PROFILI DI MADRE SPERANZA – 20

Prof. Luigi Alici

MADRE SPERANZA

Testimone dell’Amore Misericordioso:

una profezia per il nostro tempo

Edizioni Amore Misericordioso - Natale 1993

1. «Quanto più la coscienza umana, soccombendo alla secolarizzazione, perde il significato stesso della parola "misericordia" quanto più, allontanandosi da Dio, si distanzia dal mistero della misericordia, tanto più la Chiesa ha il diritto e il dovere di far appello al Dio della misericordia con "forti grida" (Eb 5,7)» (DM15). Queste parole, alte e autorevoli, di Giovanni Paolo II, che chiudono la Lettera Enciclica Dives in misericordia, delineano dinanzi a tutti noi, uomini e donne di questo mondo che si sta affacciando alle soglie del terzo millennio cristiano, un orizzonte in cui il discernimento culturale si trasforma in un vero e proprio appello ecclesiale. «La mentalità contemporanea, - aggiunge il Papa - forse più di quelle dell’uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende, altresì, ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l’idea stessa della misericordia», mentre, rivelato da Cristo, «il mistero di Dio "Padre delle misericordie" diventa, nel contesto delle odierne minacce contro l’uomo, quasi un singolare appello che s’indirizza alla Chiesa» (DM, 2).

Noi siamo qui, riuniti presso questo Santuario dell’Amore Misericordioso, per raccogliere tale appello, per riflettere sul mistero del Padre e sul volto misericordioso del suo amore, che Cristo ci ha rivelato come via salvifica per tutta l’umanità. Siamo qui, in queste giornate dense di memoria, che concludono le celebrazioni del centenario della nascita di Madre Speranza di Gesù, per ricordare e onorare la sua figura e la sua opera di testimonianza, per ritrovare nel suo messaggio una risposta profetica a quell’appello vibrante che il Papa rilancia oggi alla Chiesa.

Proprio per queste ragioni, le parole che danno un senso alla nostra presenza non possono essere solo parole di circostanza, destinate a stendere un velo ricamato di retorica sull’esperienza sublime di una donna straordinaria, che avrebbe abbandonato il mondo con la sua logica implacabile e i suoi meccanismi crudeli, collocandosi, in modo quasi magico e indolore, in una posizione di privilegiata confidenza con la dimensione del religioso e del sacro.

A noi si chiede soprattutto di accostarci all’umanità schietta ed autentica, forte e sofferta di questa donna, nostra compagna di strada, che ha nutrito di sofferenza fisica e spirituale, di sudore e di sangue, di ostilità e di incomprensioni la sua risposta alla chiamata soprannaturale; a noi si chiede di ritrovare in quella risposta le radici di un cammino di santificazione che ci interpella e ci rimette in discussione, sconvolgendo la nostra mediocrità tiepida, sempre pronta a cercare alibi per il proprio disimpegno.

La profondità spirituale di una persona resta un mistero inarrivabile di intimità, che la comunione con la trascendenza rende singolarmente nascosto e profondo, ed è illusorio ogni tentativo di incapsulare tale mistero di vita in un giro di parole, in un rosario di ricordi, per quanto indelebili e struggenti, in un opera o un complesso di opere, per quanto grandiose e durature. A noi si chiede di andare oltre, di cogliere e raccogliere lo spessore profetico di una testimonianza che riguarda anche noi, anche noi oggi, anche noi qui riuniti.

Non è questo il luogo per fare bilanci di questo nostro tempo, un tempo che sembra stemperare in una sorta di disincanto cinico l’urto formidabile di ideologie e di interessi che hanno insanguinato la prima metà del secolo. Molto probabilmente, però c’è una linea di continuità tra le passionalità forti e incontrollate che hanno violentato la storia dei popoli negli anni in cui un’oscura suora di Santomera accoglieva gli orfani e dava da mangiare agli affamati nelle retrovie della guerra e lo spaesamento di oggi fra i membri di una società complessa, dove le spinte egoistiche si sono frammentate e ognuno di noi tenta con disinvoltura di esorcizzare l’incertezza del futuro scavandosi nicchie blindate di benessere.

