Ogni uomo è una storia sacra
Dal libro: J. Vanier, Ogni uomo è una storia sacra, EDB
I muri tra ricchi e poveri
Quando si accetta l'idea che ogni essere umano è una storia sacra, che ogni persona ha i suoi diritti e le sue responsabilità, non si riesce più a tollerare che fra ricchi e poveri ci sia quel muro che separa e che opprime. In alcuni paesi dell'America Latina e dell'Asia si leva così il grido dei contadini senza terra e senza diritti contro le poche famiglie che possiedono la maggior parte dei terreni. E le popolazioni autoctone dell'America del Nord e dell'Australia protestano contro coloro che sono andati a impadronirsi delle loro terre, che li hanno oppressi, che li hanno considerati come esseri inferiori.
Sulla riva del lago Michigan, dove sorge la città di Chicago, c'è la "Gold Coast", la Costa d'Oro. Palazzi di gran lusso formano il quartiere dove abitano le persone più fortunate della città. Ma solo a qualche isolato di distanza, all'interno della città, c'è il quartiere dei neri; le case sono malridotte, le strade sono sporche: un mondo in frantumi, un mondo di violenza. Fra i quartieri ricchi e il ghetto nero è come se ci fosse un grande muro. Gli abitanti dei due quartieri non possono comunicare fra loro. La paura impedisce loro di farlo. I ricchi hanno il potere e la polizia; hanno paura di quel mondo di povertà; si sentono forse colpevoli della propria ricchezza? I poveri vivono spesso in un clima di depressione e di rabbia. Sembra che i ricchi siano benedetti da Dio e che loro siano i maledetti, abbandonati alla violenza, alla miseria e alla morte.
Ai nostri giorni, in tutti i paesi aumenta la terribile sofferenza dei disoccupati, uomini e donne che a volte perdono la fiducia in se stessi, nelle proprie capacità di esseri umani. Sono preoccupati. A volte passano da un fallimento all'altro, da un rifiuto all'altro. Si vergognano di se stessi di fronte ai propri figli. Sono circondati da un muro di tristezza.
Nei Salmi (un libro della Bibbia) si dice che Dio ascolta il grido del povero. Noi esseri umani abbiamo terribilmente paura di questo grido che disturba la nostra vita comoda, la nostra sicurezza, il nostro benessere. Noi evitiamo i poveri; non vogliamo vederli. In un paese africano, un responsabile a cui ho spiegato che cos'è l'Arca mi ha detto: "E bene che veniate nel nostro paese. Bisogna che togliate i pazzi dalle strade della città". Il povero dà fastidio, disturba. Risveglia in noi sentimenti ambivalenti di pietà, di collera, di disagio interiore, e forse un certo senso di colpa più o meno riconosciuto. Il povero rivela il nostro egoismo, la nostra povertà umana, i nostri rifiuti di solidarietà. Non stupisce che il ricco si difenda e cerchi di nascondere i poveri dietro a un muro.
Il muro della competizione: essere il migliore
A scuola, come dovunque nella cultura occidentale, mi hanno incitato a essere il primo. Bisognava che fossi il migliore, nello studio come nello sport. In marina dovevo cercare di eccellere, di essere apprezzato dai superiori, di vincere sempre, di avere sempre successo, di conquistare la stima e di ottenere la promozione che porta con sé una serie di privilegi e uno stipendio più alto. Ogni individuo è responsabile della propria riuscita nella vita.
La competizione presenta indubbiamente dei vantaggi: il desiderio (il bisogno) di primeggiare induce a impegnarsi, a spendere tutte le proprie forze. Si lotta quindi contro la pigrizia o contro un certo lassismo. La competizione risveglia energie nascoste; favorisce lo sviluppo del potenziale umano dell'individuo, e di conseguenza del potenziale di tutta la società e di tutta l'umanità. Ma se alcuni vincono, i più sono perdenti. La cultura dominante spinge allora a disprezzare o a rifiutare quelli che non hanno successo, quelli che non possono farcela. La forza, l'abilità e la capacità di primeggiare diventano gli unici valori. Chi non può avere successo non ha valore, e viene scartato. Sviluppa allora un'immagine ferita di se stesso, si scoraggia e si sente incapace, impotente, squalificato.
Aristotele dice che le persone che non si sentono amate provano il bisogno di farsi ammirare. Se non si è né amati né ammirati, è come se si morisse. L'essere umano ha bisogno degli occhi degli altri, occhi che apprezzano, che amano, che ammirano, che confermano. Se quegli occhi non ci sono, se quegli occhi esprimono disprezzo, paura o rifiuto, se quegli occhi non lo guardano (come se non esistesse), allora per lui è il vuoto, I'angoscia, la depressione. Faremmo qualsiasi cosa pur di trovare uno sguardo che ci approvi e ci valorizzi.
Un amico sacerdote, che era cappellano di un carcere, mi ha parlato di un detenuto che un giorno gli aveva chiesto: "Ti piace dire la messa? La dici bene? Ti piace predicare? Predichi bene?". Il mio amico aveva risposto affermativamente, un po' imbarazzato da tutte quelle domande. Allora il detenuto gli aveva detto: "Ebbene, io sono il miglior ladro di automobili di Cleveland, e questo mi dà soddisfazione!". Se non si è amati e ammirati per le proprie capacità positive, si cercherà di essere ammirati per le proprie capacità di distruzione e persino di odio. Nel cuore umano, c'è un estremo bisogno di essere i più forti e i migliori agli occhi di qualcun altro. È una questione di vita o di morte.
C'è il desiderio di conquistare personalmente la posta in gioco. C'è anche il desiderio che vinca il gruppo a cui si appartiene. Per rendersene conto, basta vedere l'appassionato interesse con cui molti seguono in televisione una partita di rugby o di calcio. Gridano, applaudono, piangono, vivono mille emozioni guardando la loro squadra che si butta su un povero pezzo di cuoio pieno d'aria, per vincere o per perdere. Le competizioni sportive sono a volte di una bellezza eccezionale, offrono uno spettacolo di straordinaria maestria. Molto spesso, però, quello che si cerca non è la bellezza dello spettacolo, ma l'identificazione con il gruppo che vince.
Un giorno camminavo con Nadine per le strade di Tegucigalpa, in Honduras. All'improvviso, sembrava che tutta la gente fosse impazzita: saltavano, urlavano di gioia, si abbracciavano. Non riuscivamo a capire che cosa stesse succedendo. Poi Nadine si è ricordata che c'era una partita di calcio: I'Honduras giocava contro il Guatemala; tutti quegli esagitati stavano ascoltando la cronaca della partita con la loro radiolina!
Più si è privi di un'identità personale, più si manca di successo personale, più si sprofonda nel fallimento, e più si ha bisogno di identificarsi con un gruppo, una classe sociale, un paese, una razza o una religione vincente. L'amore per la patria, per la propria razza o per la propria religione può diventare un potente stimolo per risvegliare le energie degli individui, spingendoli a gettarsi nella mischia e a lottare con tutte le loro forze perché il loro gruppo di appartenenza risulti vincente e riesca ad avere la meglio sugli altri.
Il bisogno di vincere e di avere successo può anche essere legato al desiderio di rivestire un ruolo che conferisca dei privilegi, di esercitare il potere, di imporre la propria volontà agli altri. Alcuni esercitano il potere con l'unico desiderio di mostrare la propria superiorità. Per sentirsi vivi, hanno bisogno che la loro potenza sia chiaramente manifestata. Esercitano il potere gridando, rifiutando qualsiasi autorizzazione o facendo delle concessioni soltanto per essere popolari. Non esercitano il potere per il bene degli altri, per il loro sviluppo e la loro crescita, ma soltanto per la propria gloria. È uno dei pericoli che minacciano chi vuole lavorare per i deboli: il bisogno di sentirsi superiori, di imporre il proprio progetto, il proprio modo di vedere, la propria libertà, la propria superiorità.
Generalmente il bisogno di essere vincenti è tanto forte da far sì che piccoli disaccordi degenerino in aspri e futili litigi. Quante discussioni astiose per dimostrare di aver ragione, e su cose di nessuna importanza! Quanti litigi fra marito e moglie per dimostrare che "ho ragione io, e tu hai torto!". Sentirsi impotenti, avere torto, non farcela, sono esperienze che generano un sentimento di morte. A volte si è pronti a imbrogliare, a mentire, a ricorrere a ogni genere di mezzi ingiusti e illegali per avere il potere, per essere in grado di esercitare la propria influenza sugli altri, per essere riconosciuti e considerati.
La tendenza a imbrogliare e a mentire per conquistare il potere e mantenerlo ad ogni costo si manifesta in maniera particolare nella vita politica, che degenera rapidamente in una lotta e in una competizione fra partiti e fra candidati per il potere in quanto tale. Si cerca di ingannare tutti, di mostrare quell'immagine di sé che è necessaria per conquistare o per conservare il potere. Per questo gli uomini che arrivano al potere diventano inaccessibili: si nascondono dietro a una serie di segretari, di capi di gabinetto, di guardie del corpo, e a volte tutto ciò non serve che a nascondere la loro incompetenza, la loro povertà umana, la loro incapacità di ascoltare le persone o di utilizzare il potere per servire gli altri secondo uno scopo prestabilito.
Il bisogno di potere, per alcuni, sembra essere illimitato. Vogliono estendere sempre più il loro impero, la loro area d'influenza. I dittatori e i capi mafia sono fra gli esempi più palesi di questo sfrenato desiderio di comandare, di essere come Dio e di non sottomettersi a nessuno. In molti esseri umani si nasconde un piccolo dittatore. Forse sono persone che esercitano il loro potere soltanto su un gruppo ristretto (i dipendenti, la moglie, il marito, i figli...), ma il dittatore è dentro di loro, pronto a emergere per dominare, controllare, imporre la propria superiorità.
Una grande barriera separa quelli che hanno avuto successo da quelli che hanno conosciuto il fallimento, I'uomo ricco da Lazzaro. Da una parte c'è la vita, dall'altra la morte. E si cerca la vita a qualunque costo, anche sacrificando la verità, la giustizia e la compassione. Per vincere non si esita a sopprimere il concorrente, a dimostrare che è malvagio, a gettare il sospetto sui suoi costumi e sulla sua vita privata, a denigrarlo. Ma il numero di coloro che rimangono al di là del muro continua a crescere; e viene il giorno in cui si mettono insieme. La loro collera di fronte all'ingiustizia diventa talmente grande, che a un certo punto esplode la violenza. Gli oppressi prendono il potere. Succede però che a loro volta opprimono quelli che li avevano oppressi, fino al giorno in cui i nuovi oppressi si ribellano. Così la storia dell'umanità genera sempre nuove violenze.
