la parola di Papa Francesco

LETTERA APOSTOLICA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

nel IV Centenario della morte di San Francesco di Sales (estratto)

TOTUM AMORIS EST

«Tutto appartiene all’amore». [1] In queste sue parole possiamo raccogliere l’eredità spirituale lasciata da San Francesco di Sales, che morì quattro secoli fa, il 28 dicembre 1622, a Lione. Aveva poco più di cinquant’anni ed era vescovo e principe "esule" di Ginevra da un ventennio. A Lione era giunto in seguito alla sua ultima incombenza diplomatica. Il duca di Savoia gli aveva chiesto di accompagnare ad Avignone il Cardinale Maurizio di Savoia. Insieme avrebbero reso omaggio al giovane re Luigi XIII, di ritorno verso Parigi, risalendo la valle del Rodano, a seguito di una vittoriosa campagna militare nel sud della Francia. Stanco e malandato di salute, Francesco si era messo in viaggio per puro spirito di servizio. «Se non fosse grandemente utile al loro servizio che io faccia questo viaggio, avrei certamente molte buone e solide ragioni per esimermene; però, se si tratta del loro servizio, vivo o morto, non mi tirerò indietro, ma andrò o mi farò trascinare». [2] Era questo il suo temperamento. Giunto, infine, a Lione, prese alloggio presso il monastero delle Visitandine, nella casa del giardiniere, per non recare troppo disturbo e insieme essere più libero di incontrare chiunque lo desiderasse.

Ormai da tempo assai poco impressionato dalle «instabili grandezze della corte», [3] aveva consumato anche i suoi ultimi giorni svolgendo il ministero di pastore in un susseguirsi di appuntamenti: confessioni, conversazioni, conferenze, prediche, e le ultime, immancabili lettere di amicizia spirituale. La ragione profonda di questo stile di vita pieno di Dio gli si era fatta sempre più chiara nel tempo, ed egli l’aveva formulata con semplicità ed esattezza nel suo celebre Trattato dell’amore di Dio: «Se l’uomo pensa con un po’ di attenzione alla divinità, immediatamente sente una qual dolce emozione al cuore, il che prova che Dio è il Dio del cuore umano». [4] È la sintesi del suo pensiero. L’esperienza di Dio è un’evidenza del cuore umano. Essa non è una costruzione mentale, piuttosto è un riconoscimento pieno di stupore e di gratitudine, conseguente alla manifestazione di Dio. È nel cuore e attraverso il cuore che si compie quel sottile e intenso processo unitario in virtù del quale l’uomo riconosce Dio e, insieme, sé stesso, la propria origine e profondità, il proprio compimento, nella chiamata all’amore. Egli scopre che la fede non è un moto cieco, ma anzitutto un atteggiamento del cuore. Tramite essa l’uomo si affida a una verità che appare alla coscienza come una "dolce emozione", capace di suscitare un corrispondente e irrinunciabile ben-volere per ogni realtà creata, come lui amava dire.

In questa luce si comprende come per San Francesco di Sales non ci fosse posto migliore per trovare Dio e aiutare a cercarlo che nel cuore di ogni donna e uomo del suo tempo. Lo aveva imparato osservando con fine attenzione sé stesso, fin nella sua prima giovinezza, e scrutando il cuore umano.

Col senso intimo di una quotidianità abitata da Dio, aveva lasciato nell’ultimo incontro di quei giorni di Lione, alle sue Visitandine, l’espressione con la quale in seguito avrebbe voluto fosse sigillata in loro la sua memoria: «Ho riassunto tutto in queste due parole quando vi ho detto di  non rifiutare nulla, né desiderare nulla; non ho altro da dirvi». [5] Non era, tuttavia, un esercizio di puro volontarismo, «una volontà senza umil­t­à», [6] quella sottile tentazione del cammino verso la santità che la confonde con la giustificazione mediante le proprie forze, con l’adorazione della volontà umana e della propria capacità, «che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore». [7] Tanto meno si trattava di un puro quietismo, un abbandono passivo senza affetti a una dottrina senza carne e senza storia. [8] Piuttosto, nasceva dalla contemplazione della vita stessa del Figlio incarnato. Era il 26 dicembre, e il Santo parlava alle Suore nel vivo del mistero del Natale: «Vedete Gesù Bambino nella greppia? Riceve tutte le ingiurie del tempo, il freddo e tutto quello che il Padre permette che gli accada. Non rifiuta le piccole consolazioni che sua madre gli dà, e non è scritto che tenda mai le sue mani per avere il seno di sua Madre, ma lasciò tutto alla cura e alla preveggenza di lei; così non dobbiamo desiderare nulla né rifiutare nulla, sopportando tutto ciò che Dio ci invierà, il freddo e le ingiurie del tempo». [9] Commuove la sua attenzione nel riconoscere come indispensabile la cura di ciò che è umano. Alla scuola dell’Iwncarnazione aveva, dunque, imparato a leggere la storia e ad abitarla con fiducia.

