GIORNATA SACERDOTALE

Mons. Giancarlo Maria Bregantini, Vescovo di Locri-Gerace
Giornata di spiritulità - Collevalenza 8 giugno 2006
  • Il senso della benedizione e della gratuità;

  • il senso della trasformazione dei problemi in grazia;

  • lo zelo.

 

Saluto il nostro carissimo Giancarlo Bregantini, Vescovo di Locri, noto alle cronache. Conoscete tutti la sua vicenda, o meglio la vicenda della Cooperativa di giovani del progetto “Policoro” portata avanti dalla Conferenza Episcopale Italiana, che ha subíto le aggressioni da parte della mafia, sia con l’incendio che con l’avvelenamento delle acque. Il Vescovo era lì con quel “muro” di giovani che abbiamo visto anche in televisione. Lo ringrazio per essere presente a questo incontro. Il tema è tratto dalla parte finale della lettera di Pietro: “Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti, ma volentieri, come piace a Dio. Non per vergognoso interesse, ma con animo generoso. Non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge” (1Pt 5, 1-3). Queste sono le parole di Pietro, primo papa, rivolte a noi vescovi e sacerdoti chiamati a guidare il popolo di Dio e a diventare segno di speranza.

(S. Ecc. Mons. Giuseppe Chiaretti,
arc. di Perugia – Città della Pieve)

Per essere modelli del gregge è decisivo vivere in gratuità, sentire che quello che tu hai avuto ti è stato donato, non è tuo.


L’essere chiamati, l’essere convocati, l’aver avuto questo grande dono, non ci rende superiori all’altro, ci rende di qualità diversa, ma non però – attenti bene – élite!


Di fronte al male, il cristiano non usa la logica manichea, sottilmente presente anche oggi, che porta alla contrapposizione bene-male, ma la logica redentiva della trasformazione.


"La Parola è puro latte spirituale" ci ricorda la lettera di Pietro quando dice: "Allontanate dunque ogni genere di cattiveria, di frodi, di ipocrisie, di gelosie, di maldicenza, come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale


Dobbiamo esortare, diventando noi stessi modelli viventi con il fascino della sua presenza, con il fascino del profumo, diventando capaci di "stare davanti"


La parola di Dio non è incatenata, non mettiamola dentro a schemi troppo rigidi, lasciamola vibrare con la sua forza, facciamola nostra in pienezza!


"Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza". Questa totalità affascina i giovani che possono innamorarsi di Gesù, di questo Gesù dolce, che sentono nel tuo cuore. La totalità conquista sempre.

Riflessione di S. Ecc. Mons. Giancarlo Maria Bregantini, Vescovo di Locri-Gerace

Sono molto grato di questa esperienza che mi è dato di fare con voi. Nello stesso tempo sono consapevole della importanza di questo gesto che onora le nostre Chiese nell’interscambio fraterno e amabile, ammirato di tanta presenza di sacerdoti in questa giornata che si celebra da tanti tanti anni, e questo è molto bello. Sono grato anche di questo luogo che ci ha visti spesso come Conferenza Episcopale, in questa Umbria così dolce nell’immagine e nei colori, che mi ricordano da una parte le colline della Calabria e dall’altra – voi sapete io sono di origine trentina - le montagne, le Dolomiti. Io credo che il nostro essere preti è sempre collegato ad un territorio che ci è caro.

Vi presenterò alcune testimonianze ed insieme il commento alla lettera di Pietro che io apprezzo sopratutto per una cosa: l’Apostolo ci dà una immensa consapevolezza che le tribolazioni, le fatiche del presente, sono grazie. Ripete spesso Pietro quella frase:"Beati voi se soffrite". Lo dice più volte e questa consapevolezza ci rende estremamente capaci di guardare alle situazioni senza paura, grati a Dio anche delle fatiche. Noi possiamo essere – citando una frase antica - o Don Abbondio o fra Cristoforo, dentro le tribolazioni che abbiamo come preti. Oggi siamo veramente davanti a situazioni che ci chiedono di scegliere: possiamo diventare don Abbondio, ma possiamo diventare anche fra Cristoforo. La lettera di Pietro è un inno al coraggio. Purtroppo possiamo essere sacerdoti un po’ spenti, abitudinari, preoccupati piùnoi stessi, rasseganti soprattutto, persone che calcolano sempre con misura tutte le cose, passivi e deboli di fronte alle situazioni anche sociali, ma soprattutto interiori. Possiamo, viceversa, essere chiari e limpidi, decisi e coraggiosi, rispettosi e capaci di guardare le cose sempre con grande fiducia. Ricordate la scena finale dei Promessi Sposi quando fra Cristoforo, insieme a Renzo, vede don Rodrigo gettato a terra sul pagliericcio ormai morente di peste. Istintivamente Renzo vorrebbe dargli un calcio, vendicarsi del male ricevuto. Ancora una volta fra Cristoforo con grande forza dice quella frase bellissima: "Perdonare sempre, perdonare tutto a tutti". È la sintesi dei Promessi Sposi. Credo sia l’atteggiamento più grande per noi oggi: essere capaci di dare alla nostra vita il senso profondo del perdono, della benedizione soprattutto.

