono fa bene e che nessuno sforzo fatto per realizzarlo è troppo grande da non poter essere ripagato una volta compiuto. Così, dunque, l’uomo è prigioniero di quel numero sette che condanna all’immobilità.

A scardinare tutto, come sempre accade, arriva Gesù. «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt. 18, 22), risponde infatti il maestro. Notiamo che Gesù non fornisce a Pietro una vera e propria quantità: dovremmo eseguire un calcolo se volessimo ricavare un numero preciso da tale affermazione. Il motivo di ciò sta nel fatto che Gesù non intende dare all’uomo una regola per il perdono, bensì insegnargli che il perdono autentico non ammette condizioni, regole, mercificazioni. Si deve perdonare sempre, ad ogni costo, "senza se e senza ma".

Ma perché perdonare? Ce lo insegna, ancora una volta, Gesù: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu me ne supplicasti; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?» (Mt. 18, 32-33). "Perdonare per essere perdonati", quindi, come recita il titolo della Meditazione mattutina presso la cappella della Domus Sanctae Marthae del 6 marzo 2018, nella quale papa Francesco invita ad innescare un circolo virtuoso tra il perdonare chi ci offende e il farci perdonare a nostra volta. Se non compiamo il passo di riconoscere il nostro peccato, se non siamo capaci di accusare noi stessi giustamente, se anziché chiedere perdono ci giustifichiamo, non possiamo in nessun modo pretendere di saper perdonare i nostri fratelli. Allo stesso tempo, se non perdoniamo, non possiamo essere perdonati.

Nella domanda di Pietro, nel fatto che egli senta il bisogno di chiedere al suo maestro delle informazioni riguardo al perdono e nel fatto che Gesù, poi, lo corregga e lo ammonisca, è presente anche un’altra importantissima evidenza: l’uomo, da solo, non è capace di perdonare, ma ha bisogno di un dono straordinario che gli apra gli occhi, lo istruisca e lo illumini.

Diviene chiaro, così, che il perdono non è atto umano. Il perdono è grazia divina e viene da un atto di fede.

Il presupposto per perdonare e per essere perdonati è affidarsi a quella grazia che cura, che purifica, che porta salvezza, che spezza le catene e che libera da ogni meccanismo psicologico. Affidarsi sempre, dunque, sia quando dall’accusa verso noi stessi rischiamo di cadere nella mortificazione che non lascia scampo, sia quando, al versante opposto, dalla sofferenza per l’offesa subita rischiamo di cadere nell’odio che imprigiona e, altrettanto, non lascia scampo.

Uscire dalla mortificazione di sé e saper chiedere perdono, così come uscire dall’odio per l’altro e saper perdonare potrebbero sembrare imprese insormontabili per l’uomo. Lo sono, in effetti. All’uomo però, non è richiesto ciò; all’uomo è richiesto un primo passo soltanto: la preghiera. Solo pregando autenticamente e sinceramente si compie quell’atto di affidamento necessario per lasciare che la grazia entri nel nostro cuore. Solo pregando si inizia a camminare. Il resto lo realizza Dio.

Articolo precedente

Articolo successivo

[Home page | Sommario Rivista]


realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggiornamento 07 agosto, 2018