Il criterio dell’amore

Attraverso l’esperienza aveva riconosciuto il desiderio come la radice di ogni vera vita spirituale e, al tempo stesso, quale luogo della sua contraffazione. Per questo, raccogliendo a piene mani dalla tradizione spirituale che lo aveva preceduto, aveva compreso l’importanza di mettere costantemente il desiderio alla prova, mediante un continuo esercizio di discernimento. Il criterio ultimo per la sua valutazione lo aveva ritrovato nell’amore. Sempre in quell’ultimo trattenimento a Lione, nella festa di S. Stefano, due giorni prima della sua morte aveva detto: «È l’amore che dà perfezione alle nostre opere. Vi dico ben di più. Ecco una persona che soffre il martirio per Dio con un’oncia di amore; ella merita molto, dato che non si potrebbe donare di più la propria vita; ma un’altra persona che non soffrirà che una graffiatura con due once d’amore avrà un merito molto maggiore, perché sono la carità e l’amore che danno valore alle nostre opere». [10]

Con sorprendente concretezza aveva continuato, illustrando il difficile rapporto tra contemplazione e azione: «Sapete o dovreste sapere che la contemplazione è in sé migliore dell’azione e della vita attiva; ma se nella vita attiva si trova maggiore unione [con Dio], allora essa è migliore. Se una sorella che è in cucina e tiene la padella sul fuoco ha maggior amore e carità di un’altra, il fuoco materiale non la frenerà, ma l’aiuterà a essere più gradita a Dio. Accade abbastanza sovente che si sia uniti a Dio nell’azione come nella solitudine; alla fine, torno sempre alla questione del dove si trovi maggior amore». [11] Ecco la domanda vera che supera di slancio ogni inutile rigidità o ripiegamento su sé stessi: chiedersi in ogni momento, in ogni scelta, in ogni circostanza della vita dove si trova il maggiore amore. Non a caso San Francesco di Sales è stato chiamato da San Giovanni Paolo II «Dottore dell’amore divino», [12] non solo per averne scritto un pode­ro­so Trattato, ma soprattutto perché ne è stato testimone. D’altra parte, i suoi scritti non si possono considerare come una teoria composta a tavolino, lontano dalle preoccupazioni dell’uomo comune. Il suo insegnamento, infatti, è nato da un attento ascolto dell’esperienza. Egli non ha fatto che trasformare in dottrina ciò che viveva e leggeva con acutezza, illuminata dallo Spirito, nella sua singolare e innovativa azione pastorale. Una sintesi di questo modo di procedere la si ritrova nella Prefazione allo stesso Trattato dell’amore di Dio: «Nella santa Chiesa tutto appartiene all’amore, vive nell’amore, si fa per amore e viene dall’amore». [13]