Rileggendo la prima lettera di Pietro, vi presento tre doni: il senso della benedizione e della gratuità; il senso della trasformazione dei problemi in grazia; lo zelo.

 

1. Siamo chiamati alla benedizione e alla gratuità. Gratuitamente abbiamo ricevuto, gratuitamente diamo. Io sento sempre più che un prete vale quanto è gratuito! Quanto sa essere dentro di sé capace di sentire che tutto è grazia: grazia per la vita, grazia per il percorso fatto, grazia anche per le tribolazioni, per le cadute, per i problemi, sapendo richiamare sempre alla memoria quanto ha ricevuto.

Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. La consapevolezza di questa esperienza di gratitudine è decisiva. "Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza macchia" (1 Pt 1, 18s). E’ la gratuità di essere stati comprati a caro prezzo. In fondo tutto ci è stato donato per un misterioso intreccio della mano di Dio.

Vi vorrei raccontare un pezzetto di una esperienza di vita vissuta proprio qui in Umbria, in un momento particolare della mia vita, quando finito il Liceo mi chiedevo cosa fare. Ero entrato giovane in seminario e ne avevo un bellissimo ricordo. Però, arrivato alla terza liceo, in un momento drammatico, ho avuto la grazia di fare l’esperienza di Spello con fratel Carlo Carretto. Benedico Dio perché mi ha aiutato a cogliere il nocciolo dell’essere prete. Venivo da una esperienza molto sicura di me; il ’68 dava molta sicurezza, a tratti anche molta presunzione. Mia madre mi diceva in dialetto trentino: a vent’anni il mondo ti pare tutto tuo. Fratel Carlo mi ha ascoltato e poi mi ha detto: "Con questo sentimento tu non potrai mai scegliere, perché tu sei estremamente sicuro di te, quasi presuntuoso, quasi che tu volessi fare un contratto con Dio, chiedendogli poi di firmarlo. Dio non firma dove vuoi tu, sei tu che devi firmare dove Lui vuole". Con questa frase mi ha trasformato il cuore. Mi ha anche detto di mettermi in adorazione, in atteggiamento di gratuità di fronte a Cristo, per lunghe ore. Sapete che a Spello al mattino si lavorava nei campi, al pomeriggio vi erano lunghe ore di adorazione per aprire il cuore in umiltà. "Dio ti darà la risposta se diventare o no prete!". Nell’Eremo di S. Elia in cima al Subasio, in mezzo al bosco, mi svegliavo nel cuore della notte e mi chiedevo se Dio c’era. E ogni volta che mi facevo questa domanda su Dio, sulla felicità, sul senso, mi veniva davanti il titolo di un libro bellissimo di fratel Carlo "Al di là delle cose". Certo che c’è Dio, ma è al di là delle cose! Non è mio possesso, non è nelle mie mani, è gratuito, è nella grazia, e questa esperienza di gratuità mi ha aiutato tantissimo.

In quella esperienza sentii che veramente un prete esiste in gratuità, esiste per gratuità. È chiamato gratuitamente per svolgere un ministero all’insegna della gratuità, non come padrone delle persone a lui affidate, ma facendosi modello del gregge. Per essere modelli del gregge è decisivo vivere in gratuità, sentire che quello che tu hai avuto ti è stato donato, non è tuo. Le campane sono la voce gratuita di Dio che si rivolge ogni domenica, ogni giorno, alla gente e anche al nostro cuore di prete, e ci ricordano che Dio mai si impone, ma sempre si propone con chiarezza.

