PROFILI DI MADRE SPERANZA – 7

P. Aurelio Pérez fam

Un Dio che perdona, dimentica, non tiene in conto

Edizioni Amore Misericordioso

La intuizione semplice e immediata,

la convinzione e il messaggio di

Madre Speranza

Un Dio che perdona, dimentica, non tiene in conto

Queste parole sono prese da un detto "tipico" della Madre Speranza. Una di quelle frasi brevi che condensano in poche parole la profondità e l'essenzialità di un messaggio. In questo caso il messaggio è quello evangelico che manifesta l'atteggiamento del cuore di Dio nei confronti di noi peccatori.

In M. Speranza questa convinzione di un Dio che perdona, dimentica, non tiene in conto, ritorna parecchie volte nei suoi scritti, e costituisce l'intuizione semplice e immediata con cui lei ha colto, attraverso un'esperienza particolarmente intensa, l'atteggiamento di Dio, ricco di misericordia, incredibilmente fedele al suo Amore.

Questa relazione, pertanto, è semplicemente un tentativo di leggere nella vita e negli scritti di Madre Speranza l'intensità e la particolarità di una esperienza che diventa messaggio, e che, in fondo, non è altro che la Buona Notizia evangelica, verità testimoniata dalla Parola di Dio e verità che getta una profonda luce sulla situazione esistenziale umana. La base di questa relazione, pertanto, è costituita fondamentalmente, da testi scritti o registrati dalla viva voce di M. Speranza.

 

Alla scuola della misericordia divina

Faticheremo invano se cercassimo negli scritti di M. Speranza l'elaborazione di un pensiero o di un messaggio teologico-spirituale a proposito del perdono o della misericordia divina. In lei si è data, fondamentalmente, un'esperienza. Leggiamo nella prima pagina del diario che lei scrive per ordine di P. Antonio Naval, suo padre spirituale:

«Oggi, 5 novembre del 1927, mi sono distratta, cioè, ho trascorso parte della notte fuori di me e molto unita al Buon Gesù e Lui mi diceva che io devo darmi da fare perché gli uomini lo conoscano non come Padre offeso dall'ingratitudine dei suoi figli, ma come un Padre pieno di bontà che cerca in tutti i modi di poter confortare, aiutare e far felici i suoi figli, e che li segue e li cerca con amore instancabile, quasi che non potesse essere felice senza di loro.

Quanto mi ha impressionato questo fatto, Padre mio!».

Certamente M. Speranza, già religiosa quando scrive queste parole, non sentiva parlare per la prima volta della paternità e bontà di Dio. La novità, ora è, l'impressione profonda del suo spirito che le fa cogliere quella verità con una intensità assolutamente nuova. Credo che sono da sottolineare i tre elementi che incontriamo in questa pagina del suo diario:

1) L'esperienza dell'amore di Dio, che è grazia, dono dall'alto.

2) La sua impressione soggettiva, che è stupore, emozione, meraviglia di fronte a questo amore.

3) L'indicazione precisa che le viene data di trasformare questa esperienza profonda in un messaggio da comunicare.

Siamo di fronte alla dinamica che ritroviamo costantemente nella Storia della Salvezza: il Signore si manifesta a una persona determinata e la coinvolge totalmente in questa rivelazione: coinvolge, cioè, non solo la sua dimensione intellettiva per capire il messaggio, ma anche la sua emotività, la sua sensibilità, la sua volontà, tutto il suo essere. E, dopo averla coinvolta, le affida la missione.

Il testo citato è del 5 novembre del 1927. Parecchi anni più tardi troviamo in uno dei suoi dialoghi registrati, quanto stia a cuore a M. Speranza che la gente comprenda che il vero volto di Dio è quello di

«un Padre che non tiene in conto, perdona e dimentica, che è un Padre, non un giudice severo, che è un Padre santo, saggio e bello, che sta aspettando il figlio prodigo per abbracciarlo».

Tra queste due pagine si colloca il periodo centrale della sua vita, durante il quale la particolare esperienza iniziale ha dovuto subire l'impatto duro della prova, della incomprensione, della calunnia, in una parola, della "persecuzione", come lei stessa la definisce più volte. In mezzo a queste vicende il messaggio che lei sentiva di dover comunicare, è diventato non solo un annuncio, ma un'incarnazione vitale. Alla scuola dell'Amore Misericordioso, anche lei ha imparato la misericordia e il perdono dalle cose sofferte.