Probabilmente però la medesima povertà, la stessa sete impoverisce oggi la città degli uomini, anche se il panorama semplificato e irrigidito dalle ideologie, avvelenato da deliri di onnipotenza economica, politica o militare, degli scorsi decenni, è subentrato un clima culturale dai contorni più sfumati ed incerti, che sembra avere tuttavia effetti paralizzanti sulle possibilità dell’intelligenza, costringendola a rassegnarsi all’impotenza della progettualità e del discernimento e ad avvallare solo scelte di campo deboli ed effimere, dominate da una ricerca di gratificazione sovente miope e di corto respiro.

Eppure, al di là di sofferenze obiettive fra la società di ieri, attraversata dalle due guerre mondiali, devastata dalla miseria materiale e dall’odio fratricida, e la società di oggi, che si sente sempre più estranea alle categorie culturali dell’epoca moderna e ai suoi scheletri, resta una comune radice a segnalare una parentela ancora profonda: tale radice sembra costituita, fondamentalmente, da una povertà d’amore, che si esprime in una sfiducia nelle potenzialità creative e rigeneratrici della misericordia e del perdono, in una curvatura egocentrica e privatistica dell’amore stesso, come esito finale di una illuministica e ormai improponibile superbia antropologica.

L’uomo, che un tempo si sentiva padrone di sé, del mondo, del proprio destino oggi si scopre orfano e schiavo di quei meccanismi produttivi e di quelle logiche di dominio sulle quali era stato costruito un intero modello di civiltà; se ieri essere figlio di nessuno era un’arrogante prerogativa di onnipotenza, oggi rischia di diventare una agghiacciante constatazione di impotenza. In questa parabola che porta l’uomo contemporaneo a sentirsi orfano, dopo essersi illuso di essere padrone, vibra la medesima nostalgia, circola lo stesso bisogno: il bisogno di vivere, in positivo, l’esperienza della paternità che accoglie, che promuove, che accompagna, che libera, insomma della paternità dinanzi alla quale ci si sente davvero figli.

2. Ricordare Madre Speranza come testimone profetica dell’Amore Misericordioso significa anche tentare di interpretare in un’ottica ampia, teologica e culturale, la sua figura carismatica, la sua opera e il suo messaggio, cercando di intravedere, al di là dei gesti e delle parole, un disegno provvidenziale che i nostri occhi miopi spesso non colgono, nonostante rifulga chiaro e rilevato dinanzi a tutti. Mi permetterò quindi di orientare in tale prospettiva le brevi considerazioni che cercherò di svolgere, a partire da una convinzione: attraverso Madre Speranza Dio ci ha voluto ricordare qualcosa di se stesso, ha voluto quasi farci attingere un aspetto trascurato del suo mistero inaccessibile, una verità qualificante del suo disegno salvifico.

Questo lato nascosto e profondo della paternità divina, che si esprime nello straordinario e infinito slancio oblativo dell’Amore Misericordioso, è una verità che oltrepassa la ragione, è una vita che oltrepassa l’esperienza: dunque non può racchiudersi nell’architettura cristallizzata di una fredda formulazione dogmatica e neppure nella frenesia di un attivismo pastorale fine a se stesso. Esige piuttosto il coinvolgimento tutto intero di una vita, abbracciando uno spettro di partecipazione integrata e armonica di tutto il proprio essere: dal discernimento dell’intelligenza alla responsabilità della volontà, dalle risorse creative della personalità alla docilità piena di tutte le fibre del proprio corpo.

L’amore, l’amore inaudito di misericordia del Padre, capace di dilatare le proprie viscere materne dinanzi alla miseria del peccato dell’uomo, non ha bisogno di deduzioni razionali, poiché non è la conclusione di un sillogismo astratto: è esso stesso il primo passo, il punto di partenza assoluto, capace di contagiare l’uomo, di attirarlo nel suo vortice incontenibile. Chi è stato toccato da questo amore, chi ha potuto compiere un cammino ascetico di purificazione e assimilazione profonda non può offrire risposte circoscritte e momentanee, semplici briciole edificanti di devozione.