Gratuità è questa misericordia che tocchiamo con mano sempre, sopratutto nel mistero della confessione, quando ascoltiamo "le storie" della gente. Ho sperimentato molto questa gratuità come cappellano delle carceri. Chi ha esperienza di carcere sa che in genere le persone lì dentro si sentono innocenti. Ricordo invece la confessione di un tale che mi raccontò con dovizia di particolari agghiaccianti, l’uccisione della moglie. Alla fine, dandogli la mano, mi sembrò che il sangue di questa povera donna finisse sulle mie mani. Andai a casa, mi lavai quasi con senso di ribrezzo, proprio un po’ come Francesco d’Assisi che, incontrando il lebbroso, istintivamente di fronte al cattivo odore scappò e poi tornò indietro. Dietro le parole di quell’uomo c’era la realtà tragica del male. Il male in carcere non è astratto, ha volti, ha storie terribili.

Mi ha aiutato in maniera veramente straordinaria a capire il senso dell’essere prete di fronte al male, quello che leggiamo in Matteo 5, 43-48: "Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti". Ho riscoperto dentro il mio cuore di prete e oggi di Vescovo, il senso della gratuità. A cominciare dai segni più semplici quale il sole e quale la pioggia. Nessuno di noi ha pagato il sole oggi, nessuno ha pagato la pioggia quando viene. E’ gratuita, non scende solo sui buoni o su quelli che vengono in chiesa. C’è la famosa battuta dell’ateo del paese che non va, come si faceva una volta, alle preghiere per la pioggia e gli dicono: "Ma tu non vieni a pregare per la pioggia?" e lui risponde: "Se piove sul tuo, piove anche sul mio, non ha senso che venga anche io, vai tu a pregare!" La battuta è anticlericale, ma in fondo dice una verità evangelica. Siamo amati non perché siamo buoni ma per divenire buoni, come diceva Lutero. In fondo siamo pastori proprio così come siamo, non perché lo meritiamo, ma per l’amore gratuito del Signore che ci deve far essere gratuiti con gli altri.

Mi piace riassumere con l’immagine del quadrilatero: il primo lato di questa gratuità è il saper dire sempre "Grazie", così da creare in noi il senso di una gratuità (secondo lato). Ma perché questo accada occorre alimentarsi dell’Eucaristia (terzo lato). L’eucaristia è il rendimento di grazie sacramentale, è la fonte della gratuità e del saper dire grazie. Allora il grazie, la gratuità e il rendimento di grazie, ci permettono di sconfiggere la grande insidia che c’è nel nostro cuore, specialmente nel nostro cuore clericale: la ricerca delle gratificazioni (quarto lato). Cosa cerchiamo? La gratuità o la gratificazione? Sono due parole quasi simili, ma sono due cose molto diverse. Auguro a voi, di essere gli uomini del grazie, che sanno essere capaci di quella gratitudine che si alimenta giorno per giorno nel "rendimento di grazie", vincendo la gratificazione. Allora diventiamo modelli e non padroni del gregge, perché tutto nasce da questa esperienza di gratitudine.

Aggiungo che l’esperienza di essere chiamati da Dio dona un atteggiamento interiore limpido che ci fa sentire primizia e non élite. L’essere chiamati, l’essere convocati, l’aver avuto questo grande dono, non ci rende superiori all’altro, ci rende di qualità diversa, ma non però – attenti bene – élite! La primizia dice: benedico Dio perché capisco il Vangelo, ma non perché sono più bravo degli altri; è una grazia per aiutare gli altri. L’albero con le sue primizie testimonia e anticipa tutti i frutti che matureranno. I preti devono essere di qualità, devono essere prima degli altri, devono avere un primato di Dio nel loro cuore, devono essere diversi dagli altri, ma non perché si sentono élite, ma perché si sentono primizie. La primizia salva la qualità, ma non è autocelebrativa, autoreferenziale. Non siamo "omologati" o livellati! Ognuno ha il suo dono per la gloria di Dio e per la carità. Gesù è la Primizia e il Primogenito per eccellenza.

 

2. Di fronte al male, il cristiano non usa la logica manichea, sottilmente presente anche oggi, che porta alla contrapposizione bene-male, ma la logica redentiva della trasformazione. La logica manichea è troppo comoda: butto via il male e mi tengo il bene. In realtà bene-male non sono mai divisibili in maniera netta.