 

Questo difficile perdono

Quando parliamo di perdono, e molto di più quando siamo chiamati a darlo o a riceverlo, sperimentiamo quasi sempre una sorta di imbarazzo, un blocco interiore della nostra logica e, prima ancora, della nostra sensibilità. Di fatto, noi reagiamo alle circostanze negative della vita con un primo moto di difesa, che è il meccanismo istintivo della nostra autopreservazione. Un organismo vivente quando riceve un colpo o una ferita reagisce immediatamente e si difende. E' una legge naturale, scritta nel livello primario del nostro essere, quello delle azioni e reazioni istintive. Alla sensibilità e all'istinto si aggiunge, a un livello superiore, la razionalità, che in questo caso non fa che giustificare la condotta di quel livello primario. La ragione, la logica ci dice che si deve resistere a ogni azione che costituisce una invasione e un pericolo per la persona o per la società. E si deve punire chi attenta in questo modo. Questa è la base razionale della giustizia organizzata che regola la convivenza umana.

Parlare di perdono e giustificare il perdono, significa l'istinto e anche, in certo modo, la logica fredda della pura razionalità che sostiene una determinata concezione della giustizia.

A volte si dice che il perdono non si giustifica né umanamente né giuridicamente. Quest'affermazione suppone la difficoltà accennata che il perdono trova nella sensibilità e nella razionalità dell'uomo. Vorrei citare, a questo proposito, un'altra pagina della vita di M. Speranza dove si riflette questa difficoltà nel capire e vivere il perdono come lo intende e vive Dio stesso. Il testo è una trascrizione di un dialogo tra la Madre Speranza e le suore, registrato e sua insaputa:

«Ricordo, figlie mie, che stando a Roma, nei primi tempi della fondazione, c'era una suora che mi dava un po' di grattacapi... la vedevo come una farfalla girando di qua e di là e pregavo molto il Signore per lei. Pregavo sì, ma a volte mi veniva meno la pazienza - non avevo capito che dovevo usare nei suoi confronti più pazienza che rigore -. Un giorno, ci trovavamo nella casa vecchia, le suore stavano nell'orto dove sorge attualmente la casa generalizia. Quel giorno ero nera, perché quella figlia me l'aveva combinata grossa. Stando in casa mi affacciai a una finestra che dava sull'orto e, vedendo quella suora mi dicevo: "Se potessi stare lì... ma appena viene le do una penitenza che non se la scorda finché campa!". Ero immersa in questi pensieri, quando passò un uomo con un carro carico di frutta, tirato da un cavallo. Mentre passava davanti alla finestra dove io mi trovavo, il cavallo inciampò e cadde, spargendo per terra tutta quella frutta. Quell'uomo, senza badare alla frutta perduta, si apprestò a liberare il cavallo, lo aiutò ad alzarsi da terra e, con gran delicatezza lo accarezzava e gli puliva le ferite perché la polvere non provocasse un'infezione.

Io contemplavo la scena mentre aspettavo quella figlia per darle una bella penitenza; ero talmente assorta in quest'idea che non pensavo alla lezione di quella caduta del cavallo. In quel momento ebbi una distrazione e dissi: «Signore perché debbo vedere la scena di questo cavallo?". Dice: "Non ti rendi conto?" - "No, perché? Cosa c'entro io con questo cavallo?". "Sì che c'entri con questo cavallo, perché tu stai aspettando una figlia per farle questo e quello, dato che sta facendo delle cose che non ti sembrano giuste; ed è una creatura, un'anima a me consacrata, e tu, appena viene, gliene dirai tante e le darai una penitenza che non scorderà facilmente... Che ha fatto quell'uomo con il suo cavallo? Avrai notato come si è preoccupato di aiutarlo ad alzarsi e gli ha pulito bene le ferite perché la polvere non le infettasse, senza badare alla perdita economica provocata dalla caduta".

...Quando arrivò quella figlia l'abbracciai perché, francamente, la lezione fu così grande che non ero capace di dirle niente».