Nel nostro universo c'è l'alto e il basso, il sole e il fango, il bello e il brutto. Gli esseri umani si dividono ben presto in due categorie: i puri e gli impuri, i buoni e i cattivi, i virtuosi e i peccatori, i capaci e gli incapaci. Un muro separa gli uni dagli altri. I figli dei buoni non devono giocare con i figli dei cattivi. Dalla parte dei puri si sviluppa un sentimento di superiorità e di orgoglio. Dalla parte degli impuri, degli alcoolizzati, dei drogati o di coloro che vivono una sessualità al di fuori delle regole, si sviluppa un sentimento di colpa, di confusione, di disperazione e di depressione. L'immagine che tutti costoro hanno di se stessi è un'immagine frantumata.
Oggi, I'AIDS è la malattia della vergogna. Il fratello di un assistente dell'Arca è morto di AIDS verso le tre del pomeriggio di un venerdì santo. Suo padre, quando aveva saputo della sua malattia, non aveva più voluto vederlo. Un muro di vergogna li separava.
C'è una storiella che forse tutti conoscono: un capo ufficio se la prende ingiustamente con uno dei suoi impiegati. Quest'ultimo si sente offeso, ferito, ma non osa replicare. Torna a casa molto irritato. Il pranzo non è pronto, e l'uomo se la prende con la moglie, scaricando su di lei la sua angoscia e la sua collera. La donna a sua volta non osa rispondergli, ma vede il figlio che sta prendendo qualcosa dal frigorifero e lo sgrida. Il ragazzo tace, esce di casa e dà un calcio a un cane. L'aggressione si trasmette da una persona all'altra, da un gruppo all'altro, da una generazione all'altra. Suscita la paura, che a sua volta provoca il desiderio di distruggere. E c'è sempre un ultimo della serie che non è in grado di rispondere: subisce l'aggressione e tace, ferito. Questa è spesso la situazione in cui vengono a trovarsi gli handicappati mentali.
La paura della diversità
Quasi tutti facciamo parte di un gruppo di persone simili, che condividono le stesse certezze e gli stessi valori. Ogni gruppo (nazionale, razziale, politico, religioso o antireligioso) si considera il migliore e ritiene di essere nel vero. Gli altri vengono più o meno rifiutati, sono dalla parte del torto. Un muro ci separa da loro. È così facile giudicare l'altro, ed è così difficile giudicare se stessi e il proprio gruppo! Il diverso, lo straniero, mette a disagio. La sua vita, le sue certezze, il suo modo di vedere e di affrontare la realtà, le sue abitudini, le sue tradizioni, la sua lingua, i suoi valori religiosi sono così diversi che si fa fatica a comprenderli, a rispettarli e soprattutto a integrarli. Le certezze di quelli che sono diversi da noi mettono in discussione le nostre certezze; ci fanno vacillare e seminano il dubbio dentro di noi. Più si è creduto di trovare la vita nel sentimento della propria superiorità, nutrendosi di illusioni sulla propria bontà o sul proprio senso della verità, più ci si è chiusi nel rifiuto di vedersi come si è, e più ci si sente a disagio di fronte allo straniero, al diverso. Non si vuole ascoltarlo veramente, a cuore aperto; se lo si ascolta, lo si fa con diffidenza e con paura, interpretando le sue parole secondo uno schema preconcetto.
Le paure generate dalla diversità possono insinuarsi anche fra l'uomo e la donna e fra le generazioni: i genitori sono convinti di sapere che cosa è bene per i loro figli; gli adolescenti, dal canto loro, giudicano i genitori; non vogliono sentirsi dire da loro quello che devono fare; vogliono agire liberamente. Sorgono così delle barriere fra le persone e fra i gruppi.
Ogni gruppo, ogni religione, ogni razza, ogni nazione, ogni individuo ha bisogno di affermarsi come il migliore, I'élite, I'unico, il solo che possiede la verità, come se il nostro mondo si reggesse esclusivamente sulle leggi della rivalità e della competizione. Ognuno vuol credere, affermare, far vedere di essere il primo, e per dimostrarlo si arma di argomentazioni, e a volte anche di mitra e di bombe.
I muri che proteggono
I muri non sono soltanto realtà negative, che separano e dividono gli esseri umani. I muri proteggono anche la vita e le permettono di crescere. Il seno materno protegge il piccolo essere che è appena stato concepito. I muri di una casa salvaguardano l'intimità e la vita di una famiglia; danno sicurezza. Ogni persona, per vivere e prosperare, ha bisogno di uno spazio privato, di uno spazio di solitudine; ha bisogno di difendere la vita che ha dentro di sé, soprattutto nei momenti di debolezza, di stanchezza e di malattia. In linea generale, I'essere umano tende a mettersi al riparo, spesso inconsciamente, da ogni situazione che può metterlo in pericolo a livello psicologico. Il panico si impadronisce di noi quando il nostro spazio privato viene violato, quando un estraneo si awicina troppo al nostro corpo, alla nostra persona e alla nostra terra. I muri proteggono la vita. Non si può non riconoscere che nel nostro universo, nelle nostre società, ci sono forze ostili contro cui è necessario premunirsi.
Allo stesso modo, per vivere umanamente è necessario avere un'identità, appartenere a un gruppo che condivide gli stessi valori e che dà una certa sicurezza. Senza questa identità, chi siamo? Ci dileguiamo nel caos, o in ciò che gli altri vogliono che siamo; non esistiamo più. A volte, bisogna aiutare le persone a scoprire e ad approfondire la propria identità offrendo loro dei muri dietro a cui nascondersi. In seguito potranno aprirsi progressivamente agli altri.
I muri mettono un individuo al riparo da una violazione o da un'invasione, ma proteggono anche gli altri dai suoi desideri omicidi e dalle sue pulsioni istintive; impediscono alla violenza di uscire da lui. Le persone prive di barriere interiori sono troppo vulnerabili; la loro violenza può esternarsi troppo rapidamente e fare del male agli altri. Per questo motivo possono essere necessari gli ospedali psichiatrici e le carceri (ovviamente gestiti in modo umano e terapeutico) per curare certe persone e restituire loro il senso della loro dignità umana.
Il rischio è quello di trasformare i muri necessari per la protezione, l'approfondimento e la crescita della vita in muri di paura, di intolleranza e di posizioni aprioristiche. La grande sfida, per l'essere umano, sta dunque nel riconoscere quando è necessario mantenere certi muri perché proteggono la vita e quando è necessario abbatterli per accogliere persone che sono diverse, in vista di un arricchimento reciproco. Come arrivare a questo? Come scoprire la nostra comune umanità nel cuore di tutte le nostre differenze? Sono le domande a cui cercheremo di rispondere in questo libro.
Vorrei ora far vedere come l'essere umano sia fatto per la comunione e per la pace, tentando di comprendere i motivi per cui sorgono i muri interiori. Tutti i muri esterni, infatti, non sono che la proiezione dei nostri muri interiori. Questi muri (compresi i muri dei pregiudizi e dell'odio) non sono statici, immobili, fissi. Sono i muri della paura e della vita: la vita è in crescita, è in movimento, e la paura può scomparire. Il muro che in un determinato momento offre un riparo, può diventare una barriera che impedisce la vita; e la barriera che impedisce la vita può scomparire sotto la spinta della fiducia che rinasce.
Uno dei muri che mi impressionano di più è quello che si costituisce intorno al cuore e alla mente delle persone che vengono definite come "psicotiche". Questo muro, che sembra molto consistente, si è formato per proteggere la persona dalle insopportabili angosce provocate frequentemente dal rapporto con gli altri. Il malato che soffre di una psicosi nasconde spesso nel profondo di sé una vita particolarmente ricca, una rara sensibilità. Se questa persona si trova in un ambiente adatto e riceve il sostegno e l'aiuto necessari, nel muro si aprono delle fessure e la comunicazione può essere ristabilita.
Il muro di Berlino è scomparso senza che si sparasse nemmeno un colpo. È crollato come certi ruderi, sgretolato dalla forza della vita e del desiderio di libertà. Il muro dell'apartheid è caduto sotto la spinta di migliaia di uomini e di donne come Mandela e De Klerk, che hanno creduto con audacia nella libertà umana e nella comunione universale. Allo stesso modo, un serio processo di pace si è avviato fra Israele e i palestinesi.
La paura di amare
Con la comparsa della ferita, dell'angoscia e del senso di colpa, nel bambino nasce a poco a poco un mondo nascosto. Il bambino cerca di distogliere la propria attenzione da quel mondo di sofferenza, cerca di dimenticarlo, di eluderlo, di evitarlo. Si sforza di respingerlo in qualche zona segreta del suo essere, come se non fosse mai esistito. Ma quel mondo di sofferenza rimane dentro di lui, come una sorta di malattia occulta. E fra questo mondo rimosso e la sua coscienza si interpone un muro. A volte, questo muro è di notevole spessore: è il muro di una psicosi, che sembra avere cause sia organiche che psicologiche. Il muro protegge il bambino. Non è soltanto una realtà negativa. Senza di esso, il bambino avrebbe potuto morire di angoscia e di paura.
La forza e la bellezza della natura umana e della vita stanno in quell'energia vitale che continua a circolare nonostante le sofferenze e i muri; il bambino cresce; fa progressi; deve vivere e sopravvivere. Deve superare quel peso, quel senso di morte dentro di lui. Le sue energie non circolano più al livello della relazione, della comunione: questo terreno è troppo pericoloso. Si rivolgono invece verso acquisizioni e attività che gli permettono di dimostrare a se stesso, ai suoi genitori e agli altri che è qualcuno, che ha delle capacità, che è degno di stima.
Nel cuore di ogni essere umano nasce in tal modo una sofferenza profonda, un'ambivalenza nei confronti dell'amore. Si vuole la comunione (il cuore a cuore) con un altro essere umano, ma nello stesso tempo se ne ha timore. La comunione appare come il luogo segreto della felicità, perché almeno per un momento il bambino l'aveva gustata. Ma appare anche come un luogo di morte, di paura, di colpevolezza, perché il bambino ha vissuto la comunione spezzata e le false comunioni (le manipolazioni affettive e i comportamenti possessivi che hanno soffocato il suo essere e la sua libertà). L'alterità gli appare dunque come una dimensione pericolosa.