Giovanni Paolo II nel suo libro "Memoria e identità", uscito qualche mese prima della sua santa morte, rileggendo il ‘900 si fa la domanda sul male. Citando il Faust chiede: "Che cos’è il diavolo?" Risponde utilizzando Goethe: "Il diavolo è quella potenza che vuole sempre il male, ma di fatto produce sempre il bene". È bellissima questa risposta!. È come se la vita fosse un grande fiume che porta veleno; per difenderti da queste acque limacciose devi costruire e alzare gli argini. Ecco che cosa è in fondo il compito di un prete: non è eliminare il male, come facevano gli dei antichi e come talvolta si dice anche oggi: "mettici una pietra sopra", pensando che i problemi si risolvano da soli. La soluzione cristiana è quella di accogliere tutti, specialmente la pecorella smarrita, cioè la realtà del male presente dentro di noi e attorno a noi. Questa visione dà una speranza diversa nella lotta contro il male: non porta alla logica manichea della separazione, ma alla visione cristiana redentiva della trasformazione.

A Colonia il Papa, il 21 di Agosto, ha fatto una bellissima omelia sull’eucaristia. Ha usato la parola "trasformazione", anche per motivi ecumenici, al posto della "transustanziazione". Nella notte del tradimento Gesù trasforma dall’interno la violenza brutale - la crocifissione – e la fa diventare un atto di amore, il dono totale di sè. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel Cenacolo, destinata a suscitare un processo di trasformazioni, il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo; finché Dio sarà tutto in tutti. È il cambiamento che da sempre gli uomini aspettano. Questo è l’atto centrale della trasformazione che da solo è in grado di rinnovare il mondo. La violenza si trasforma in amore e la morte in vita. Questo atto tramuta la morte in amore e la morte si apre alla resurrezione. È questa la fissione nucleare portata nell’intimo dell’essere, la vittoria dell’amore sull’odio, la vittoria dell’amore sulla morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince sul male suscita poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita, trascina poi con sé tutte le altre trasformazioni. Il Papa continua: pane e vino diventano il Corpo e il Sangue; con quel banchetto noi stessi veniamo trasformati a nostra volta nel Corpo di Cristo, diventiamo consanguinei di Lui. Mangiando tutti l’unico pane diventiamo finalmente una cosa sola.

Mi piace tantissimo la terza preghiera eucaristica: "Nella notte in cui fu tradito egli prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi". Qui vi è il gioco in latino del "tradere": l’essere tradito per violenza, il male che avanza ed è rappresentato da Giuda, ma in questa esperienza dell’essere tradito c’è il dono: Gesù dona se stesso. È la risposta al male. Noi siamo pastori se, uniti a Cristo, riusciamo a compiere questa trasformazione dentro il cuore dell’uomo. Per cui la pecorella smarrita diventa quella più cercata. I problemi della gente non ti fanno paura perché hai iniziato a trasformare il tuo male, hai incominciato a sentire diversamente le tue ferite e le tue cadute, le tue fragilità. Nulla si getta via. Insegno ai giovani a non gettar via nulla della loro vita. A non selezionare con ottica manichea, con la logica del successo che porta all’usa e getta.

Cristo si fa riconoscere da Tommaso non attraverso un miracolo eclatante, neanche attraverso un libro di teologia, ma tramite le sue ferite. Giovanni Paolo II nella "Dominum et Vivificantem", sulla scia della Kowalska, scrive questa bellissima frase: "Cristo ha trasformato le ferite in feritoie di grazia". Mi pare che il nostro compito di preti è tutto qui: trasformare non buttar via, trasformare le ferite del sangue, dell’odio, della mafia, della violenza, dei problemi, delle nostre difficoltà, in feritoie della grazia. Francesco d’Assisi, P. Pio, hanno affrontato tutte le accuse, le difficoltà anche nell’ambito della Chiesa, interpretandole come grazie. Credo che per vivere questo siano necessarie sia la mistica che l’ascetica, per cui esorto voi e esorto anche me, a vivere molto l’esperienza della Parola di Dio, quotidianamente. La lectio quotidiana ci aiuta a vedere i fatti con gli occhi di Dio, come ha ricordato anche il Papa Benedetto nella bellissima omelia di sabato scorso alla veglia di Pentecoste. "La Parola è puro latte spirituale" ci ricorda la lettera di Pietro quando dice:"Allontanate dunque ogni genere di cattiveria, di frodi, di ipocrisie, di gelosie, di maldicenza, come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale potete crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato quanto è buono il Signore" (1 Pt 2, 1-3).