In questo episodio appare chiarissima la difficoltà che è di ogni uomo, una difficoltà che potremmo definire quasi strutturale del nostro essere, difficoltà legate alla nostra psicologia e al nostro modo di reagire di fronte alle circostanze. M. Speranza, come ognuno di noi, ha fatto esperienza di questa difficoltà, e ha dovuto imparare quanto distano le reazioni del cuore di Dio dalle reazioni del cuore umano. Solo la misericordia divina con una pedagogia unica e incredibilmente paziente, è capace di ricostruire il tessuto interiore di un cuore umano segnato da quella legge del taglione che, da secoli, gli uomini chiamano giustizia. Questo è il cuore nuovo che l'amore misericordioso di Dio rende possibile.

Quando, dunque, sentiamo dire che umanamente e giuridicamente il perdono non si giustifica, dovremmo chiederci se la giustificazione non sia da trovarsi nel bene ultimo che ne deriva per l'uomo e per la convivenza degli uomini. Tutto dipende dal modo di concepire l'uomo e i rapporti tra gli uomini. Non ci meravigliamo, ad esempio che, data la sua concezione antropologica, F. Nieztzsche affermi:

«L'impotenza che non può reagire si trasforma in bontà. Il "non posso vendicarmi" diviene un "non voglio vendicarmi", e si parla addirittura di amare i nemici».

Secondo questa antropologia, il perdono non solo non ha senso, ma è, addirittura, individualmente e socialmente pericoloso, perché deformerebbe la grandezza dell'essere umano, riducendolo ad essere uno schiavo pauroso.

Ben diversa è la concezione evangelica dell'uomo e ben diversa l'intenzione con cui Gesù, superando la "legge del taglione", afferma perentoriamente: «E' stato detto dagli antichi: "Occhio per occhio, dente per dente". Ma io vi dico: non resistete al male» (Mt. 5, 38-39). Di questa visione dell'uomo, del volto morale di un uomo nuovo, si fa eco Giovanni Paolo II quando dice nella "Dives in Misericordia" che guida i passi del nostro Convegno:

«Il mondo degli uomini potrà diventare "sempre più umano", solo quando in tutti i rapporti reciproci, che plasmano il suo volto morale, introdurremo il momento del perdono, così essenziale per il Vangelo. Il perdono attesta che nel mondo è presente l'amore più potente del peccato (...). Un mondo, da cui si eliminasse il perdono sarebbe soltanto un mondo di giustizia fredda e irrispettosa, nel nome della quale ognuno rivendicherebbe i propri diritti nei confronti dell'altro; così gli egoismi di vario genere sonnecchianti nell'uomo, potrebbero trasformare la convivenza umana in un sistema di oppressione dei più deboli da parte dei più forti, oppure un'arena di permanente lotta degli uni contro gli altri».

 

Un Dio che Perdona

La difficoltà istintiva che sorge in noi al considerare il perdono, può nascere dal fatto che pensiamo immediatamente alla nostra incapacità di perdonare, alle ferite quasi irrimarginabili che le offese producono in noi, al rancore che ci portiamo appresso come una forza che sembra superare la nostra volontà e i nostri desideri migliori. Poche volte la nostra attenzione va, anzitutto, all'esperienza prima che è quella di essere perdonati, riconciliati, rifatti dalla misericordia divina. E questo in prima persona e continuamente. Non a caso Gesù nel Vangelo, stigmatizza questa "dimenticanza" nostra nella parabola del servo senza misericordia (cf Mt. 18,23-25), come condanna l'atteggiamento analogo di chi vede la pagliuzza altrui e non scorge la trave propria (cf Mt. 7,1-5).

Alla radice della nostra incomprensione del perdono e della nostra incapacità di perdonare, troviamo una mancata conoscenza di noi stessi, una ignoranza della nostra storia personale e del nostro vero volto. E' come per l'amore, dato che il perdono è manifestazione dell'amore di Dio: si è incapaci di amare perché non si sa di essere amati da sempre e continuamente.

 

Il perdono che scusa

Se ci fermiamo a considerare le caratteristiche del perdono di Dio, una delle più impressionanti è la sua infinita capacità di scusarci, ammettendo la nostra incoscienza e i tanti fattori che concorrono nel nostro peccato. Scrive M. Speranza:

«Egli (il Signore) addirittura pone a favore nostro la scusa della nostra ignoranza. Quanto è buono! E' proprio vero... che la passione ci rende ciechi. L'interesse ci offusca e le ambizioni ci stordiscono per non vedere quando pecchiamo e che l'amore di noi stessi ci fa dimenticare l'amore che dobbiamo al nostro Dio, e l'orgoglio ci fa alzare contro il nostro creatore».