L'essere umano si trova in qualche modo costretto a distogliersi dalla comunione per investire altrove le proprie energie. La comunione viene negata: non è possibile. Diventa un gioco senza fondamento. Sartre, nel suo L'Etre et le néant (L'Essere e il nulla), afferma che l'amore è un miraggio creato da un genio malvagio. Ha le sembianze della felicità, ha le sembianze di una luna di miele, ma in realtà è una lotta, una conquista, una libertà che si accinge a divorarne un'altra.
La comunione è possibile? È un miraggio creato da un genio malvagio, 0 è il luogo di una presenza di Dio? Questo è l'interrogativo fondamentale che si pone all'essere umano che è in cerca di unità, di pace, di libertà, di luce, di amore, ma che è scoraggiato da tutte le forze opposte che si trovano dentro di lui e intorno a lui.
Essere il migliore
Ogni essere umano (e dico proprio ogni essere umano) ha fatto l'esperienza della comunione spezzata, falsa o impossibile. All'interno di ciascuno di noi esiste un mondo dimenticato fatto di sofferenza, di morte e di sensi di colpa. La ferita può essere più o meno grande. Ma c'è un'affinità fra coloro che vivono il fallimento (il barbone, l'alcolizzato, l'individuo ridotto in miseria, l'uomo o la donna che soffrono di depressione) e coloro che lavorano instancabilmente per il proprio successo personale, o addirittura per grandi cause (manager, uomini e donne che hanno abbracciato la carriera politica, star, militanti, ecc.). Malgrado le apparenze, il fondamento del loro psichismo è sostanzialmente identico, pur con tutta una serie di varianti e di sfumature diverse. Nel primo caso, è la depressione che ha spinto la persona a bere, a lasciarsi andare, a sentirsi vittima, e nel secondo caso è ancora la depressione a produrre una sorta di bisogno imperioso di salvare gli altri, di essere protagonisti, di essere riconosciuti, di trovare la propria identità nell'ammirazione, nel potere e nel successo.
Questo disagio interiore, questo senso di colpa, questa mancanza di autostima, questo sentimento di morte è come un motore che spinge l'essere umano ad agire per riscattare il proprio senso di colpa e per dimostrare a se stesso di appartenere a un'élite, di essere fra i migliori. Questo bisogno di ottenere dei premi, di salire la scala della promozione umana, può presentarsi fin dall'infanzia e durare per tutta la vita. Se il bambino riuscirà ad essere il primo a scuola o nello sport, i suoi genitori saranno contenti, e lui godrà della sicurezza che deriva da questa situazione. Come abbiamo visto, la soddisfazione del bisogno di essere vincenti può essere cercata anche attraverso il gruppo a cui si appartiene. La costante ricerca del successo comporta inevitabilmente dei disturbi sul piano relazionale.
L'immagine ferita di se stessi è una realtà personale causata dalle sofferenze della vita relazionale del bambino con i suoi genitori. Ma può essere anche una realtà culturale e sociologica, più o meno trasmessa attraverso le sofferenze dei genitori e la cultura dell'ambiente sociale in cui il bambino è cresciuto. Ci sono gruppi di persone oppresse che sono sempre state disprezzate a causa della loro razza, della loro religione, del loro statuto sociale, dell'etnia a cui appartengono. Questo disprezzo influisce negativamente sulla loro immagine di sé e a volte genera un sentimento di vergogna.
Il muro interiore
Il muro psichico che si è creato intorno al cuore vulnerabile di ciascuno di noi per nascondere e far dimenticare le nostre ferite, la nostra fondamentale povertà, permette a ciascuno di vivere e di sopravvivere, di non sprofondare in un mondo di depressione e di rivolta. A partire da questo muro, e spinto dal bisogno di dimenticare quel doloroso mondo interiore e di mettere alla prova se stesso, ciascuno avanza lungo la strada della vita verso nuove acquisizioni e verso il riconoscimento di sé... oppure sprofonda in atteggiamenti depressivi.
Dietro al muro, nascosti nell'inconscio, non ci sono soltanto aspetti negativi, frutto della comunione spezzata, ma c'è anche la ricerca fondamentale della vera comunione, ci sono energie latenti (che dormono) fatte per amare. Dietro al muro si nasconde quanto vi è di più ferito e di più sporco nell'essere umano, ma anche quanto vi è di più bello; c'è un potenziale di gioia e di amore, ma anche un'immensa paura dell'amore e delle sofferenze legate all'amore. L'essere umano agisce spesso a partire da questo muro: il suo io aggressivo, in cerca di riconoscimento, rifugge abilmente da tutto ciò che rischia di fallire e di svalutarlo. Così le sue azioni sono improntate a una forma di egoismo accanito che gli si appiccica addosso. Agisce per mettersi alla prova, per accrescere l'immagine positiva che ha di sé, per alimentare la propria gloria. La paura più grande, per l'essere umano, è quella di non esistere, di essere svalutato, giudicato, condannato, rifiutato come un individuo scadente. Sotto certi punti di vista, i filosofi pessimisti hanno ragione: I'essere umano è costantemente in lotta per conquistare ad ogni costo (anche a costo di sminuire altri) il successo e l'ammirazione.
Questo muro separa dalla sua sorgente l'essere umano. Quest'ultimo non è più come gli uccelli, i pesci del mare o il mondo vegetale, che si sviluppano e danno vita ad altri esseri a partire dalla propria sorgente. Gli animali non si nascondono dietro a nessuna maschera; non sono condizionati dal bisogno di avere successo, di ottenere applausi e riconoscimenti. Ogni essere vivente vive in un modo semplice e trasparente. Può senza dubbio aver paura di un pericolo, ma ciascuno sembra avere quella fiducia in se stesso che gli permette di essere quello che è. La ferita del cuore umano sembra invece impedire all'uomo di essere semplicemente quello che è. Cosi l'uomo diventa un essere competitivo che cerca di dimostrare la propria appartenenza all'élite e di nascondere i propri limiti, oppure diventa una vittima, un essere che manca di fiducia in se stesso e che è assetato di tenerezza. Separato dalla propria sorgente, è separato dalla sorgente dell'universo. Non è più a servizio del tutto, dell'universo; è a servizio di se stesso oppure sprofonda nella depressione.
Questo muro è il punto di partenza di tutte le azioni di forza, di potere e di conoscenza che inducono l'essere umano a essere soddisfatto di se stesso. L'individuo cerca di assumere una posizione di forza attraverso tutti i meccanismi di difesa e di protezione che crea intorno alla propria vulnerabilità. Ci sono uomini d'affari tutti presi dai loro progetti e incapaci di ascoltare la moglie 0 i figli; incapaci persino di comprendere le sofferenze, i bisogni di un altro. Sono chiusi nel loro lavoro, l'unica cosa che li fa vivere.
La paura del povero che grida il suo bisogno
Un giorno, mentre camminavo lungo il boulevard Saint-Germain, a Parigi, mi si avvicina una donna: "Dammi dieci franchi!". Mi fermo. "Perché hai bisogno di dieci franchi? - Non ho mangiato! - Perché non hai mangiato?". La donna comincia a parlare. Mi dice che è appena uscita da un ospedale psichiatrico. Mi parla un po' del suo passato, della sua famiglia. La conversazione assume un carattere personale, e all'improvviso mi rendo conto che se continuo a parlare con quella donna rischio di oltrepassare il punto di non-ritorno nella relazione. Sarei praticamente costretto a dedicarle del tempo, forse molto tempo. Ho paura. Le do dieci franchi e me ne vado.
Perché questa paura? Era una donna con grandi aspettative, in una situazione di grave difficoltà personale, una donna sola che probabilmente aveva vissuto parecchi abbandoni. Aveva bisogno che qualcuno le dedicasse molto tempo, e io avevo i miei appuntamenti. Molto spesso i nostri progetti o i nostri programmi ci forniscono il pretesto per non aiutare il povero. Era il caso del sacerdote e del levita nella parabola del buon samaritano. Era anche il mio caso. Ma le mie paure derivavano forse anche dal fatto che temevo di non riuscire, di non poterla aiutare, o forse, a un livello più profondo, temevo che, se fossi entrato in relazione con lei e l'avessi ascoltata, avrei risvegliato in lei dei bisogni a cui non avrei potuto dare una risposta, dei bisogni senza limiti. Quella donna forse aveva bisogno di un uomo che fosse nello stesso tempo padre, madre, assistente sociale, amico, fratello e (perché no?) marito. La sua richiesta affettiva era come una voragine senza fondo, in lei c'era l'urlo del bambino abbandonato o maltrattato dal padre e dalla madre. Avevo paura che la mia vita venisse inghiottita dall'immenso abisso dei suoi bisogni. Avevo paura di perdere la mia libertà, il mio essere. Può anche darsi che semplicemente io non volessi essere disturbato; avevo i miei problemi e le mie difficoltà, non volevo aprirmi alle sofferenze di un altro. "È meglio pensare ai fatti propri". Forse anche lei aveva paura. Forse si chiedeva chi fosse quell'uomo che a poco a poco instaurava un rapporto con lei, ascoltandola seriamente. Forse era già stata ingannata mille volte: aveva riposto le proprie speranze in qualcuno che poi se n'era andato. Forse era colta dal panico di fronte a una relazione, temeva che l'altro scoprisse le sue difficoltà e l'abbandonasse... ancora una volta. I suoi meccanismi di difesa potevano impedirle di iniziare una relazione. Forse eravamo dominati dalle due forme di panico più fondamentali che possono invadere l'essere umano: la paura dell'abbandono e la paura di essere divorati dall'altro.