Per vincere le insidie del male e delle ferite, occorre molto gustare. Non basta conoscere e amare Gesù. Noi preti dobbiamo saper gustare, come ci ricorda il bellissimo inno "Jesu dulcis memoriae". I medievali usavano molto l’espressione "Gesù è dolce". Nella bellissima espressione della Salve Regina diciamo: ""O clemente, o pia, o dolce vergine Maria". Gesù è dolce e gustandolo vinco l’amarezza del male. Più gustiamo la dolcezza di Gesù, più vinciamo l’amarezza del male, più possiamo diventare fra Crisostomo.

Permettete che vi citi un testimone attualissimo, don Andrea Santoro. Forse avete letto le sue lettere dalla Turchia. Vi consiglio questo libro perché è bellissimo, ha delle frasi straordinarie. Dice in una sua lettera: "Ora vi faccio intravedere qualcosa della steppa in cui mi è faticoso a volte camminare, ma in cui volentieri dò tutto me stesso cercando di essere io stesso un filo d’erba, anche se a volte mi sento una rosa piena di spine pungenti, quando avverto che per difendermi uso le spine. Allora mi rimetto sotto la croce, la guardo e mi ripropongo di seguire il mio fondatore, quello che non ha usato né spada né spine, ma ha subito le une e le altre, per spezzare la spada e toglierci il risentimento delle spine. Le spine del risentimento, dell’inimicizia e della ostilità. Gli chiedo di farmi grazia del Suo Spirito per tenere a bada queste reazioni". Ecco cos’è il pascere: è il tessuto di mitezza, è il tessuto di una fragilità fatta forza. Trovo molto bella la parola "fragilità" nel prossimo convegno di Verona. Ritengo che oggi l’Italia, la nostra Chiesa, aspetti una risposta su questo. Il senso della fragilità oggi è crescente, ma guai se lo viviamo nel senso manicheo. Trasformiamo la fragilità in forza, la persecuzione in beatitudine, la pietra scartata nella testata d’angolo.

3. A questo punto capiamo cosa vuol dire zelo. Se vivi questa esperienza di gratitudine, se vivi dentro di te la capacità redentiva e trasformante, è chiaro che sei anche capace, come dice Pietro, di esortare. L’esortare è la sintesi perfetta tra l’ideale e il reale. Non possiamo imporre lo zelo, la santità, ma proporlo sì. Dobbiamo esortare, diventando noi stessi modelli viventi con il fascino della sua presenza, con il fascino del profumo, diventando capaci di "stare davanti". Esortare è il tono della voce, esortare è la vicinanza rispettosa e chiara, esortare è accompagnare, specialmente i giovani. Esortare è lo stile del padre spirituale, esortare è il vero pastore, la cui voce giunge personalizzata. Certo l’esortare chiede la certezza di avere davanti il Pastore grande delle pecore che dona la vita e raccoglie quelle erranti. È il Pastore-Agnello.

Allora capiamo i tre sì e i tre no della 1 lettera di Pietro.

I tre no sono: pascere non per forza perché costretti, non per vergognoso interesse, non come padroni.

I tre sì sono: volentieri e in obbedienza, con animo generoso e come modelli del gregge.

Credo che nell’esame di coscienza possiamo confrontarci con questi tre no e tre sì. Abbiamo un’ottima griglia per capire se viviamo bene il sacerdozio. Dentro qui ci sono anche i tre voti che ci chiedono di verificare le motivazioni. Gratuità, povertà e sobrietà definiscono uno stile di servizio in castità e verità. In fondo si tratta della carità pastorale, la parola centrale che noi vescovi abbiamo usato nel documento che dovrebbe uscire sulla formazione dei sacerdoti.

Chiudo con una storiellina che mi è capitata diversi anni fa. Incontrai in cima all’Aspromonte un pastore che aveva tantissime greggi. Sapeva del mio arrivo ed era tutto onorato che arrivasse il vescovo a salutarlo. Quando sono arrivato mi disse:"Oh benvenuto!" – e aggiunse: "Io e lei siamo colleghi". Davanti al mio stupore di sentirmi salutare così da questo pastore, vestito poveramente, continuò: "Perché si meraviglia? Lei non è pastore?" "Si", risposi io, e lui: "Io sono pastore e non pecoraio. Pecorai si nasce, pastori si diventa!". Gli chiesi: "Qual è la differenza?" "Le pecore sentono di essere accompagnate dal loro pastore. Vede quel giovane. È un bravissimo pastore. È venuto a mancare per quattro o cinque giorni per motivi di famiglia e le pecore hanno dato il 50% di latte in meno. Perché le pecore hanno sentito la mancanza del loro pastore. Quando c’è si sentono sicure, quando non c’è no. Pecorai si nasce, pastori si diventa".