La comune esperienza e la più elementare psicologia ci dice che è proprio di chi ama saper trovare attenuanti per l'errore della persona amata, così come il non-amore rinfaccia anche l'ombra di un difetto. E questo nasce dal fatto che quell'errore provoca sofferenza in chi ama, sofferenza non tanto per lo sbaglio in sé, quanto per il male che arreca alla persona amata. Per questo l'amante sempre scuserà la persona amata. La logica, ancora una volta, è quella dell'amore.

Chi si sente amato in questo modo da Dio e rifatto nuovo da un perdono che è continuo gesto creatore e redentore, va entrando progressivamente nella dinamica di questo amore che non si stanca di capire, di scusare l'intenzione quando non si può giustificare l'azione. Ho accennato all'inizio che M. Speranza imparò il perdono alla scuola della misericordia divina e dalle prove sofferte. Abbondano nei suoi scritti le testimonianze in proposito. Ne cito solo alcune, prese dagli scritti di alcuni dei momenti più critici della sua vita:

«Molte volte vi ho detto che dobbiamo perdonare coloro che sono divenuti nemici della nostra amata congregazione e di questa vostra madre, vi dico che non solo dobbiamo scusarli, ma amarli e scusarli, perché i poveretti non si rendono conto di ciò che dicono o fanno. Sono ciechi, e, tenete presente, figlie mie, che per comportarci in questo modo verso i nostri nemici è necessario che i nostri cuori siano dominati dall'amore, dalla presenza di Gesù e dal desiderio di piacergli in tutto».

In un altro momento scrive:

«Se si trova tra le mie figlie qualcuna turbata o accecata, non s'inquieti né pensi che questa madre ha qualcosa contro di lei, il Signore lo ha permesso per sofferenza loro e mia... Che Egli mi conceda la gioia di non perdere alcun'altra figlia e quelle che oggi considero perdute per me, abbia la gioia di poterle rivedere e dare a tutte l'abbraccio di madre che tanto desidera questa povera creatura».

Sappiamo per la testimonianza diretta delle persone vissute con lei fin dai primi tempi, che M. Speranza faceva tutto per nascondere la sofferenza causata da queste prove; e ciò che maggiormente la preoccupava era che si venisse meno alla carità. In mezzo a queste vicende è commovente anche una sua preghiera, dove fa suoi gli stessi sentimenti che attribuisce al cuore di Dio:

«Io ti prego, Padre di Amore e misericordia: dimentica, non tenere in conto, perdona e tieni presente che questi poveretti agiscono così perché sono ciechi. Dimentica, Gesù mio, il male che vogliono farmi e pensa al bene che hanno fatto alla mia povera anima: ti prego, Gesù mio, che li perdoni e abbia compassione di tutti, me lo concederai, Gesù mio? Io non desidero altro che il perdono per tutti quelli che ti hanno offeso con questa persecuzione».

In questo atteggiamento viene spontaneo riconoscere il riflesso della preghiera di Gesù sulla croce: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!» (Lc 23,34). E, insieme alla preghiera, in M. Speranza troviamo più volte l'offerta del proprio dolore, anche qui sotto forma di supplica:

«Ti supplico, anche, Gesù mio, che perdoni tutti quelli che ci hanno fatto del male o hanno preteso farlo, e ricevi a loro favore il mio dolore e le sofferenze patite per amore tuo in questi tre anni che ho vissuto separata dalle mie care figlie».

Il perdono che fa una festa incredibile

E' un'altra caratteristica del perdono di Dio. Forse quella che più colpisce la nostra sensibilità, e la più paradossale per quel metro di giudizio con cui valutiamo le persone e le circostanze della vita. Il padre dei due figli organizza una festa incredibile che, né il figlio scappato di casa, né quello rimasto si sarebbero mai sognati. Gesù sottolinea questo rapporto tra il pentimento, il perdono e la "festa del cielo": il Padre fa festa come il pastore che si prende sulle spalle la pecora perduta e si rallegra con gli amici e i vicini (cf Lc 15, 4-7); come la donna che gioisce con le amiche e le vicine per la moneta ritrovata (cf Lc 15, 8-10; come il Padre che fa festa per il figlio ritrovato (cf Lc 15,20ss).