La carità fa tutto per i suoi figli

Tra il 1620 e il ‘21, dunque ormai sul limitare della sua vita, Francesco indirizzava a un sacerdote della sua Diocesi parole capaci di illuminare la sua visione dell’epoca. Lo incoraggiava ad assecondare il suo desiderio di dedicarsi alla scrittura di testi originali, capaci di intercettare i nuovi interrogativi, intuendone la necessità. «Vi devo dire che la conoscenza che vado acquisendo ogni giorno degli umori del mondo mi porta ad augurarmi appassionatamente che la divina Bontà ispiri qualcuno dei suoi servi a scrivere secondo il gusto di questo povero mondo». [21] La ragione di questo incoraggiamento la trovava nella propria visione del tempo: «Il mondo sta divenendo così delicato, che fra poco non si oserà più toccarlo, se non con guanti di velluto, né medicare le sue piaghe, se non con impiastri di cipolla; ma che importa, se gli uomini vengono guariti e, in definitiva, vengono salvati? La nostra regina, la carità, fa tutto per i suoi figli». [22] Non è un tratto scontato, tanto meno una resa finale di fronte a una sconfitta. Era, piuttosto, l’intuizione di un cambiamento in atto e dell’esigenza, tutta evangelica, di capire come poterlo abitare.

La vera devozione

Una seconda grande scelta cruciale è stata quella di aver messo a tema la questione della devozione. Anche in questo caso, come ai nostri giorni, il nuovo passaggio d’epoca aveva sollevato, in merito, non pochi interrogativi. In particolare, due aspetti chiedono di essere compresi anche oggi e rilanciati. Il primo riguarda l’idea stessa di devozione, il secondo, il suo carattere universale e popolare. Indicare, anzitutto, cosa si intenda per devozione, è la prima attenzione che troviamo all’inizio di Filotea: «È necessario, prima di tutto, che tu sappia che cos’è la virtù della devozione. Di vera ce n’è una sola, ma di false e vane ce ne sono tante; e se non sai distinguere la vera, puoi cadere in errore e perdere tempo correndo dietro a qualche devozione assurda e superstiziosa». [35]

Gustosa e sempre attuale è la descrizione di Francesco di Sales della falsa devozione, in cui non ci è difficile ritrovarci, non senza una efficace punta di sano umorismo: «Chi si consacra al digiuno, penserà di essere devoto perché non mangia, mentre ha il cuore pieno di rancore; e mentre non se la sente di bagnare la lingua nel vino e neppure nell’acqua, per amore della sobrietà, non avrà alcuno scrupolo nel tuffarla nel sangue del prossimo con la maldicenza e la calunnia. Un altro penserà di essere devoto perché biascica tutto il giorno una filza interminabile di preghiere; e non darà peso alle parole cattive, arroganti e ingiuriose che la sua lingua rifilerà, per il resto della giornata, a domestici e vicini. Qualche altro metterà mano volentieri al portafoglio per fare l’elemosina ai poveri, ma non riuscirà a cavare un briciolo di dolcezza dal cuore per perdonare i nemici; ci sarà poi l’altro che perdonerà i nemici, ma di pagare i debiti non gli passerà neanche per la testa; ci vorrà il tribunale». [36] Sono evidentemente vizi e fatiche di sempre, anche di oggi, per cui il Santo conclude: «Tutta questa brava gente, dall’opinione comune è considerata devota, ma non lo è per niente». [37]

La novità e la verità della devozione, invece, si trovano altrove, in una radice profondamente legata alla vita divina in noi. In tal modo «la vera e viva devozione […] esige l’amore di Dio, anzi non è altro che un vero amore di Dio; non un amore genericamente inteso». [38] Nella sua fervente immaginazione essa non è che, «a dirla in breve, una sorta di agilità e vivacità spirituale per mezzo della quale la carità agisce in noi o, se vogliamo, noi agiamo per mezzo suo, con prontezza e affetto». [39] Per questo essa non si pone accanto alla carità, ma è una sua manifestazione e, insieme, conduce ad essa. È come una fiamma rispetto al fuoco: ne ravviva l’intensità, senza mutarne la qualità. «In conclusione, si può dire che la carità e la devozione differiscono tra loro come il fuoco dalla fiamma; la carità è un fuoco spirituale, che quando brucia con una forte fiamma si chiama devozione: la devozione aggiunge al fuoco della carità solo la fiamma che rende la carità pronta, attiva e diligente, non soltanto nell’osservanza dei Comandamenti di Dio, ma anche nell’esercizio dei consigli e delle ispirazioni del cielo». [40] Una devozione così intesa non ha nulla di astratto. È, piuttosto, uno stile di vita, un modo di essere nel concreto dell’esistenza quotidiana. Essa raccoglie e interpreta le piccole cose di ogni giorno, il cibo e il vestito, il lavoro e lo svago, l’amore e la generazione, l’attenzione agli obblighi professionali; in sintesi, illumina la vocazione di ognuno.