Al contrario, è l’intero del proprio esistere che viene come risucchiato all’interno di un superiore orizzonte di senso; che viene rimodellato nel torchio di un’unione mistica in cui la persona si dispone ad una straziante ed esaltante spremitura nel corpo e nello spirito, quindi riplasmato nei ritmi più profondi e radicali della propria affettività e intelligenza spirituale, ricaricato di energie nuove e impensabili. L’intera esistenza quotidiana a cominciare dalle sue pieghe più piccole e nascoste, viene come raggiunta, allora, da un contagio elettrizzante, sottratta alla oscura banalità in cui spesso noi lasciamo marcire gli angoli più privati del nostro vissuto quotidiano, e riguadagnata ad un valore nuovo, illuminata da una luce diversa.

Il testimone è colui che ha incontrato un orizzonte di senso trascendente e lo incarna nella storia fino a rendersi completamente disponibile al suo valore. Il suo agire, di conseguenza, non si atrofizza, ma riceve una salutare scossa maieutica: la sequenza del vivere quotidiano viene quasi a riaccendersi tutta intera, si riducono le sacche di inerzia e di passività, tutto il presente può diventare una testimonianza dell’ulteriore. Il piano di valore che trascende la vita diventa allora un mondo di senso, per il quale vale la pena sacrificare ogni calcolo, rompere ogni indugio. «L’azione di testimonianza - è stato detto - è un’epifania di verità che si è fatta consapevolezza interiore del testimone». Per questo il testimone non insegue l’efficacia rumorosa dei grandi gesti esteriori; aprendo il finito all’infinito, il visibile all’invisibile, egli è capace di conferire la vera grandezza anche alle piccole cose, di rendere importante anche ciò che era insignificante. «Dammi la grazia, Gesù mio - ha scritto la Madre - d’imparare ad elevarmi dalle creature a Te e di vedere il mio Dio in tutte le sue opere, in tutte le sue cose, in tutte le persone, in ogni avvenimento».

La santità è, in fondo, proprio questo: una testimonianza umanamente esemplare e storicamente profetica dell’amore di Dio, vissuta nella fedeltà alla sua grazia attraverso virtù praticate in modo eroico. «La presenza del Buon Gesù - scrive ancora Madre Speranza - è la base della santità, il fondamento della perfezione e la radice di tutte le virtù».

«I santi e le sante - ci ha ricordato Giovanni Paolo II nella Christifideles laici - sono sempre stati sorgente e origine di rinnovamento nei momenti più difficili della storia della Chiesa» (ChL, 16). Ad essi quindi dobbiamo guardare, come insegna il Concilio, imparando ad esercitare "il vero culto", che "non consiste tanto nel moltiplicare gli atti esteriori, quanto piuttosto nell’intensità del nostro amore fattivo" (LG, 51). Infatti "la carità - come si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica - è l’anima della santità alla quale tutti sono chiamati" (n. 826).

3. Noi siamo qui per ricordare la testimonianza profetica della Madre Speranza, di cui la Chiesa dovrà discernere il grado di eroicità per proclamarla solennemente come modello di vita e sorgente di intercessione per tutti i credenti. Ma la logica del testimone è sempre una logica di trasparenza: egli non ostacola, al contrario rende visibile e credibile una verità, in questo caso una verità che ci fa toccare il mistero del cuore stesso in Dio, quasi una sua "debolezza" segreta e preziosa. Dunque un incontro con Madre Speranza è autentico se è un incontro con l’Amore Misericordioso, proprio come la disposi zione della sua salma in questo tempio sapientemente ci suggerisce, in quel suo nascondersi e quasi annichilirsi, senza scomparire nella terra, dietro il tabernacolo dell’Altissimo.

È una testimonianza anzitutto il suo cammino ascetico, un cammino di purificazione in cui il progresso spirituale passa attraverso la croce, vissuta come la cifra più alta della misericordia salvifica di Dio, quella che consacra la regalità autentica e paradossale di Cristo. La rinuncia, la mortificazione, l’obbedienza, il combattimento spirituale rendono talmente elevante tale cammino, che non è il frutto di uno sforzo volontaristico o della fortuna di avere un carattere fermo, innestandolo in un’esperienza mistica di unione sempre più intima con Cristo e, in Lui, al mistero d’amore della Santissima Trinità; un’unione mistica in quanto partecipazione al mistero di Cristo mediante i "santi misteri", i sacramenti. I segni straordinari di questa vita mistica, i fenomeni paramistici che hanno segnato la vita di Madre Speranza possono essere letti in questa prospettiva: come la manifestazione più appariscente e vistosa di un dono che è per tutti e che noi dobbiamo raccogliere nella sua forza testimoniale, evitando di lasciarci imprigionare da un infantile sensazionalismo dello spirito.