Gesù stesso è il riflesso fedele, con il suo atteggiamento, di questa gioia del Padre: accoglie i peccatori e mangia con loro, partecipa al banchetto-festa di Levi con «molti pubblicani e peccatori», ed è in questa occasione che Gesù invita quelli che si scandalizzano del suo atteggiamento a «imparare cosa significa: misericordia io voglio» (cf Mt 9, 9-13).

Anche questo aspetto evangelico del perdono, il più commovente e il più paradossale per i nostri criteri di valutazione, lo ritroviamo fortemente sottolineato nell'esperienza che M. Speranza ha fatto del perdono di Dio. Parlando alle suore qui in Collevalenza nel 1966 raccontava di alcuni massoni che erano venuti e avevano trovato la fede, si erano convertiti. L'esperienza che lei ha avuto di questa gioia incredibile e inesprimibile del Padre quando un figlio lontano ritorna, la definisce come un "perdere la testa" da parte di Dio. Le sue parole testuali, trascritte dai suddetti dialoghi registrati, sono queste:

«Questi qui io li chiamo "ladri" del cielo, perché non sono mai stati vicini a Dio, non si sono mai sacrificati per Lui, non hanno fatto mai niente per amore suo e poi arriva uno di questi momenti e... Io l'ho visto una volta, sembra che il Signore perde la testa quando in questi momenti arriva a Lui una di queste anime.

Ricordo che era un povero anziano di 76 anni, massone - ancora non c'era il Santuario - ...Ebbene, questo povero vecchio era molto indurito, non c'era modo che si convertisse, ma finalmente giunse il momento in cui, commosso, ebbe un attimo di generosità e il Signore sembrava aver perduto la testa, e gli diede il paradiso». Forse quest'espressione "perdere la testa" ci avvicina, con un linguaggio necessariamente antropomorfico, al cuore del Padre che perdona. E’ un impazzire di gioia che non riusciamo a capire né esprimere se non nebulosamente. Il perdono autentico fa valere le "ragioni del cuore" sulle fredde ragioni del giudizio. Solo "perdendo la testa" il cuore può impazzire di gioia.

M. Speranza esprime anche, nel dialogo citato, quella difficoltà del fratello maggiore della parabola, difficoltà che è dentro ciascuno di noi, portati per istinto a riconoscerci tra i 99 giusti più che nella pecora perduta.

«Veramente davanti a questo fatto ho sentito un po' d'invidia e gli ho detto: "Ma guarda un po', Signore, questo povero vecchio che non ti ha dato altro che dispiaceri, per un attimo di generosità gli hai aperto il paradiso e io che ho lasciato tutto, che cerco di fare sempre ciò che più ti piace, che mi sacrifico per amor tuo... ancora non ci arrivo».

"Questa è gelosia", conclude candidamente e umilmente M. Speranza, mostrandoci l'abisso che sempre esiste tra il nostro modo di vedere di Dio e il nostro, tra il suo cuore e il nostro.

Viene spontaneo chiederci il perché di questa felicità incredibile, di questo impazzire di gioia. E' la domanda del fratello maggiore, che all'udire la musica e le danze, chiede il perché di quella festa, e quando gli viene detto si adira e non vuole entrare. Il motivo fondamentale della festa glielo rivela il Padre: «Bisognava far festa e rallegrarsi perché questo fratello tuo era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato»(Lc 15,32). Ma in questo motivo di fondo ne potremmo leggere anche un altro: la festa e la gioia del perdono consente a Dio di manifestare la pienezza della sua paternità, e all'uomo di scoprire la sua vera dimensione di figlio, così prezioso agli occhi del Padre che il suo ritorno ben vale una grande festa.

Vorrei citare, a questo proposito, un testo di Amedeo Cencini che, in una serie di articoli sulla rivista "Testimoni", ha approfondito la realtà del perdono dal punto di vista psicologico:

«Il figliol prodigo ha "sofferto" la sua trasgressione e ne ha compreso la gravità solo dopo aver toccato con mano la straordinaria bontà del Padre. Prima il suo dispiacere era piuttosto soggettivo e interessato, un rimpianto di quel che aveva perso per colpa sua ("i servi hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame"); poi c'è la scoperta incredibile di un padre mai prima d'allora conosciuto: un padre che l'aspetta, lo scorge da lontano, si commuove ed è così felice che prepara una festa con banchetto.

E' solo a questo punto che il giovane si scopre figlio e può cogliere in tutta la sua gravità il male commesso; fare un torto a un padre così è cosa grave, è impossibile non provare il dolore di averlo offeso. Ma è stata la gioia paterna a far emergere il figlio e il peccatore».