L’estasi della vita

Tutto questo ha condotto il santo Vescovo a considerare la vita cristiana nella sua interezza come «l’estasi dell’azione e della vita». [46] Essa, però, non va confusa con una facile fuga o una ritirata intimistica, tanto meno con un’obbedienza triste e grigia. Sappiamo che questo pericolo è sempre presente nella vita di fede. Infatti «ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. […] Capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie». [47]

Permettere alla gioia di destarsi è proprio quanto Francesco di Sales esprime nel descrivere l’"estasi dell’azione e della vita". Grazie ad essa «non viviamo soltanto una vita civile, onesta e cristiana, ma una vita sovrumana, spirituale, devota ed estatica, ossia una vita che in ogni caso è fuori e al di sopra della nostra condizione naturale». [48] Ci troviamo qui nelle pagine centrali e più luminose del Trattato. L’estasi è l’eccesso felice della vita cristiana, lanciata oltre la mediocrità della mera osservanza: «Non rubare, non mentire, non commettere lussuria, pregare Dio, non giurare invano, amare e onorare il padre, non uccidere, è vivere secondo la ragione naturale dell’uomo; ma abbandonare tutti i nostri beni, amare la povertà, chiamarla e ritenerla una deliziosa padrona, considerare gli obbrobri, il disprezzo, le abiezioni, le persecuzioni, i martiri come felicità e beatitudini, mantenersi nei limiti di un’assoluta castità, e infine vivere nel mondo e in questa vita mortale contro tutte le opinioni e le massime del mondo e contro la corrente del fiume di questa vita, con abituale rassegnazione, rinuncia e abnegazione di noi stessi, non è vivere secondo la natura umana, ma al di sopra di essa; non è vivere in noi, ma fuori di noi e al di sopra di noi: e siccome nessuno può uscire in questo modo al di sopra di se stesso se non l’attira l’eterno Padre, ne consegue che tale modo di vivere deve essere un rapimento continuo e un’estasi perpetua d’azione e di operazione». [49]

È una vita che ha ritrovato le sorgenti della gioia, contro ogni suo inaridimento, contro la tentazione di ripiegarsi su di sé. In effetti, «il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita». [50]

Alla descrizione dell’"estasi dell’azione e della vita" San Francesco aggiunge, infine, due precisazioni importanti, anche per il nostro tempo. La prima riguarda un criterio efficace per il discernimento della verità di questo stesso stile di vita. La seconda, circa la sua sorgente profonda. Quanto al criterio di discernimento, egli afferma che, se da un lato tale estasi comporta un vero e proprio uscire da sé stessi, dall’altro questo non significa un abbandono della vita. È importante non dimenticarlo mai, per evitare pericolose deviazioni. In altre parole, chi presume di elevarsi verso Dio, ma non vive la carità per il prossimo, inganna sé stesso e gli altri.

Ritroviamo qui lo stesso criterio che egli applicava alla qualità della vera devozione. «Quando si incontra una persona che nell’orazione ha dei rapimenti per mezzo dei quali esce e sale al di sopra di se stessa fino a Dio, e tuttavia non ha estasi della vita, ossia non conduce una vita elevata e congiunta a Dio, […] soprattutto per mezzo di una continua carità, credimi, Teotimo, tutti i suoi rapimenti sono molto dubbi e pericolosi». Molto efficace è la sua conclusione: «Essere sopra di se stessi nell’orazione e al di sotto di se stessi nella vita e nell’azione, essere angelici nella meditazione e animali nella conversazione […] è un vero segno che tali rapimenti e tali estasi non sono che divertimenti e inganni dello spirito maligno». [51] È, in sostanza, quanto già Paolo ricordava ai Corinti nell’inno alla carità: «Se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» ( 1 Cor 13, 2-3).