La relazione che è fonte di angoscia
Un'esperienza dolorosa vissuta all'Arca mi ha rivelato in modo particolarmente efficace il mondo di tenebre che si nasconde dentro di me. Si tratta della presenza di Lucien, un uomo affetto da un grave handicap, con il corpo paralizzato, incapace di parlare, di camminare o di occuparsi di se stesso, incontinente. Per trent'anni era vissuto con sua madre, che si era occupata di lui con grande pazienza e tenerezza. Lo capiva. Sapeva interpretare il più piccolo dei suoi gesti o dei suoi gridi, e rispondeva con amore. In trent'anni, era l'unica persona che l'aveva toccato (suo padre era morto quando lui era ancora piccolo). Un giorno, la madre ha dovuto essere ricoverata in ospedale, ed è stato necessario ricoverare anche Lucien, perché non c'era nessuno che si occupasse di lui. Lucien non capiva più nulla. Improvvisamente separato dalla persona che lo amava, era sprofondato in uno spaventoso mondo di angoscia. Sentendosi abbandonato, urlava la sua angoscia. In quelle condizioni è arrivato all'Arca. Quando ho lasciato la responsabilità della comunità, ho trascorso un anno nel foyer di La Forestière, che ha accolto Lucien e altri nove handicappati gravi. A volte, Lucien entrava in quel mondo di angoscia. Non si sapeva esattamente che cosa scatenasse la crisi, ma urlava in continuazione. Le sue grida d'angoscia avevano un tono molto acuto; penetravano in me come una spada. Non le sopportavo. Forse risvegliavano in me il ricordo delle angosce e degli urli di quando ero piccolo. Non si sapeva come far cessare le crisi di Lucien, non si sapeva come fare per aiutarlo, per dargli sollievo. Non si poteva fare nulla. Il suo corpo diventava teso, contratto. Non potevamo avvicinarci né toccarlo. E non volevamo somministrargli dei farmaci durante le crisi. Bisognava aspettare. Io sentivo emergere in me non solo le mie angosce, ma anche rigurgiti di violenza e di odio. Un mondo caotico si risvegliava dentro di me. A volte avrei voluto sopprimere Lucien, l'avrei buttato fuori dalla finestra. Avrei voluto scappare ma non potevo, perché avevo una responsabilità nel foyer. Ero pieno di vergogna, di sensi di colpa, di confusione.
Essendo circondato da altri assistenti, evidentemente non potevo fargli del male, non potevo percuoterlo; ma ho capito come tanti bambini, picchiati dalla madre o dal padre, debbano essere ricoverati in ospedale in gravi condizioni. Una donna sola, con due o tre bambini, abbandonata dal marito, depressa, con molte difficoltà a vivere e a lavorare, si trova in un tale stato di fragilità e di insicurezza! Fa fatica a sopportare i bambini che gridano il loro bisogno di relazione, di comunione e di tenerezza. Non è in grado di rispondere alle loro richieste, di dare loro quella tenerezza di cui hanno bisogno, perché il pozzo del suo affetto è vuoto. I bambini continuano a provocarla. Gridano il loro bisogno di amore. Senza che lei lo voglia veramente, la sua angoscia viene a galla sotto forma di violenza; colpisce i bambini perché non ne può più. Poi scoppia in singhiozzi.
Ci sono anche persone che, senza volerlo, con la loro semplice presenza provocano nell'altro un sentimento di angoscia, risvegliano nel profondo del suo essere un mondo di tenebre. Una donna frustrata perché non è stata amata come donna e ha dovuto investire tutte le sue energie nel successo professionale, farà fatica a sopportare una donna giovane, bella, desiderata, sempre al centro dell'attenzione. La seconda rivela alla prima le sue carenze e le sue difficoltà. Una persona che è andata incontro a molti fallimenti pur avendo lavorato molto, farà fatica ad accettare un'altra persona che riesce a ottenere quello che vuole senza lavorare. Un uomo rigido, moralista, che ha dovuto lottare contro i propri impulsi sessuali disordinati, farà fatica a sopportare una persona aperta, che sembra essere molto libera nei suoi rapporti. Una persona che ha sofferto molto per il controllo esercitato su di lei da genitori rigidi e autoritari, spesso si trova in difficoltà di fronte a ogni persona autoritaria. Una giovane donna che ha subìto abusi sessuali da parte del padre, avrà difficoltà di rapporto con gli uomini che potrebbero assomigliare a suo padre. Forse queste persone non saranno in grado di analizzare lucidamente le cause delle loro paure e delle loro angosce di fronte all'altro, ma le vivranno e rischieranno di rifiutare l'altro con violenza.
Personalmente, per formazione e per esperienza, esercito la leadership in modo forte ed efficace. Sono in grado di prendere rapidamente le mie decisioni. Questo modo di fare è apprezzato e ammirato da alcuni, ma ho scoperto che poteva mettere altri profondamente a disagio. La mia presenza, la mia forza risvegliavano in loro delle angosce di cui non immaginavo l'esistenza. Il mio atteggiamento li umiliava, li confermava in un sentimento di impotenza e di non valore. Senza che noi lo vogliamo, il nostro essere e i nostri atteggiamenti possono suscitare in altri paure e angosce.
La paura del nemico
Questo discorso mi porta a parlare del nemico. Quando parlo del nemico, non mi riferisco alla guerra. Parlo di una persona vicina, che fa parte della mia famiglia, della mia comunità, della mia cerchia di conoscenze, e che provoca in me una reazione di paura, mi blocca, sembra impedire la mia realizzazione personale e il mio cammino verso la libertà. Ho la sensazione che questa persona mi soffochi, mi schiacci, non mi permetta di vivere. Vorrei vederla scomparire dalla faccia della terra per trovare finalmente la mia libertà!
Lucien, per me, era questo nemico. Le sue grida di angoscia risvegliavano le mie angosce, che sembravano riempirmi il petto facendomi battere il cuore con tanta violenza che facevo fatica a respirare. Senza che lo volessi, l'angoscia scatenava in me sentimenti di odio e di violenza. Non ho mai alzato la mano su Lucien, il debole, perché non ero solo; ero in un ambiente che mi proteggeva, che mi spingeva ad agire secondo certe regole, perché altrimenti avrei perso la faccia, sarei stato giudicato e messo nelle condizioni di vergognarmi di me stesso. Non dico che avrei percosso Lucien se fossi stato solo, ma è evidente che la comunità, con le sue regole, e il mio bisogno di non perdere la stima degli altri mi hanno aiutato a contenere la violenza. L'esperienza dolorosa che ho vissuto con Lucien mi ha reso solidale con molti uomini e donne che sono finiti in carcere. La loro violenza si è scatenata, ed essi non erano protetti da tutto un ambiente che favorisse il rispetto di regole umane. La loro violenza allora li ha spinti a uccidere, a fare del male. Loro sono stati condannati, umiliati. Io sono stato protetto. Ma a livello profondo non c'è nessuna differenza tra noi. C'è la stessa capacità di fare del male a un debole. È molto umiliante scoprire le nostre capacità di odiare e di fare del male. Non siamo migliori degli altri, tutt'altro! Quelli che ci elogiano per il nostro lavoro con gli handicappati ci mettono ancora più in confusione, perché ci rendiamo conto che non solo siamo dei violenti, ma possiamo anche essere degli ipocriti che portano una maschera.
Questa umiliazione, però, è anche una buona cosa. Ci fa toccare con mano la nostra verità, la nostra povertà. E soltanto la verità può renderci liberi. Se vogliamo camminare verso la libertà, dobbiamo accettare di vedere e di guardare quel mondo tumultuoso che c'è dentro di noi. Allora forse scopriremo che il nemico non è l'altro, l'estraneo, ma sono i nostri demoni interiori. Il nemico è dentro di me. Il problema non è l'altro; il problema è dentro di me. Come togliere la trave che c'è nel mio occhio per poter togliere la pagliuzza che c'è nell'occhio dell'altro? Come accettare la mia ferita e smettere di portare una maschera?
Le aspettative che impediscono la comunione
Un giorno, una donna sposata mi ha detto: "L'uomo con cui vivo oggi non è più lo stesso uomo di quando ci siamo sposati". E ha continuato: "A quel tempo mi cercava, era pieno di vita e di interesse per tutto quello che facevo. Ora soffre di crisi depressive". Come è difficile accettare le persone così come sono, con tutte le cose belle che ci sono in loro e con tutte le loro ferite! I genitori si aspettano molto dai propri figli; i coniugi si aspettano molto l'uno dall'altro. All'Arca, il responsabile di un foyer si aspetta molto da un nuovo assistente. Quando ci si fa rapidamente un'immagine dell'altro, se l'altro non corrisponde a questa immagine si rimane delusi e si tende a rifiutarlo. Non è forse ciò che avviene quando una donna mette al mondo un figlio handicappato? Il bambino non corrisponde ai suoi sogni, e succede molto spesso che la madre non riesca ad accettarlo. L'immagine che si ha di un altro, o l'immagine di ciò che si vorrebbe che egli fosse, impedisce la comunione. Questa si radica nella realtà, non nei sogni. Si può comunicare con qualcuno soltanto se lo si accetta per quello che è.
Ciascuno di noi, con la sua storia e le sue ferite, ha le sue difficoltà relazionali. Questo lo sappiamo. L'importante è sapere in che modo, nelle diverse tappe della vita, è possibile abbattere i muri che ci separano gli uni dagli altri, per creare la comunione.
Essere guariti dal debole
Quando vedo un uomo forte, efficiente e capace, che torna a casa e si siede per terra per giocare con i suoi bambini, che ride con loro, che ritorna bambino insieme a loro, mi dico che quel papà è umano, profondamente umano. Non guarda i suoi figli dall'alto di un piedistallo di autorità e di sapere. Si lascia toccare dalla loro piccolezza.
All'Arca e nelle comunità di Foi et Lumière il primo obiettivo non è quello di fare qualcosa per gli handicappati mentali, ma è quello di vivere con loro; si cerca di creare dei legami, di ridere insieme, di celebrare insieme la vita, di essere felici insieme. Ovviamente ci vogliono una buona pedagogia e una buona educazione ci sono delle cose che possono essere insegnate; si devono prestare loro le cure di cui hanno bisogno. Ma ciò di cui hanno soprattutto bisogno sono quei legami di comunione e di amicizia in cui si è vulnerabili l'uno di fronte all'altro. Allora è la festa dei cuori. La persona in difficoltà non è più un povero, è una persona. Scopre di essere capace di dare, dona gioia e vita; percepisce che l'altro è felice di incontrarla. E il mistero della comunione.
Gesù invita i suoi amici e i suoi discepoli a non invitare alla propria tavola i parenti, i vicini ricchi, gli amici, ma i poveri, gli storpi, gli infermi, i ciechi (cf. Lc 14,12-14). Allora, dice Gesù, sarete "beati", sarete benedetti da Dio. Nel linguaggio biblico, sedersi alla stessa tavola con i poveri, gli "inutili", significa diventare loro amici, entrare m comunione con loro. È quello che cerchiamo di fare nelle comunità dell'Arca e di Foi et Lumière.