 

Un Dio che dimentica

Una delle cose che pesano enormemente sulla nostra vita sono i ricordi e le esperienze negative del passato. Non mi riferisco a quei traumi che influiscono negativamente sul presente e che possono diventare fonte di angoscia con caratteristiche patologiche: questo campo appartiene alla maturazione cosciente della persona che deve integrare serenamente il suo passato, e tutt'al più a una terapia di tipo psicologico o psichiatrico.

Mi riferisco, invece a quell'ombra negativa che il male e il peccato personale gettano sulla nostra vita, che è una dimensione morale e pertanto radicata nel profondo del nostro spirito. Indubbiamente questo male che "nasce dal cuore", come dice Gesù, contamina tutto l'uomo e provoca delle conseguenze anche di tipo psicologico e sociale.

La guarigione profonda che solo il perdono di Dio può operare in noi, ha la capacità non solo di cancellare, distruggere il male, ma anche di eliminare le conseguenze negative del suo ricordo. Quando M. Speranza insiste nell'affermare che Dio dimentica, penso che sta sottolineando questa dimensione intimamente liberatrice del perdono di Dio. All'uomo schiacciato dal ricordo del suo male, tormentato dall'ombra del suo peccato, viene rivelata una misericordia che gli ridà la pace del cuore.

Può capitare che il ricordo del peccato divenga per l'uomo una autopunizione che si trascina appresso come una catena, e divenga fonte di disperazione. E' una situazione tristissima perché chiude la porta alla fiducia e alla speranza. Che l'uomo, in tale stato, capisca che l'amore di Dio è più grande del suo peccato, che la misericordia di Dio può eliminare quel peso tremendo, dimenticando addirittura: questa è la liberazione e la pace.

La vera dimenticanza non è tanto un vuoto mentale quanto un'accettazione serena e matura della realtà che abbiamo vissuto, una integrazione di tutto il bagaglio della nostra esperienza positiva e negativa. E' essere convinti che Dio non permetterebbe il male se non fosse capace di tirarci fuori del bene.

Che Dio dimentichi il nostro male non è tanto un beneficio per Lui, dato che il peccato né gli aggiunge né gli toglie niente; è piuttosto un bene per noi: il "dimenticare" di Dio è la nostra pace, in quanto che ci libera dalle conseguenze negative del ricordo e del rimorso. Si potrebbe obiettare che Dio dimentica, ma noi non possiamo dimenticare. Di fatto, anche i santi hanno pianto per tutta la vita i loro peccati. E tuttavia dobbiamo dire che questa è precisamente la sofferenza dell'amore. Quando S. Agostino di cui oggi celebriamo la memoria, dice nelle sue "Confessioni": «Tardi ti ho amato, bellezza sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato», non sta dicendo una parola disperata; è al contrario, un canto di amore, una confessione di quella misericordia che ha potuto dimenticare il suo passato e fare di lui una realtà completamente nuova:

«Tu stavi dentro di me e io fuori, e fuori di me ti cercavo; e deforme com'ero, mi precipitavo su queste cose belle che Tu hai creato. Tu eri con me, ma io non ero con Te. Mi trattenevano lontano da Te quelle cose che, se non stessero in Te, non esisterebbero. Mi hai chiamato e hai gridato e hai vinto la mia sordità; hai fatto splendere il bagliore della tua luce e hai guarito la mia cecità, hai esalato il tuo profumo e l'ho aspirato, e ora ti desidero; ho gustato di Te e ora ho fame e sete di Te; mi hai toccato e ho desiderato con ansia la pace che viene da Te».

In questa esperienza di Agostino vediamo come egli può contemplare serenamente il suo passato, senza angoscia né disperazione, al contrario, questa visione retrospettiva della sua vita diviene motivo per riconoscere la mano misericordiosa di Dio che lo ha guidato e ora confessa, pieno di riconoscenza e di gioia, la grandezza e la sapienza di questo amore che guida la storia del mondo e di ogni uomo. Chi ha fatto questa esperienza può dire con il re Ezechia:

«La mia amarezza si cambierà in gioia, perché hai preservato la mia vita dalla fossa della distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati».

