Verso una cultura della misericordia

 

A cura del CeSAM

DOTT. MICHELE CARDINALI

Il Sinodo sui giovani

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Migrare, verso un diritto all’ospitalità

Nei tre snodi cruciali che il documento del Sinodo dei vescovi indica, la seconda parte viene dedicata alla figura dei migranti. Presentati come il paradigma del mondo attuale, nonché della condizione giovanile, il Sinodo sottolinea che migrare non rappresenta un evento straordinario o eccezionale, ma la condizione originaria di ognuno: quella degli esseri umani in costante cammino. Per questo, la parte dedicata all’argomento si apre dichiarando che «i fenomeni migratori rappresentano, a livello mondiale, un fenomeno strutturale e non un’emergenza transitoria». Il linguaggio televisivo ci ha fin troppo assuefatti ad una retorica discriminatoria. Ci si è dimenticati, a poco a poco, che noi siamo il frutto dei nostri incontri, dei nostri spostamenti, il risultato del nostro tendere verso ciò che è altro da noi.

Nel mondo mediatico, spesso dipinto a colpi di esclusione, diventa centrale la domanda: che ne è del migrante? E soprattutto: chi è? Lo si vede come il nemico, il diverso, l’estraneo, colui che è da escludere e dimenticare. Se è vero che la parola clandestino deriva da clam, cioè da "colui che è nascosto", ben si spiega quella malsana mossa pubblica che spesso riduce il migrante a un potenziale clandestino: lo si tiene lontano, nascondendo la sua figura grazie ad efficaci politiche espulsive. Purtroppo, anche quando sappiamo che non è così. Ma altrettanto rischiosa e problematica è la posizione di chi, per legittimarne la presenza, descrive il migrante come una risorsa economica, che aspetta solo di essere sfruttata.

Un modo differente, ma comunque complice, per evitare il riconoscimento della persona e alleggerirsi dalla responsabilità di conoscere la sua storia. Infatti, spesso e volentieri, ci troviamo di fronte a padri in cerca di lavoro per mantenere la propria famiglia, giovani ragazzi che si aspettano un orizzonte più nitido, bambini e bambine che cuciono le pagelle nei loro abiti per dimostrare a tutti di avere buoni voti e sogni concreti nelle tasche. Insomma esseri umani in cerca di un cambiamento, di una possibilità differente, di un’opportunità che non riescono a cogliere nella terra di origine; persone, anzitutto, che, come continua il documento del Sinodo, «sognano un futuro migliore e desiderano di creare le condizioni perché si realizzi». Non è forse questo il diritto che ciascuno vuol far valere su di sé?

Eppure, se un giovane libanese decide di imbattersi in una traversata in cerca di lavoro e istruzione viene prontamente bollato come un approfittatore; mentre, se un giovane benestante italiano decide di trasferirsi in un differente stato, magari in cerca di migliori opportunità di studio, viene benevolmente salutato dalla culla della società, che non perde tempo a rimpiangerlo come un cervello in fuga. È questo lo scenario paradossale in cui spostarsi sembra un’opportunità privilegiata e migrare un diritto riconosciuto a pochi.

In questo sfondo, dovremmo far nostra una vecchia lezione di Kant che, nel suo celebre scritto Per la pace perpetua, dedica la terza sezione al diritto di ospitalità. Non solo: se è vero che, come afferma le parole del sinodo, «i migranti sono un paradigma capace di illuminare il nostro tempo e in particolare la condizione giovanile», i tre diritti che Kant ci presenta possono essere utili per accendere questa luce di comprensione. Il filosofo tedesco già parlava di un diritto all’ospitalità – ovvero del diritto a non essere trattato ostilmente quando si arriva in un suolo estraneo – seguito da un diritto di visita – proprio di chi vuol diventare parte attiva della società e contribuire al bene comune – e di un diritto ad abitare la superficie terreste, che essendo tonda non accetta la spigolosità dei modelli esclusivi.

Sembrano idee lontane, stipate in un polveroso sgabuzzino di campagna, che nessuno aprirà mai più. Ma il coraggio, unito alla volontà di saper ben vivere il nostro tempo, dovrebbe spingerci a ricercare l’eco di quelle parole nelle azioni quotidiane e nei pensieri che dettano la nostra opinione politica. Sia per evitare un claustrofobico ripiegamento su noi stessi, sia per promuovere quella cultura del riconoscimento nelle «storie di incontro tra persone e tra culture». Come afferma Donatella di Cesare, che alla figura del migrante ha dedicato, e continua a dedicare, molti studi, «abbiamo bisogno di una politica che non parli più di tolleranza, ma sappia invece agire nel segno dell’accoglienza» (D. Di Cesare, Crimini contro l’ospitalità. Vita e violenza nei centri per stranieri, p. 102).

Forse, anche così si può evitare che nella comunità il diritto a migrare susciti, come afferma il documento del Sinodo, «allarme e paure, spesso fomentate e sfruttate a fini politici». Per questo aspetto, e per tutti i motivi che lo accompagnano, migrare rappresenta anche un atto politico: non solo perché qualcuno decide di spostarsi nello spazio, ma soprattutto perché c’è qualcuno che prova a cambiare idea. Siamo tutti disposti a farlo?

 

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ultimo aggiornamento 12 novembre, 2019