Un responsabile dell'Arca mi parlava di sua madre, colpita dal morbo di Alzheimer. Era diventata piccola e povera; non era più capace di mangiare o di vestirsi da sola. Non riusciva neanche a lavarsi i denti. "Ma è di mio padre che le voglio parlare, mi disse. È un uomo forte, efficiente, quadrato, abituato a lavorare molto, abbastanza sbrigativo nei rapporti con le persone. Un uomo che aveva sempre troppe cose da fare e da organizzare. Ma non ha voluto mettere la mamma in un ospedale. L'ha tenuta in casa ed è lui che se ne prende cura. Le dà da mangiare, le lava i denti. E lei l'ha completamente trasformato. Adesso mio padre è diventato un uomo pieno di tenerezza e di bontà". Questo non vuol dire che non sia più capace di essere efficiente. Ma ha cominciato a sviluppare un altro aspetto del suo essere: la sua tenerezza nei confronti di una persona che ha bisogno di tutto, la sua capacità di ascoltarla, di comprenderla, di essere in comunione con lei.
Tenerezza non significa emotività e sentimentalismo. La tenerezza è dolcezza e bontà che non fanno paura. E quella delicatezza che rivela all'altro che lo si considera importante, che si riconosce il suo valore.
La tenerezza si rivela attraverso il tono della voce, attraverso il modo di toccare l'altro. Non è mollezza, è una forza rassicurante trasmessa attraverso lo sguardo e le mani. È un atteggiamento del corpo che esprime un'attenzione totale al corpo dell'altro. La tenerezza non si impone; non è aggressiva; è dolce e umile. Non è perentoria, ma è colma di rispetto. Non è seduttrice. E un ascolto e un modo di toccare che suscitano e risvegliano delle energie nel cuore e nel corpo dell'altro. La tenerezza comunica la vita e la libertà. Dà il desiderio di vivere. È l'atteggiamento della madre che fa il bagno al suo bambino rivelandogli la sua bellezza; è il tocco dell'infermiera che cura una piaga cercando di fare il minor male possibile.
La tenerezza non si contrappone alla competenza e a una certa efficacia. Quando si dà da mangiare a qualcuno o gli si fa il bagno, bisogna anche essere competenti ed efficaci. Non bisogna certo lasciarlo cadere, fargli del male o lasciarlo sporco! Ma la competenza deve rivestirsi di tenerezza e di comunione.
Un giorno ho visto un handicappato che teneva in mano un uccellino ferito. Aveva fatto della sua mano un nido, non troppo aperto per non far cadere l'uccellino, non troppo chiuso per non schiacciarlo. Il nido è un luogo rassicurante in cui l'uccello può crescere fino al giorno in cui prenderà il volo verso la libertà. Le braccia di una mamma offrono un nido al bambino, non per trattenerlo ma per dargli quella sicurezza che un giorno gli permetterà di prendere il volo. Questo è la tenerezza.
Siamo abituati al fatto che il debole abbia bisogno del forte. È chiaro. È evidente. Ma l'unità profonda, la guarigione interiore si realizza quando il forte scopre di aver bisogno del debole. Il debole risveglia e rivela il cuore; risveglia energie che si chiamano tenerezza e compassione, bontà e comunione. Risveglia la sorgente profonda dell'essere. La donna colpita dal morbo di Alzheimer ha risvegliato la sorgente nascosta nell'intimo del marito, ha fatto emergere il suo "io" profondo. Accogliendo con tenerezza una moglie tanto debole quell'uomo forte ha cominciato ad accettare la propria debolezza ha imparato ad accogliere il debole, il bambino (e un bambino ferito) nascosto dentro di lui. Così si è sentito in diritto di avere le proprie carenze e le proprie debolezze, ha scoperto di non aver bisogno di essere sempre forte, di non aver bisogno di vincere, di riuscire e di dominare Ha capito che poteva essere vulnerabile, che non aveva bisogno di mettersi una maschera e di apparire diverso da quello che era. Poteva essere se stesso. Questa trasformazione implica una sene di morti interiori e di sofferenze; a volte si passa attraverso momenti di ribellione: non si tratta di un cammino facile. Ci vuole tempo, e ci vuole lo sforzo costante di rimanere fedeli alla comunione. Ma tutto ciò conduce alla scoperta della propria vera umanità, producendo una profonda liberazione interiore. Scoprendo la bellezza e la luce che si nascondono nel debole, il forte comincia a scoprire la bellezza e la luce che si nascondono nella sua debolezza. E arriva a scoprire la debolezza come il luogo privilegiato dell'amore e della comunione, il luogo privilegiato in cui abita Dio. Scopre il Dio nascosto nella piccolezza. Approda così a una liberazione ancora più grande.
Questa è la scoperta fondamentale delle comunità dell'Arca e di Foi et Lumière, una scoperta che conferisce loro una spiritualità precisa e ben definita e le rende molto nuove e nello stesso tempo molto fragili. Questa scoperta, infatti, non può essere schematizzata o imposta. Non è dell'ordine della legge; è un dono gratuito: il debole comunica una presenza. Nella mia comunità abbiamo accolto Antonio, che ha venticinque anni; il suo corpo è piccolo e deteriorato, totalmente rattrappito. Antonio non è in grado di camminare, di parlare, di mangiare da solo. Fisicamente debole, rischia di non vivere a lungo. Ha costantemente bisogno di ossigeno. Ma nello stesso tempo è un raggio di sole. Quando ci si avvicina a lui e lo si chiama per nome, i suoi occhi brillano di fiducia e il suo volto si apre in un sorriso. È veramente bello. La sua piccolezza, la sua fiducia e la sua bellezza attraggono i cuori. Si sta volentieri con lui. Il povero disturba, ma risveglia il cuore. Antonio evidentemente ci dà molto da fare. È così povero! Ha bisogno di un sostegno competente e costante, di notte come di giorno. Ha bisogno di essere lavato e nutrito. Ha bisogno che qualcuno gli stia vicino. Ma risveglia il cuore degli assistenti; h trasforma e fa loro scoprire una nuova dimensione umana. Li introduce non in un mondo di azione e di competizione, ma in un mondo di contemplazione, di presenza e di tenerezza. Antonio non chiede denaro, non chiede un'istruzione, un potere o un ruolo; chiede essenzialmente comunicazione e tenerezza. Forse rivela un volto di Dio: un Dio che non interviene a sistemare le cose con la forza e con un potere straordinario, ma che bussa come un mendicante alla porta del nostro cuore e ci invita alla comunione.
Antonio è un esempio suggestivo e rivelatore della realtà della comunione. In altri casi, questa rivelazione è meno visibile. Ci sono handicappati che hanno bisogno di un lavoro interessante e rimunerato. Vogliono una certa indipendenza e una certa autonomia. Bisogna aiutarli a raggiungere questi obiettivi, anche se le loro capacità sono limitate. Ma nel profondo del loro essere c'è una carica di fiducia negli altri e un'esigenza di comunione che molte persone dotate di capacità intellettuali e manuali pienamente sviluppate sembrano aver dimenticato o rifiutato. Questa fiducia negli altri è ciò che bisogna risvegliare e accogliere, perché apre alla comunione. Gli handicappati mentali hanno una sete e un desiderio di comunione fuori dal comune. È il mistero del loro essere; hanno meno barriere e meno orgoglio. Come Antonio, ma in un altro modo, ci disturbano e ci risvegliano.
Altri handicappati mentali sono più angosciati. Sono rinchiusi fin dall'infanzia dietro ai muri di una psicosi. La loro sete di comunione è molto nascosta dietro a queste solide barriere. Hanno talmente paura della relazione che i rapporti non sono facili, né per loro, né per le persone che li circondano. I loro terrori, i loro blocchi, a volte le loro violenze, fanno paura. Ciò che risvegliano negli altri è l'angoscia più che la comunione. Eppure, se si capiscono i loro meccanismi e il loro modo di comunicare, se si accettano i rifiuti iniziali, si scopre il loro cuore assetato di comunicazione.
La sete di comunione esiste anche in certe persone violente che sono state molto ferite da esperienze di abbandono. C'è in loro una tale ribellione, una tale capacità di manipolazione, che non è facile avvicinarli; per poterli raggiungere veramente, bisogna far parte di un'équipe terapeutica e possedere una certa forza interiore.
Coloro che si recano a far visita alle persone in fin di vita nei reparti riservati ai malati terminali affermano che l'incontro con queste persone li trasforma profondamente. Con loro si arriva più in fretta a parlare dell'essenziale, ci si incontra a un livello più personale e più profondo. Chi si trova in una situazione di debolezza lascia cadere più rapidamente le proprie barriere; non cerca di dare prova del proprio valore o di nascondersi dietro a una maschera. Non può nascondere la propria debolezza. C'è una grande verità nei suoi colloqui e nelle sue reazioni. E la verità rende liberi
Alcuni anni fa, sono stato invitato a tenere un ritiro a Fort Simpson, nell'immenso nord del Canada, presso il popolo Denè. L'incontro con quegli uomini e con quelle donne è stato un'esperienza forte, per me. Avevano il volto segnato dal freddo, dal lavoro e dai lunghi tragitti. Alcuni di loro vivevano ancora di caccia. Le mie conferenze sono state tradotte frase per frase in lingua denè. Ad un certo punto, mi è stato detto: "Sapremo se dici il vero, perché i nostri anziani faranno dei sogni". Penso di aver superato l'esame dei sogni perché mi è stato chiesto di tornare! Quelle popolazioni autoctone hanno sofferto molto, non solo a causa dei conquistatori bianchi, ma a volte anche a causa dei missionari, che li hanno considerati dei pagani, degli esseri lontani da Dio. Bisognava che quegli uomini e quelle donne lasciassero i loro simboli e i loro riti religiosi per ricevere i riti e i simboli religiosi della vera religione venuta dall'Europa. Oggi, anche se molto tardi, si comincia per fortuna a rendersi conto che Dio era presente in mezzo a questo popolo ben prima dell'arrivo dei bianchi: era un popolo profondamente credente e religioso, dotato di un profondo senso di Dio e spesso guidato da sogni ispirati da Dio. Hanno anche un profondo senso dell'umano, della terra. Da troppo tempo sono stati emarginati. Eppure hanno moltissime cose da insegnare alla nostra società occidentale, che ha perso il senso dell'umano, della comunità umana e della terra. Ancora una volta, la pietra scartata dai costruttori deve diventare la nuova pietra angolare. Quelli che vengono scartati hanno in sé gli elementi necessari alla guarigione di chi li ha scartati.