Per non sentirsi schiacciato dal peso del rimorso, l'uomo dovrà credere che, se anche lui non è capace di dimenticare il male commesso, l'amore di Dio può farlo. «In questo conosceremo che siamo dalla verità e rassicureremo davanti a Lui il nostro cuore, perché se il nostro cuore ci rimprovera, Dio è più grande del nostro cuore e conosce tutto»(1Gv 3, 19s).

Capire questo, e credere in verità che Dio è più grande del nostro cuore e del nostro peccato, riconcilia con se stesso, oltre che con Dio, e gli dà occhi nuovi per leggere la storia e la vita sua senza deformazioni pessimistiche né vittimismi sterili. La misericordia di Dio ricupera il nostro passato e ce lo fa contemplare con serenità, mostrandoci la presenza misteriosa e provvidente che ci ha guidato e ci guida.

Chi non ha integrato serenamente il male della sua vita passata, difficilmente saprà scorgere il bene, correrà sempre il rischio di vedere la vita come nemica.

La misericordia di Dio si manifesta in questa delicata dimenticanza, quasi che dicesse al peccatore angosciato: «perché ti lasci torturare dal ricordo del tuo peccato, quando Io l'ho scordato, sepolto, pestato, gettato in fondo al mare?» (cf Mich 7,18ss).

Un Dio che non tiene in conto

Quando una persona ha subito un torto e, passato il tempo, tira fuori quel ricordo per rinfacciarlo a chi ha fatto l'offesa, è chiaro che non ha perdonato, non ha "dimenticato" il male ricevuto, se l'è legato al dito come siamo soliti dire. L'ultimo aspetto che vogliamo considerare del perdono di Dio, secondo il detto di M. Speranza che guida la nostra riflessione, è questa magnanimità del cuore di Dio che «non tiene in conto» il nostro peccato. La potenza rigeneratrice dell'amore di Dio si manifesta in questa misteriosa distruzione del male. Dice il profeta Geremia:

«In quei giorni e in quel tempo - oracolo di Jahvé - si cercherà la colpa d'Israele e non esisterà, il peccato di Giuda, e non si troverà, perché sarò misericordioso con il resto che ho lasciato».

E il Salmo 31 canta:

«Beato l'uomo che è stato assolto dalla sua colpa, il cui peccato è stato sepolto l'uomo a cui il Signore non tiene in conto il delitto».

In un commento di questo salmo leggiamo: «In forma di beatitudine (il salmo) proclama la gioia essenziale di essere perdonato. Ogni uomo è peccatore, l'iniziativa di Dio si anticipa a salvare. " Segnare sul conto" è un linguaggio giuridico, che suppone un registro di proprietà e di debito con valore effettivo».Quando diciamo che il perdono di Dio non tiene in conto, stiamo presupponendo una determinata concezione del peccato, assai frequente nella sacra Scrittura, secondo la quale il peccato è un "debito".

Gesù stesso, utilizzando il vocabolario dell'epoca, annunzia ai peccatori che i loro peccati sono "rimessi". La "remissione" è un termine che indica il condono, lo scioglimento di un vincolo giuridico che lega la persona, la cancellazione di un conto che, per giustizia, si deve pagare. Gesù stesso utilizza direttamente il termine "debito" per designare il peccato: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»(Mt 6,12). «Il Regno dei cieli è simile a un re che volle aggiustare i conti con i suoi servi. Iniziati i conti, gli venne presentato uno che gli doveva diecimila talenti» (Mt 18,23ss). «Simone, ho una cosa da dirti:... un creditore aveva due debitori...» (Lc 7,36ss).

Non è casuale questa puntualizzazione di Gesù nel parlare del peccato come di un debito. Di fatto, considerare il peccato come un debito significa vederlo come un contravvenire alla giustizia essenziale che dobbiamo a Dio. Creati da Lui, gli apparteniamo totalmente, e la finalità essenziale di tutta la nostra vita e di ogni nostro atto libero è compiere la sua volontà, cercando la sua gloria. Se, con il peccato, ci allontaniamo da questo fine essenziale, ipso facto, stiamo contraendo un debito con Dio. Il guaio, come ci attestano i brani evangelici sopra citati, è che il peccatore, di fronte a Dio, non solo è un debitore ma è incapace da solo di pagare, il debito contratto. Questa incapacità radicale dell'uomo è quella che manifesta la grande misericordia di Dio, che non mette sul conto e cancella il debito con totale gratuità. Nell'episodio della peccatrice perdonata che S. Luca ci riferisce (cf Lc 7, 36ss) Gesù da ad intendere a Simone che la cancellazione è gratuita tanto per chi deve 500 denari, come per chi ne deve 50, perché tutti siamo debitori di fronte a Dio, e questo elimina qualsiasi pretesa di poter giudicare gli altri dall'alto di una nostra giustizia.