Per San Francesco di Sales, dunque, la vita cristiana non è mai senza estasi e, tuttavia, l’estasi non è autentica senza la vita. Infatti, la vita senza l’estasi rischia di ridursi a un’obbedienza opaca, a un Vangelo che ha dimenticato la sua gioia. D’altro lato, l’estasi senza la vita si espone facilmente all’illusione e all’inganno del Maligno. Le grandi polarità della vita cristiana non si possono risolvere l’una nell’altra. Semmai l’una mantiene l’altra nella sua autenticità. In tal modo, la verità non è senza giustizia, il compiacimento senza responsabilità, la spontaneità senza legge; e viceversa.

È per questo che, con un’immagine bellissima, San Francesco di Sales descrive il Calvario come «il monte degli innamorati». [54] Lì, e solo lì, si comprende che «non è possibile avere la vita senza l’amore, né l’amore senza la morte del Redentore: ma fuori di là, tutto è o morte eterna o amore eterno, e tutta la sapienza cristiana consiste nel saper scegliere bene». [55] Così egli può chiudere il suo Trattato rinviando alla conclusione di un discorso di Sant’Agostino sulla carità: «Che cosa vi è di più fedele della carità? Fedele non all’effimero ma all’eterno. Essa sopporta tutto nella presente vita, per la ragione che tutto crede sulla futura vita: sopporta tutte le cose che qui ci sono date da sopportare, perché spera tutto quello che le viene promesso là. Giustamente non ha mai fine. Perciò praticate la carità e portate, meditandola santamente, frutti di giustizia. E se troverete voi, a sua lode, altre cose che io non vi abbia detto ora, lo si veda nel vostro modo di vivere». [56]

È questo ciò che traspare dalla vita del santo Vescovo di Annecy, e che è consegnato, ancora una volta, a ciascuno di noi. La ricorrenza del quarto centenario della sua nascita al cielo ci aiuti a farne devota memoria; e per sua intercessione il Signore effonda abbondanti i doni dello Spirito sul cammino del santo Popolo fedele di Dio.

Roma, San Giovanni in Laterano, 28 dicembre 2022.


[1] S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, Préface: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 336.

[2] Id, Lett. 2103: A Monsieur Sylvestre de Saluces de la Mente, Abbé d’Hautecombe (3 nov. 1622), in Œuvres de Saint François de Sales, XXVI, Annecy 1932, 490-491.

[3] Id., Lett. 1961: À une dame (19 dic. 1622), in Œuvres de Saint François de Sales, XX ( Lettres, X: 1621-1622), Annecy 1918, 395.

[4] Id., Traité de l’amour de Dieu, I, 15: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 395.

[5] Id., Entretiens spirituels, Dernier entretien [21]: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 1319.

[6] Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 49: AAS 110 (2018), 1124.

[7Ibid., 57: AAS 110 (2018), 1127.

[8] Cfr ibid., 37-39: AAS 110 (2018), 1121-1122.

[9] S. Francesco di Sales, Entretiens spirituels, Dernier entretien [21]: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 1319.

[10Ibid., 1308.

[11Ibid.

[12Lettera a Mons. Yves Boivineau, Vescovo di Annecy, in occasione del 400° anniversario dell’ordinazione episcopale di san Francesco di Sales, 23 novembre 2002, 3: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXV/2 (2002), 767.

[13] S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, Préface: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 336.

[21] S. Francesco di Sales, Lett. 1869: À M. Pierre Jay (1620 o 1621), in Œuvres de Saint François de Sales, XX ( Lettres, X: 1621-1622), Annecy 1918, 219.

[22Ibid.

[35] S. Francesco di Sales, Introduction à la vie dévote, I, 1: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 31.

[36Ibid.: 31-32.

[37Ibid.: 32.

[38Ibid.

[39Ibid.

[40Ibid.: 33.

[46] S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, VII, 6: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 682.

[47] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 6: AAS 105 (2013), 1021-1022.

[48] S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, VII, 6: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 682-683.

[49Ibid.: 683.

[50] Esort. ap. Evangelii gaudium, 2: AAS 105 (2013), 1019-1020.

[51] S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, VII, 7: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 685.

[54Ibid., XII, 13: 971.

[55Ibid.

[56Discorsi, 350, 3: PL 39, 1535.

 

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ultimo aggiornamento 09 febbraio, 2023