Essere disponibili
La difficoltà, in questo campo, non è tanto quella di fermarsi ad ascoltare una persona diversa. Indubbiamente c'è la paura dell'incontro, la paura di diventare vulnerabili o anche di essere ingannati dall'altro, ma la paura più profonda è quella delle conseguenze. Diventare amici di un povero non è una scelta di tutto riposo. È facile andare a visitare i carcerati. Ci sono orari fissi di visita, e si è protetti dalle guardie. Finché sono in carcere, è facile ascoltare i detenuti dialogare con loro, instaurare rapporti amichevoli. Il problema viene dopo, quando escono dal carcere. Allora, soprattutto se si è diventati amici, c'è il rischio che ci vengano a trovare non a ore fisse ma nel cuore della notte. Siamo pronti ad essere disturbati in questo modo e a vivere tutte le conseguenze della comunione?
Se diamo un pezzo di pane alla persona affamata che bussa alla porta, non c'è il rischio che ritorni qualche ora dopo? La fame ritorna in fretta, troppo in fretta. Entrare in rapporto con una persona m difficoltà non è un fatto privo di conseguenze; chiama in causa l'uso del nostro tempo, la nostra disponibilità, le responsabilità che già ci siamo assunti, o semplicemente la nostra capacità psicologica e affettiva di fare posto a un'altra persona dentro di noi.
Bisogna fare delle scelte. Siamo pronti a dare un altro orientamento alla nostra vita, a rinunciare a certe attività, a certi divertimenti o a certe distrazioni, a certe amicizie superficiali, o magari a un certo tipo di lavoro che ci piace, per vivere una nuova forma di relazione? Queste rinunce non sono facili; richiedono una forza nuova. Forse non sono possibili se non si trovano nuovi amici, una nuova comunità, nuovi fratelli e sorelle da cui ricevere il sostegno necessario, da cui essere incoraggiati e stimolati. Quando si instaura quella relazione in cui si scopre la persona in difficoltà, con le sue sofferenze, il suo grido, il suo bisogno profondo, si è portati in effetti a percorrere strade nuove, dove le barriere costruite intorno al cuore cominciano a crollare, dove si diventa uomini o donne di pace, di riconciliazione. È la strada su cui mi hanno condotto, m modo del tutto inatteso, Raphael e Philippe: una strada di liberazione, di pace interiore, di speranza.
Una trasformazione interiore
Per molte persone saldamente installate nel loro lavoro, nella loro famiglia, nelle loro amicizie, nel loro statuto sociale, nelle loro responsabilità, nella loro fede, forse non si tratterà di fare grandi scelte che implicano un capovolgimento della propria vita e delle proprie abitudini, anche se la comunione con una persona ammalata o handicappata, oppure con una persona che si trova in carcere o in una casa di riposo, porterà con sé alcuni cambiamenti e alcune rinunce sul piano del tempo libero e del divertimento. Questa comunione tuttavia, a un livello più profondo, può produrre una conversione rispetto a certi valori che fino a quel momento erano sembrati essenziali. Le nostre motivazioni si collocano così spesso sul piano del prestigio, della carriera, dell'integrazione in un determmato gruppo sociale! Tutto ciò porta con sé un certo disprezzo nei confronti dei poveri, degli stranieri, degli emarginati, dei diversi. In teoria non si disprezza nessuno, ma in pratica si ha un atteggiamento di disprezzo verso queste persone; non si cerca la loro compagnia, anzi, la si evita.
Poi c'è l'incontro. C'è un rapporto di comunione che si instaura con un emarginato, un povero, una persona che appartiene a un'altra classe sociale, uno straniero. Forse non abbiamo molto tempo da dedicargli, ma riconosciamo un legame di comunione. La scoperta della bellezza e delle sofferenze del povero, che fino a quel momento avevamo più o meno disprezzato o ignorato, può mettere in discussione la gerarchia dei valori e dei pregiudizi. Scopriamo che il povero vive certi valori di verità, di bontà, di semplicità, che forse no' non viviamo; ci rendiamo conto che il povero è vicino a Dio.
Ci sono persone la cui vita è stata totalmente trasformata dall'incontro con un musulmano (o con una musulmana) che vive profondamente la sua fede e la sua vita di preghiera. Il disprezzo si è trasformato m ammirazione e rispetto. Allo stesso modo, coloro che diventano amici di un handicappato mentale possono avviarsi a una trasformazione profonda, e in ogni caso rimarranno colpiti e sconvolt1 dall'approvazione di una legge che, in caso di handicap, permette l'aborto fino a poco tempo prima della data prevista per la nascita. Ciò che fino a quel momento avevano visto come un problema da risolvere, un dramma da evitare, un essere da escludere dalla società, apparirà loro come una luce e una sorgente di vita. Tutto ciò mette in discussione i fondamenti stessi di una certa visione della società e di una certa gerarchia sociale. Si scopre per la prima volta la bellezza dell'essere umano, di ogni essere umano, la bellezza della nostra umanità al di fuori di qualsiasi gerarchia basata sulla razza, il sesso, la religione, la classe sociale, la forza, l'intelligenza. Se c'è una gerarchia, non può essere che una gerarchia del cuore, dell'amore. Una gerarchia che non sta a noi stabilire, perché è il segreto di ogni persona. E il segreto di Dio.
Questo rapporto di comunione produce l'apertura del cuore. È la breccia che si apre nel nostro sistema di difesa, nelle barriere costruite intorno al nostro cuore. È un'esperienza che apre a un altro mondo. Fa capire che non si può dividere l'umanità in due parti sulla base di una gerarchia sociale, che non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall'altra. Infrange le ideologie e i pregiudizi di classe di razza e di famiglia. Rivela la menzogna della nostra società e della scala sociale.
Non è facile realizzare questa apertura, soprattutto quando una persona è abituata a definire se stessa in base al gruppo sociale, etnico, religioso, nazionale a cui appartiene, in base al posto che occupa al suo interno e in base ai valori di tale gruppo. Quando non si crede sufficientemente in se stessi, nella propria coscienza personale e nella propria missione in quanto persona, si tende ad approfittare di ogni segno distintivo per affermare il proprio valore, la propria superiorità. Si fa fatica a lasciar cadere i pregiudizi e a diventare amici di una persona rifiutata ed esclusa dal gruppo sociale in cui si è inseriti.
La comunione con il povero, con lo straniero, è un gesto personale dell' "io" che emerge dal profondo; non coinvolge il gruppo, anzi, può anche essere in contraddizione con il modo di vedere del gruppo. Afferma un'altra realtà, un altro valore, un'altra apertura. Fa vacillare la certezza che l'appartenenza al gruppo sia il valore supremo. Questa conversione, che è un'affermazione dell' "io" personale al di là del gruppo, può essere accompagnata da profonde angosce. Proviamo a pensare alle angosce di un russo che nell’era staliniana avesse cercato di mettersi in contatto con uno straniero m visita a Mosca, o di un americano che avesse avuto un amico comunista al tempo della caccia ai comunisti, o di un cattolico che avesse pregato in una chiesa protestante prima del Vaticano II, o di un giovane appartenente a un gruppo di "duri" che si affezionasse a un handicappato mentale. Nella stessa situazione verrebbe a trovarsi una persona individualista e cinica, circondata da amici dello stesso tipo, che affermasse il proprio desiderio di entrare in una comunità ecclesiale e di seguire Gesù per essere più pienamente se stessa, per raggiungere una più grande libertà interiore. Quando accade qualcosa di simile, si diventa subito sospetti; non si è considerati dal gruppo come soggetti validi e affidabili; non si segue più la linea del partito. Ci si separa dagli altri; si afferma o si testimonia una verità che non e quella del gruppo; si afferma il primato della coscienza personale sulla coscienza collettiva. Si afferma l'"io" personale.
Accogliere il nemico
Gli antagonismi fra esseri umani sono una costante della storia dell'umanità. Sono una conseguenza del bisogno profondo, inscritto nel cuore di ogni uomo, di ogni donna, di ogni gruppo umano, di ogni ambito di appartenenza, di affermare e dimostrare di essere i1 migliore, il più forte, il più vicino a Dio. Sono insiti in ogni competizione. C'è chi vince e c'è chi perde.
La storia dell'umanità è una storia di guerre e d'oppressione. E una storia di popoli che cercano di sopprimere altri popoli, di prendere la loro terra e di ridurli in schiavitù. Nascono allora nel cuore degli oppressi l'odio e il bisogno di vendetta. Si vuole vivere, si vuole la libertà, si desidera sopprimere l'oppressore e coloro che sono percepiti come tali. Così si innalzano barriere di odio, di depressione e di rifiuto della vita. Perché l'umanità, perché ogni gruppo o ambito di appartenenza, perché ogni persona esca da questo cerchio infernale di competizione, di rivalità e di guerra, bisogna trovare le vie della riconciliazione col nemico. Il nemico è colui che ha voluto sopprimere un'altra persona o un altro gruppo per conquistare il potere e il controllo. È colui che si vuole sopprimere per ottenere la libertà Bisogna tuttavia attenuare la portata di queste affermazioni. Esistono indubbiamente antagonismi e pregiudizi fra le persone e fra i popoli Ma spesso sono rafforzati da una propaganda perversa e menzognera, provocata da coloro che detengono il potere e vogliono estendere il loro predominio. Quando il potere controlla i mezzi di comunicazione di massa, è facile seminare la paura e l'odio nel cuore di un popolo. In Libano, musulmani e cristiani vivevano fianco a fianco in molte città e villaggi del paese; lo stesso si può dire per i diversi gruppi etnici presenti in Ruanda, in Bosnia e nell'Irlanda del Nord. Poi, per ragioni politiche e militari, si è deciso di far nascere il sospetto e la paura, che generano l'odio. I soldati combattono per lealtà nei confronti del proprio gruppo, e spesso perché non possono fare altrimenti. Ma nel cuore del popolo non c'è odio, almeno all'inizio dei conflitti; c'è soltanto un desiderio di pace.