Quel cammino spirituale, che ha conosciuto il suo rodaggio negli anni dell’infanzia e della fanciullezza, riceve il primo impulso fra il 1914 e il 1921, quando la giovane María Josefa Alhama, all’età di ventun’anni, il 15 ottobre 1914, festa di Santa Teresa D’Avila, lascia la casa con il proposito di crescere nella santità, vivendo sette anni nel Convento delle Figlie del Calvario di Villena, come una scopa che si lascia consumare nel silenzio del servizio e della dedizione totale.

A poco a poco, la risposta alla chiamata comincia a vivere una progressione nuova nella vita spirituale; l’adesione a Cristo subisce il vaglio purificatore del fuoco divino, la fornace che purifica da tutte le scorie e brucia le resistenze passive della persona, lacerando dolorosamente tutti i legami più subdoli che potevano riempire di riserve e di subordinate il suo sì. Questi anni sono visitati da sofferenze fisiche inspiegabili, acute, legate a fenomeni morbosi obiettivamente gravi, che sembrano ingaggiare una battaglia sfibrante con questa autentica "serva dei dolori", una battaglia che sembra continuamente condotta sul filo della sopravvivenza. Ma sono anche gli anni delle sofferenze spirituali più incredibili, che forgiano e mettono alla prova la sua risposta e rivelano l’altezza del suo amore alla Chiesa. Il profilarsi della rivelazione dell’Amore Misericordioso, che porta la giovane suora a collaborare con il Padre Arintero, a tentare una riforma nella Congregazione delle Clarettiane e quindi a fondare la Congregazione, è come ritmato, in un crescendo vertiginoso di contrasti, da una serie bruciante di umiliazioni, incomprensioni, persecuzioni, che liberano la gestazione spirituale del suo carisma da ogni motivazione impropria, da ogni incrostazione esterna.

Alla fine, alla base degli orientamenti della sua vita spirituale non restano che le ragioni di Dio, la logica di Dio, la vita di Dio; nel 1952 si registra nei suoi scritti un lampo di luce: «Oggi posso dirti che mi sento felice, perché mi hai detto che finalmente ho acquisito quell’atteggiamento che Tu desideri da me o, meglio detto, che Tu hai infuso in me ed è che io pensi sempre e solo a Te e che il mio cuore e la mia mente siano fissi sempre in Te e che niente e nessuno mai mi possa distrarre da Te».

Da allora emerge netto in lei uno stato di abbandono nuovo e più maturo alla volontà divina: «Desidera soltanto essere sola - scrive il suo biografo - in compagnia con Dio. Non sente più aridità, né dolori, ma una grande pace. Sta completamente assorta nella contemplazione di Dio e non la turbano più i problemi». Ormai "annegata" nell’«immenso abisso» della infinita misericordia divina, le turbolenze della notte dei sensi appaiono come un’eco affievolita, sullo sfondo di un’intensa e autentica relazione sponsale con il "buon Gesù"; una relazione spirituale indissolubile, fedele e feconda, che raggiunge profondità di confidenza e abbandono: «Degnati di avvolgere il mio spirito nel Tuo con tanta forza che io rimanga sepolta in te e così mi veda libera da me stessa».