Omelia

Ho celebrato molte volte in questa bellissima chiesa con altri Vescovi, ma mai mi era capitato di celebrare nelle ore del mezzogiorno. In questo momento si gusta in pienezza la forza della luce che trasfigura ogni cosa e dà visualità intensa, dà colore e sapore ai sentimenti alla preghiera. La bellezza di questa Basilica dà ancora più intensità al nostro ritrovarci qui, al carisma di questa suora che con umiltà e tenacia ha costruito questo luogo insieme ai suoi figli e dà vastità di orizzonti alla Parola ascoltata.

Vorrei sottolineare lo stile con cui Gesù si è avvicinato a questo giovane. Lo stile di Gesù è lo stile del maestro. Abbiamo meditato il suo essere pastore, ora è maestro. Lo è con tre modalità efficacissime anche per noi. Alla domanda chiara, intensa, fatta con cuore limpido come questa luce di oggi: qual è il primo di tutti i comandamenti, Gesù ascolta attentamente, risponde con puntualità e incoraggia paternamente. Vediamo queste tre cose. Innanzitutto sa rispondere bene: "Il primo comandamento è ascolta Israele, il Signore Dio nostro è l’unico. Amerai il Signore con tutto il cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza; amerai il prossimo tuo come te stesso". Risponde lo scriba: "È vero, maestro, hai detto bene. Il Signore è unico non v’è altro all’infuori di lui, amarlo così come tu ci hai insegnato, val più di tutti gli olocausti e i sacrifici". Allora Gesù lo incoraggia: "Vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: Non sei lontano dal regno di Dio".

Ecco le tre modalità che mi sembrano decisive anche per noi: rispondere con puntualità e rispetto, ascoltare le obiezioni con attenzione e poi incoraggiare i germi di bene presenti nel cuore di tutti. Dio ci doni questo stile intenso e rispettoso, specialmente con i giovani. Dovremmo rivalutare la nostra presenza nelle scuole che abbiamo un po’ abbandonato. Come preti possiamo portare nelle scuole questo stile di domanda e risposta. In varie scuole superiori ho cercato di mettere quasi un cappellano, un prete giovane che stia con loro, che dialoghi, e a volte si renda disponibile per eventuali richieste di confessione. È una presenza di rispetto, non di imposizione, di proposta e di speranza, di incoraggiamento, con lo stile di Gesù: ascolto, risposta e incoraggiamento. Hanno bisogno immensamente i giovani di una presenza del prete che possa dire loro: "non sei lontano dal Regno di Dio!" Sento che dentro di te c’è un cuore grande. Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza". Questa totalità affascina i giovani che possono così innamorarsi di Gesù, di questo Gesù dolce, che sentono nel tuo cuore. La totalità conquista sempre. Cielo e terra, ideale e reale, la vicinanza e la lontananza, il sogno e il segno. I giovani hanno bisogno del sogno e del segno, dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, della bellezza di un sogno più grande di noi, come questa luce, e della concretezza di segni precisi, amabili e ben presentati, la grandezza di un sogno e la concretezza di un segno. Ama Dio con tutto il tuo cuore e ama il tuo prossimo come te stesso.

Paolo, con la sua chiarezza, ci dona nella seconda lettera a Timoteo, nella quale in qualche modo sintetizza tutta la sua vita, quelle parole che abbiamo meditato questa mattina: "Ricorda quando il Signore ti ha chiamato, richiama alla mente il momento in cui ti sei innamorato di Lui, ricorda". Certo ci sono anche le prove, le catene, come no! Le catene nelle quali talvolta la vita ci porta, possono essere pesanti. Ma la Parola non è incatenata, non è legata ai nostri limiti, non è legata alle nostre fragilità! Non accentuiamo i nostri problemi, non accentuiamo le nostre difficoltà pastorali! La parola di Dio non è incatenata, non mettiamola dentro a schemi troppo rigidi, lasciamola vibrare con la sua forza, facciamola nostra in pienezza! Cristo è fedele sempre, non rigetta mai nessuno, non rinnega. Anche se noi avessimo la fragilità di rinnegarlo, Lui resta fedele.

Con la grazia fedele del Signore possiamo vivere come Paolo raccomandava a Timoteo: come uomini onesti e sinceri, lavoratori che non hanno di che vergognarsi, capaci di fare le scelte giuste, pastori che dispensano scrupolosamente la parola di verità.

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ultimo aggiornamento 18 agosto, 2006