C'è il nemico di un popolo o di una razza, ma c'è anche il nemico di una persona. In questo caso, la situazione è diversa: il nemico personale non si trova in un paese lontano, ma può essere un conoscente, un compagno di lavoro, un familiare, un vicino di casa, un membro della comunità, ecc. Costui appare come una minaccia per la libertà dell'interessato, per la sua realizzazione personale; uno che lo squalifica, lo emargina, gli fa del male e provoca in lui sentimenti di collera, oppure angoscia, paura, e a volte una forma di depressione. Non sempre questo nemico può essere chiamato per nome o percepito come tale. Una madre possessiva può ostacolare la libera evoluzione del suo bambino. Diventa allora la nemica del suo bambino. Perché l'essere umano avanzi sulla strada dell'apertura e dell'amore universale, deve prendere coscienza di avere dei nemici: persone che non vuol vedere o con cui non vuole dialogare; persone che gh piacerebbe veder scomparire dall'orizzonte della sua vita.
Ho già ricordato che, per progredire verso la guarigione interiore, bisogna rendersi conto di essere feriti, di essere malati a livello di cuore e di vita relazionale; bisogna prendere coscienza delle tenebre che si hanno dentro. Allo stesso modo, per orientarsi verso opere di pace e di riconciliazione, bisogna prendere coscienza di avere dei nemici, bisogna saperli identificare.
Quando si cerca la guarigione e l'unità interiore, quando si vuol diventare artefici di pace, è importante identificare il proprio nemico. Dobbiamo scoprire qual è la persona che detestiamo di più, che cerchiamo di evitare ad ogni costo, che facciamo fatica a perdonare, che risveglia in noi un malessere, delle paure e dei sentimenti di collera che possono trasformarsi in odio. Durante un ritiro, una donna mi ha confessato di avere scoperto che il suo nemico era suo marito. "È felice quando può servirsi di me per tutto quello che riguarda la casa, la cucina, il guardaroba, l'educazione dei figli e anche la sua vita sessuale. Ma non mi ascolta mai; non prende mai in considerazione la mia intelligenza e il mio punto di vista. Dentro di me c'è una terribile collera nei suoi confronti. Con tutta questa collera dentro, non so proprio che cosa fare". Forse anche il marito aveva in lei la sua nemica, ma non aveva il coraggio o la possibilità di rendersene conto. Un'altra donna, una giovane studentessa universitaria, mi ha confessato che odiava suo padre, insegnante di filosofia in una scuola cattolica, molto stimato dalle autorità ecclesiastiche, ammirato come un uomo virtuoso, onesto e religioso. "Quando torna a casa, si chiude in camera sua con i suoi libri senza mai rivolgermi la parola; non mi ascolta mai. Lo odio!".
Ho già parlato del sistema di difesa che il bambino mette in atto in seguito all'esperienza della comunione spezzata. Questo sistema di difesa lo porta a dividere l'umanità in due categorie: i buoni e i cattivi.
Poi, un giorno, quando si presenta l’occasione c’è una sorta di risveglio, un sentimento nuovo, un desiderio di cambiare. Lo spettacolo degli orrori della guerra, dell'odio, dell'oppressione e della morte risveglia il desiderio di operare per la pace nel proprio ambiente. Bisogna che le cose cambino! Non se ne può più dei conflitti. Allora ci si pone la domanda: il problema è in me? È il caso di andare da uno psicologo, da un sacerdote o da uno psicoterapista? Si ha la sensazione che il nemico si nasconda nella propria realtà interiore. Che fare? È il momento buono per parlare con qualcuno dei propri sentimenti di collera, delle proprie avversioni, delle proprie paure, delle persone che si evitano o si detestano. È importante scoprire una logica in tutto ciò, individuare delle costanti. Per certe donne può trattarsi della paura degli uomini, che le spinge a sottomettersi troppo facilmente a loro. Altre persone cercano troppo spesso di attribuirsi il ruolo della vittima, accusando gli altri. Per certi uomini, la donna è una nemica perché rivela il caos che hanno dentro; per altre persone, si tratta del bisogno di dominare e di controllare gli altri, oppure della paura di essere deboli, di trovarsi in una condizione di insicurezza. Altri vedono sempre l'autorità come nemica, a causa delle cattive esperienze che hanno vissuto con i loro genitori. Nasce allora un desiderio di verità, di libertà; si vuole rompere con questa logica, non si vuol più essere dominati dalla paura dell'altro o dal bisogno di essere adulati; è il desiderio di diventare se stessi, di non essere più schiavi delle paure e delle ferite del passato. È un momento di grazia e di luce. Nasce di qui il desiderio di riconciliazione e di pace. Chi può cambiare il mio cuore di pietra, fondato sulla paura, in un cuore di carne che mi renda vulnerabile di fronte all'altro? In che modo il nemico può trasformarsi in amico?
Può l'impossibile diventare possibile?
Come ho detto nella parte precedente, per rispettare, accogliere e amare l'altro bisogna riconoscere l'umanità che ci accomuna, il carattere sacro di ogni persona umana, la più debole e la più povera come la più forte e la più ricca. Senza questa visione e questa certezza di base, non può esserci una vera forza morale né un progresso verso la pace e l'unione dell'umanità. A questa certezza antropologica si deve poi unire una certezza fondata sulla speranza. L'essere umano, per quanto ferito, non è mai votato alla divisione, all'oppressione e all'odio. Nell'umanità, come nel corpo umano e come nell'universo, ci sono forze di guarigione e fattori di equilibrio che permettono la circolazione della vita. Ci sono uomini e donne che sanno essere guide spirituali, testimoni dell'amore, profeti di pace e di riconciliazione. Questi uomini e queste donne possono aiutare altri a ritrovare nel Dio della pace la sorgente del proprio essere. Radicati in una visione di fede, convinti della vocazione dell'umanità a vivere nell'unione, costoro permetteranno all'essere umano di fronteggiare i conflitti.
Il processo di riconciliazione con il nemico, la trasformazione di colui che si esclude in colui che si rispetta e si ascolta, spesso ha il suo punto di partenza in questa visione di fede, di fiducia, e nella certezza che nel cuore dell'essere umano si nasconde una forza divina che conduce l'umanità all'unione e alla pace. Ma esige anche la volontà di andare avanti, di fare sforzi concreti e di lottare per non essere dominati dalla paura, dalla depressione e dalla stanchezza Questi sforzi, che costituiscono il perdono, cominciano con ìl rifiuto del desiderio che il nemico sia eliminato, muoia o sparisca, bisogna innanzitutto riconoscere che anch'egli ha il diritto di esistere e di vivere, perché è un essere umano dotato di un cuore e di una sensibilità; ha il diritto di avere un posto sulla terra; ha il diritto di essere se stesso, con i suoi limiti, la sua povertà, e anche i suoi doni. Questo riconoscimento implica alcuni gesti concreti: bisogna rinunciare a dir male di lui, a sminuirlo agli occhi degli altri. Indubbiamente il nemico risveglia paure e blocchi psicologici; non si prova un sentimento spontaneo di affetto nei suoi confronti; non si ha simpatia per lui. Ma ciò non impedisce che abbia il diritto di esistere e di vivere, di avere un posto nel mondo, di poter crescere, evolversi, cambiare, ecc. Nello stesso tempo, bisogna imparare a pensare con benevolenza a questa persona, a credere che ci sia del bene in lei. Vedere, considerare e osservare i suoi lati positivi e non insistere su quelli negativi: cosi si combatte la battaglia del perdono.
Successivamente, si tratta di fare lo sforzo di comprendere il nemico con la sua storia, le sue ferite e le sue fragilità. Trasformare in compassione il giudizio che spinge al risentimento e all'odio. Bisogna aiutare la ragazza che è in collera col padre a scoprire che quest'ultimo è stato ferito da suo padre, che c'è stato un vuoto in lui, una paura della relazione. I suoi atteggiamenti di fuga nei confronti della figlia sono il frutto delle ferite causate dal comportamento del nonno. Se la ragazza riesce a capire questo, la sua collera si trasformerà a poco a poco in compassione.
Tempo fa mi trovavo in un monastero. Nel refettorio di un monastero non si parla. Di fronte a me c'era una signora sui cinquantacinque anni, molto ben vestita. Ma mangiava con una voracità impressionante! Guardandola, sentivo nascere in me sentimenti di fastidio e di collera. Per quale motivo il suo atteggiamento o il suo modo di mangiare risvegliavano in me quei sentimenti? Mi rendevo conto che la cosa mi faceva problema. Allora, vedendo che perdevo la pace, ho cercato di capire. Senza dubbio, c'era qualcosa che angosciava quella donna e la faceva soffrire. Il suo modo di mangiare dipendeva sicuramente dalle sue angosce. Così, dentro di me, ho potuto trasformare in compassione il giudizio di rifiuto.
Il processo di trasformazione del nemico in una persona che si rispetta e si accetta è un processo che esige tempo, fatica e una disciplina. La pace non viene dal cielo; viene senza dubbio dalla forza nascosta di Dio, ma viene anche dai mille sforzi che facciamo ogni giorno per accettare l'altro così com'è, per perdonarlo, per accettare anche noi stessi con le nostre ferite e le nostre fragilità, per scoprire che il nemico è dentro di noi e per scoprire in che modo possiamo gestire positivamente le nostre ferite, le nostre paure e le nostre angosce.
Sono rimasto colpito dalla Comunità della Riconciliazione, che ha sede a Corrymeela, nell'Irlanda del Nord. Fondata da un pastore della Chiesa presbiteriana, questa comunità si propone come obiettivo la riconciliazione fra cattolici e protestanti, che sono in lotta in quel paese. A tale scopo, ad esempio, raduna per un fine settimana una quindicina di donne cattoliche, che hanno avuto un figlio o il marito ucciso dai paramilitari unionisti, e una quindicina di donne protestanti che hanno avuto un figlio o il marito ucciso dall'IRA. Queste trenta donne pregano e piangono insieme, condividendo la loro sofferenza e scoprendo una strada di pace e di riconciliazione.
Uno degli assistenti dell'Arca che mi chiedono di accompagnarli nel loro cammino mi ha parlato un giorno del suo desiderio di perdonare. Quest’ultimo, un uomo assai autoritario e dispotico, l'aveva fatto molto soffrire. L'ho incoraggiato in questa iniziativa di riconciliazione e ho anche suggerito che i due si incontrassero. "No, mi ha risposto, è troppo presto. Mi sento ancora troppo fragile e insicuro. Mio padre è un uomo forte, che fa fatica ad ascoltare. Prima di incontrarlo, ho bisogno di fortificarmi interiormente. Se lo vedessi oggi, rischierebbe di schiacciarmi. Fra qualche anno, forse sarà possibile". Ho ammirato la saggezza di quel giovane. Aveva compiuto dentro di sé il cammino del perdono e della riconciliazione, ma sapeva che per arrivare alla pienezza della riconciliazione era necessario attendere: bisognava che tutti e due fossero pronti per l'incontro. Il figlio doveva fortificarsi interiormente, e il padre dove va indebolirsi un po' per diventare capace di ascoltare il figlio. Il perdono non è una cosa che si realizza in un momento. È un processo che esige tempo. Il conflitto nasceva da un lato dalla ferita del padre, e dall'altro dalla ferita e dalla fragilità del figlio. Ci vuole tempo per accettare una ferita.