In questa intima esperienza di comunicazione la persona muore a se stessa, per ritrovare la propria identità, e persino la propria personalità valorizzate ad un livello superiore e dilatate verso proiezioni apostoliche impensate, poiché, secondo la Madre, il raccoglimento non è mai isolamento, «Tu... abiti in me - ella scrive - per santificare non solo la mia persona, ma anche tutte le mie opere e per riempire di Te tutte le mie facoltà». Ecco quindi che l’ancella e la figlia dell’Amore Misericordioso diventa madre, madre fondatrice e madre di tutti, ma una maternità tutta esemplata sulla logica sacrificale di Cristo: l’esperienza della mortificazione, accolta e cercata come via di conformazione piena al crocifisso, diventa disponibilità sconfinata a pagare di persona per gli altri. «Concedimi… - scrive - la grazia di arrivare ad amare fortemente la croce; che per il desiderio della santificazione dei tuoi sacerdoti io mi senta felice di condurre una vita di espiazione e giunga non solo ad amare il dolore, la mortificazione e la croce, ma addirittura a desiderarli sinceramente, con ansia perché il desiderio della santificazione delle anime, i patimenti e soprattutto la croce furono l’oggetto del tuo amore fino al sacrificio di Te stesso».

Nasce da qui quel singolarissimo equilibrio di azione e di contemplazione, in cui tutte le energie fisiche, tutte le risorse spirituali vengono mobilitate; quando si tocca con mano che qualcuno ci ha dato tutto, allora il tempo non basta più. Ne risultano rigenerate persino le sfumature più autentiche del genio femminile: l’amore che diventa grembo e viscere di misericordia; l’accoglienza che si fa attenzione persino ai bisogni più nascosti e segreti degli altri, ma anche generosità sconfinata, disponibilità a pagare per loro; la praticità che si fa concretezza e sapiente capacità organizzatrice e di governo; la tenacia che diventa fermezza e perseveranza.

4. In questa prospettiva tutta la sua opera diventa un’azione di testimonianza sempre più incisiva e decisiva. Un’azione di testimonianza che diventa aiuto concreto e mirato, offerto a tutti coloro che vivono una povertà d’amore, aprendosi ad un fronte molto ampio di interventi materiali, formativi e spirituali, voluti e attuati instancabilmente nei confronti dei bambini, dei poveri, degli abbandonati, dei malati, ma anche dei pellegrini e dei sacerdoti. È la stessa suora quella che vive una relazione intensa e costante con il buon Gesù, che consuma le ore dell’alba a pelare patate e ad affettare cipolle, che sale sulle impalcature dei cantieri, che accende pagine e pagine di diario con parole intense e appassionate, che guida spiritualmente le sue Ancelle e i suoi Figli, che sa ricentrare sempre in Dio le attese immediate, talora molto immediate, dei pellegrini che la cercano.

Anche l’intero arco delle opere di misericordia corporali e spirituali, realizzate da Madre Speranza, assume dunque un valore testimoniale che le oltrepassa. Forse proprio per questo lei non ha mai voluto cristallizzare l’impegno suo e della Congregazione in una tavola rigida di priorità caritative concrete, in questo modo, a rispettare gli aspetti più profondi dell’amore autentico: la creatività, la capacità di distanziarsi continuamente dall’idolatria delle opere, di porsi in ascolto degli altri, di rigenerare continuamente l’anima missionaria della nostra fede, di saper testimoniare appunto un amore a tutto campo: «Todo por amor».

La fondazione della Famiglia Religiosa dell’Amore Misericordioso, il cui ramo femminile nasce a Madrid la notte di Natale del 1930 sotto forma di Associazione benefica, mentre la Congregazione maschile dovrà attendere il 1951, articolandosi progressivamente nelle sei componenti che attualmente la costituiscono, appare sin dall’inizio carica di novità anche sul piano della configurazione canonica; la sintesi di adorazione e servizio, la forte carica evangelizzatrice e missionaria coinvolgono tutti, sorelle e figli, nello stesso carisma, nello stesso compito di manifestare al mondo, là dove la miseria dell’uomo è più grave e inavvertita, le ricchezze della misericordia del Signore.

Il Santuario dell’Amore Misericordioso diventa il luogo di sintesi, il centro della comunione orante e della missione apostolica di tutta la Famiglia Religiosa, starei per dire il suo punto privilegiato di tangenza con l’uomo contemporaneo, al quale svelare le radici delle sue frustrazioni, facendolo incontrare, spiritualmente e sacramentalmente, con quel «Padre pietoso - secondo il felicissimo testo del Diario del 1927 - che cerca con ogni mezzo di confortare, aiutare e far felici i propri figli; che li segue da vicino, li cerca incessantemente con amore, come se non potesse essere felice senza di loro».