Nel perdono di Dio che non mette sul conto il nostro peccato, vediamo, infine, la ricchezza di una misericordia che supera abbondantemente la giustizia. La giustizia, infatti, esige una resa dei conti puntuale, senza sotterfugi. Per sua natura, la giustizia deve tenere in conto tutto, non può dimenticare niente, non può cancellare i fatti imputabili; esige, anzi, che questi fatti vengano giudicati che i debiti siano pagati; esige che "si faccia giustizia". Questo è il metro della giustizia umana. Questa è la giustizia della "legge.

La giustizia di Dio è qualitativamente diversa. E' una giustizia a servizio dell'amore , e non c'é contraddizione in questo, perché la pienezza della legge è l'amore.

Il perdono di Dio è la manifestazione suprema del suo Amore Misericordioso, che non annulla le esigenze della giustizia (cf D.M. XIV, 10) ma le porta a pienezza (cf Mt 5, 17-48). E questa pienezza del perdono misericordioso di Dio, che compie le esigenze della giustizia, ci è data una volta per sempre in Cristo che «ha cancellato il documento del nostro debito, quello delle prescrizioni con le loro clausole sfavorevoli, e lo ha soppresso inchiodandolo sulla croce» (Col 2, 14).«In Cristo, Dio stava riconciliando il mondo con sé, non tenendo in conto le colpe degli uomini» (2 Cor 5, 19).

Anche nella parabola dell'uomo che aveva piantato un fico nella sua vigna (cf Lc 13, 6-9), vediamo l'atteggiamento di Dio che si attende, giustamente dei frutti da parte dell'uomo. La parabola mette in risalto la pazienza misericordiosa di Dio, che dimentica e non tiene in conto la mancanza di quei frutti che gli sono dovuti, e attende "ancora un anno" coltivandoci con amore, nella speranza che portiamo frutto. Questo "anno ancora" è tutto il tempo della vita che ci è concessa.

Ha ragione S. Pietro, quando dice, nella sua seconda lettera: «La pazienza di Dio è la nostra salvezza» (2Pt 3, 15).

Vorrei concludere con un altro testo di M. Speranza preso dal VII giorno della sua Novena all'Amore Misericordioso, dove commenta le parole del Padre nostro «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». E' una preghiera che riprende letteralmente alcune espressioni del Libro della Sapienza:

«Prevalere con la forza ti è sempre possibile; chi potrà opporsi al potere del tuo braccio? Tutto il mondo davanti a Te, come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Hai compassione di tutti, perché tutto Tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento. Poiché Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata».

La preghiera di M. Speranza è questa:

«Gesù mio, so che tu ami tutti senza eccezione, abiti negli umili, ami chi ti ama, giudichi la causa del povero, hai pietà di tutti e niente odii di quanto il tuo potere creò; dissimuli le mancanze degli uomini e li attendi a penitenza e ricevi il peccatore con amore e misericordia».

"L'amore verso il prossimo è molto eccellente perché è il secondo comandamento nel quale si riassume tutta la legge divina dopo l'amore a Dio.

E' comandamento divino che amiamo il nostro prossimo per Dio e in Dio come Dio amò noi.

Siamo tenuti ad amare il prossimo perché l'amore di Dio e del prossimo vanno inseparabilmente uniti e per di più l'amore al prossimo lo considera come fatto a se stesso.

L'unione col nostro prossimo deve essere come quella delle membra del corpo che si aiutano le une le altre nell'agire, nel perfezionarsi e in tutto.

Credo non ci sia un comandamento più dolce di quello della carità, così come sgorga spontaneo dal Cuore del nostro Gesù: "Amatevi gli uni gli altri questo è il mio comandamento...".

Facciamo del bene a tutti, senza distinguere buoni e cattivi, amici e nemici, parenti o estranei.

Facciamo tutto il bene possibile senza mai spegnere in noi il desiderio di fare felici gli altri.

La carità di Gesù non diminuisce mai, non dice mai basta e non fa distinzioni tra amico e nemico: tutti ama, per tutti muore".

Madre Speranza