È all’ombra di questo Santuario che molti dei presenti hanno la grazia di incontrare Madre Speranza; di sentirsi accolto, compreso, riportato all’essenziale; di percepire immediatamente, parlandole, una disponibilità senza misura, che ognuno avrebbe voluto requisire per sempre; di sentirsi scrutato da occhi carichi di una intensità non comune, dove severità e dolcezza, lasciavano intravedere il riverbero di infinite distanze, dinanzi alle quali il senso acuto del proprio limite e la riscoperta della speranza accendevano la commozione che prepara il pentimento e invoca la gioia del perdono. Come ha scritto Bernanos, soltanto i grandi, i veramente grandi, hanno il segreto di lasciar apparire la gioia di Dio, la gioia in senso assoluto senza danno per il prossimo.

È da questo Santuario, dunque, che il suo messaggio dovrà continuare a raggiungere i pellegrini, che dovrà ripetersi ogni giorno il vero miracolo, il miracolo più grande, quello dell’Amore Misericordioso che redime il cuore dell’uomo.

5. Madre Speranza ci lascia infine un messaggio profetico per la Chiesa e per il mondo. Tocca a noi, presenti fisicamente e spiritualmente in questo Santuario, raccogliere tale messaggio, evitando di sterilizzarlo a piccole dosi nella eutanasia di una devozione scialba e irrilevante. Quest’ora solenne è per noi il tempo della lode a Dio, della gratitudine e della memoria, ma anche il tempo della risposta, della conversione, dell’impegno.

L’invito a riscoprire il volto misericordioso di Dio non è certo, nella tradizione della Chiesa, un’idea nuova, una nuova corrente teologica, o una nuova linea pastorale; esprime piuttosto un’esigenza di autenticità spirituale, un fermento di rianimazione, una vena di interiorità vissuta che possono e debbono acquistare uno spessore pastorale e teologico sempre più organico, globale ed esplicito. La profezia dell’Amore Misericordioso non produce uno squilibrio sentimentale nell’annuncio salvifico della carità, ma lo essenzializza, lo radicalizza, lo purifica; non travolge o rimuove l’ordine della giustizia, ma al contrario invita a ritrovarlo al livello più alto: «Fa, Gesù mio, che io stimi nella giusta misura - ricorda la Madre - tutto quello che ho ricevuto da Te; che questa considerazione mi muova sempre a immensa gratitudine». Ciò consente di ricentrare la missione della Chiesa sulla verità della evangelizzazione, rimettendo ancora una volta tutti noi sulle tracce di chi non ama perché non si sente amato, al quale ricordare che «anche l’uomo più perverso, più abbandonato e più miserabile è amato da Lui con immensa tenerezza».

Questo messaggio di vita spirituale rappresenta per tutta la Congregazione l’impegno ad edificare un luogo dove si coltivi la misericordia, dove la vita religiosa ritrovi nuove motivazioni profetiche e nuovi assetti pastorali, secondo quell’equilibrio fra istituzione e carisma che rappresenta un valore fondamentale e prezioso da tutelare e promuovere, e soprattutto dove sia possibile attingere alla vena interna che alimenta un’autentica comunione ecclesiale, oggi spesso insidiata da spinte localistiche, da rigidezze pastoralistiche e da diversificazioni aggregative spinte all’eccesso. L’attenzione speciale per i sacerdoti, in tale prospettiva, appare molto di più che una mera scelta pastorale strategicamente felice; è l’espressione di una sintesi, che potrà essere sempre più approfondita e motivata, fra radice cristologica e un’autentica ecclesiologia di comunione, condizione indispensabile per una feconda missione evangelizzatrice.

L’Amore misericordioso è, poi; anche un messaggio profetico per il mondo, un messaggio che ne svela le debolezze più profonde e nascoste, ne rimette in discussione gli assetti consolidati, quelle che Giovanni Paolo II ha chiamato le "strutture di peccato" (SRS, 36).

Quando il 24 agosto del 410, i Visigoti di Alarico entrarono a Roma e profanarono la città eterna, saccheggiandola per tre giorni, piovvero sulla religione cristiana che ormai si stava affermando sulle rovine dell’impero, con quella sua rivoluzionaria dottrina, che invitava ad accogliere e perdonare i nemici, a soccorrere gli orfani e le vedove, una serie di accuse, che mettevano sostanzialmente in discussione il valore sociale, culturale e politico dell’amore cristiano, la sua capacità di diventare il criterio ispiratore della convivenza civile e dei progetti degli Stati. Raccogliendo la sfida, S. Agostino scriverà un’opera monumentale, la Città di Dio, proprio per ricordare che esistono, nel cuore stesso dell’uomo, prima che negli spazi a lui esterni, due città, due modelli di vita, generati dall’amore e dalla sua controfigura egoistica: "l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costituito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste... L’una, nei suoi capi e nei popoli che sottomette, è posseduta dalla passione del potere, nell’altra prestano servizio vicendevole nella carità chi è posto a capo provvedendo, e chi è sottoposto adempiendo».

Sono autorizzate facili semplificazioni storiche, non è difficile rilevare che anche oggi si sta riproponendo una analoga sfida, come conseguenza di un altro sacco di Roma, consumato questa volta in giacca e cravatta e senza la spada, magari inalberando, in qualche caso, discutibili vessilli cristiani: da questa sfida va nascendo la tentazione di sterilizzare il volume totale dell’amore, riducendolo ad una calcolata ricerca di gratificazione soggettiva, quasi una larva di sentimentalismo insignificante e indolore, tollerato soltanto ai confini della vita pubblica, perché impotente a sostenere la complessa architettura culturale, sociale e politica.

A questo proposito si potrebbero anche ricordare le parole di Kierkegaard: «Si son dette molte cose strane, deplorevoli, rivoltanti sull’amore, ma la cosa più stupida che mai sia stata detta è che l’amore deve avere un limite». Una società che professa l’impotenza sociale dell’amore è però in se stessa condannata alla sterilità e all’impotenza: la vita comunitaria, a cominciare dalla famiglia, se priva di anticorpi efficaci contro il virus dell’egoismo, si banalizza in una povertà relazionale, che rende fragile ed effimero ogni rapporto umano; la spinta alla solidarietà tende a sfaldarsi, rovesciandosi nella degenerazione del calcolo e dell’interesse; l’appello al bene comune si riduce ad una abile lottizzazione di egoismi individuali; le regole dell’efficienza si trasformano in un’equivoca maschera ideologica per nascondere il rampatismo più spietato; l’appello alle norme pubbliche e consolidate della giustizia degenera in una cieca equità distributiva o in un ossequio formale e farisaico alle regole esterne, nella illusione che sia sufficiente pagare le decime ed esibire un "look" di impeccabilità, per avere in cambio una specie di franchigia morale nel proprio vissuto sommerso.

In una società che cerca soltanto di dosare gli spazi della convivenza, disciplinando la rabbia e razionalizzando l’egoismo, che s’illude di autogovernarsi solo regolamentando le sostanze tra chi è sazio e chi è affamato, e riducendo la giustizia ad una sentinella costretta a pattugliare il perimetro degli egoismi privati, l’annuncio dell’amore misericordioso è realmente un annuncio urgente e profetico; purché esso sia testimoniato e accolto nella sua piena integralità: non come il sottoprodotto scontato e debole di un cristianesimo altrimenti improponibile, ma come un amore forte e vertebrato, che non offre scorciatoie emotive alla giustizia, cercando anzi di ridurre quella dissociazione tra giustizia e misericordia, che è sempre il primo passo per esiliare l’amore.

Guardando alla città di Dio come sommo paradigma comunitario, che realizza l’armonia perfetta di giustizia e misericordia, anche la città degli uomini può aprirsi, in forme perfettibili e graduate, ad una civiltà dell’amore, in cui la giustizia garantisca e consolidi le nuove frontiere di solidarietà che solo la misericordia sa riconoscere e visitare. Di questa speranza noi dobbiamo essere testimoni, se vogliamo raccogliere la profezia di una donna di nome Speranza.

Maria, riconosciuta come prima mediatrice di grazia, presenti al Signore la nostra speranza e ci accompagni, come solo Lei sa fare, in questa missione così stupenda e difficile.

Collevalenza, 24 settembre 1993