Una giovane donna, che era in carcere a causa della falsa testimonianza di un uomo, ha vissuto una conversione profonda in seguito a un'esperienza di Dio. La religiosa che aveva avuto un ruolo in quella conversione l'ha invitata un giorno a riflettere sulla possibilità di perdonare quell'uomo. La donna ha risposto:"No, non posso. Mi ha fatto troppo male". Tuttavia ha aggiunto: "Ma prego ogni giorno perché Dio lo perdoni". A volte, certe persone hanno sofferto trop po. A livello di sensibilità non riescono a perdonare, ma non cercano la vendetta né la morte dell'altro. Vogliono che coloro che hanno commesso le ingiustizie ritrovino la verità e la giustizia, ritrovino Dio. Gesù, inchiodato sulla croce, ha gridato: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno". Molte persone che commettono omicidi o abusi sessuali sui bambini non sanno quello che fanno.
Il Vangelo ci tramanda un comandamento di Gesù. "Io vi dico: amate i vostri nemici, dite bene di quelli che dicono male di voi, fate del bene a quelli che vi odiano, pregate per quelli che vi perseguitano". Queste parole, pronunciate di fronte a una folla di galilei perseguitati dai romani, devono aver provocato un grande turbamento. "Come amare quei bruti orgogliosi, quei senza Dio?". Ma Gesù ha insistito: "È facile amare quelli che ci amano: anche i senza Dio sono capaci di farlo. Ma io vi dico: amate i vostri nemici". È evidente che nessuno di noi può amare chi lo sfrutta, lo sminuisce, lo esclude dalla vita sociale. Ma queste parole di Gesù sono anche una promessa. È come se Gesù dicesse: "So bene che tu, da solo, non puoi perdonare. È troppo grande il male che l'altro ti ha fatto. Ma se vuoi, io ti darò una forza nuova per fare l’impossibile; ti darò il mio Spirito, ma soltanto se lo vorrai…". Si tratta di non fossilizzarsi nell'atteggiamento della vittima piena di risentimento, di odio e di desideri di vendetta, ma di aprire il cuore allo Spinto di Gesù che guarisce a poco a poco i nostri blocchi e le nostre paure e ci aiuta a fare gli sforzi necessari per camminare sulla via della pace.
La soluzione dei conflitti
Ai nostri giorni, c'è un urgente bisogno di imparare a risolvere i conflitti all'interno della famiglia, conflitti fra l'uomo e la donna, fra genitori e figli, conflitti nel mondo del lavoro, conflitti in seno alle organizzazioni, alle associazioni e alle comunità umane, conflitti tra paesi, razze, religioni. Purtroppo esistono spesso spaccature profonde e blocchi psicologici fra le parti in causa. Sorgono così le barriere dei giudizi e dei pregiudizi, e a volte anche le barriere dell'odio. In ogni conflitto, c'è chi risulta apparentemente vincitore e chi perde. A volte il vincitore, soprattutto se si è imposto con la forza e con il potere, finisce col diventare perdente; la colpevolezza e la menzogna che si nascondono nel suo cuore lo distruggono dall'interno. La mia lunga esperienza nella comunità dell'Arca mi ha fatto scoprire alcuni principi fondamentali:
- Non fuggire mai un nemico, non eludere mai un conflitto. Cercare il momento buono per incontrare il nemico. Non minimizzare i1 conflitto, non sottovalutarlo per paura di doverlo affrontare. Un piccolo fuoco è facile da spegnere. Più tardi, quando diventa un grande incendio, le cose sono più difficili. Il conflitto, come la crisi, è un segno di vita. Può preparare un nuovo periodo di pace e d' unione. Il conflitto nascosto, non riconosciuto, che si traduce in tristezza, depressione e morte interiore, è più pericoloso dei conflitti visibili. Bisogna prenderlo sul serio.
- Ascoltare. Ascoltare ogni persona e capire quello che sta dicendo. Comprendere il suo punto di vista, rendersi conto delle ferite che le sono state inflitte. Ascoltare anche l'autorità, colui che detiene il potere, e scoprire quali sono le cose su cui ha paura di essere messo in discussione. Spesso, infatti, chi detiene il potere è sulla difensiva.
- Cercare di cogliere i dati oggettivi, distinguendoli da ciò che appartiene alla sfera della soggettività. Saper riconoscere la realtà oggettiva, esterna alle persone, distinguendola da ciò che è conflitto fra personalità diverse. Questi due aspetti sono presenti in ogni conflitto. Ci sono gli elementi soggettivi, emotivi, e ci sono gli elementi oggettivi su cui c'è disaccordo. Nella soluzione di un conflitto, bisogna cercare di cogliere questi due aspetti. Quando una delle due parti ha un bisogno compulsivo di essere vincente e di allargare la sfera del suo potere, bisogna evitare che nella soluzione del conflitto perda la faccia. Ciascuno deve avere l'impressione di aver ottenuto qualcosa e deve scoprire che la collaborazione è più vantaggiosa e più gradevole della guerra. Altrimenti l'uno o l'altro non abbandonerà il conflitto.
Ci vuole tempo per comprendere quali sono i dati oggettivi di un conflitto, perché spesso si danno significati diversi alle stesse parole. I conflitti fra le varie chiese cristiane non sono soltanto di ordine emotivo. Ci sono anche teologie diverse e un diverso modo di interpretare la Bibbia. Bisogna prendersi il tempo necessario per capire la posizione dell'altro, il suo punto di vista e il motivo per cui dà tanta importanza a un certo aspetto piuttosto che a un altro.
Per questa ragione, quando si vive in una realtà comunitaria, è bene avere uno statuto che precisi la visione, gli obiettivi e lo spinto della comunità, e un regolamento che precisi il modo in cui la comunità deve essere governata. Se c'è un accordo su questi elementi fondamentali, si hanno dei punti di riferimento che permettono di camminare insieme.
- Ci sono conflitti che nascono dalla terribile insicurezza di una persona. Questa insicurezza era mantenuta entro certi limiti dal fatto di ricoprire un ruolo preciso, di possedere delle ricchezze o a volte una persona, di avere determinate certezze, di compiere alcuni riti religiosi, di svolgere particolari attività, e cosi via. Ma quando viene a mancare ciò che moderava l'insicurezza, si ha un'esplosione di angoscia; l'insicurezza o il vuoto interiore diventano insostenibili La persona non ha quell'interiorità che sarebbe necessaria per tenere sotto controllo l'angoscia e il senso di colpa. Aveva bisogno di quel sostegno esterno dietro a cui si nascondevano. Chi è stato costretto a rinunciare a una responsabilità o un'attività che era per lui di vitale importanza, può diventare di una violenza inaudita nei confronti di un altro o di se stesso.
Il fatto che il problema esploda può diventare tuttavia un'occasione di guarigione se la persona accetta di essere aiutata nelle sue angosce da persone capaci e forti. Se invece rifiuta l'aiuto, il rischio è che cerchi di ritrovare a qualunque costo quella realtà da cui dipendeva per placare le proprie angosce. A volte, queste persone oscillano fra il ruolo di "salvatori" di un'istituzione, di una comunità o di una persona e il ruolo di vittime, che conferisce loro comunque una posizione particolare; gli altri sono colpevoli. E come se queste persone non accettassero di essere come gli altri.
- Molti conflitti nascono anche dal fatto che le parti in causa hanno aspettative diverse. Quando non si riceve quello che ci si aspettava da un altro, si rimane delusi e risentiti. Ma se l'altro non lo sapeva o non era d'accordo, il conflitto è inevitabile. Per evitare questi conflitti, è importante che ci sia un contratto accettato dalle due parti. Alle persone spesso non piace avere un contratto. Si vuole rimanere nel vago, a un livello affettivo e spirituale; si ha paura della razionalità e della legge; si ha paura a precisare quello che si vuole o ci si aspetta. Si rifiuta allora di collocarsi sul piano della giustizia e dei diritti delle persone.
In linea generale, molti conflitti si risolvono quando gli uni e gli altri possono incontrarsi ed esprimersi liberamente, in un ambiente che crea un'atmosfera rassicurante o intorno a una persona in cui tutti hanno fiducia. Quando ci si ascolta a vicenda e si esprimono i propri bisogni e le proprie aspettative nel modo più oggettivo, senza accanimento, spesso la pace è possibile. Perché ciò si realizzi, ci vogliono animatori 0 moderatori competenti e accettati da entrambe le parti in conflitto.
Alcune persone tuttavia sembrano rifiutare qualsiasi compromesso; le loro convinzioni aprioristiche e i loro pregiudizi sono troppo radicati e viscerali. Queste persone si rifiutano di ammettere che nell'altro possa esserci qualcosa di buono. Rifiutano il dialogo e non sono capaci di mettere da parte alcune delle loro certezze per aprirsi all'altro. Devono risultare vincenti, altrimenti saranno vittime piene di odio e di desideri di vendetta. In situazioni del genere, a volte ci vuole molta pazienza e molta saggezza per non abbandonare la speranza di un cambiamento.
In un'epoca di divisioni come la nostra, è importante che ci siano uomini e donne esperti nella soluzione dei conflitti, uomini e donne che abbiano l'interiorità e la saggezza che sono indispensabili per ascoltare i contendenti e per cogliere ciò che li unisce, in modo che le paure e i pregiudizi crollino e che ciascuno trovi l'aiuto necessario per fare un passo verso l'altro. Sarebbe importante che fossero sempre più numerosi i luoghi dove si insegnano le vie della pace e il modo di affrontare e di risolvere i conflitti. Questo insegnamento dovrebbe entrare nelle scuole e raggiungere anche i bambini. Il nostro mondo sta diventando sempre più un luogo di violenza e di conflitti; bisogna sapere come prendere il proprio posto in questo mondo, perché siamo chiamati a vivere in esso e non a fuggirlo.
Dobbiamo tuttavia ammettere che a volte non si riesce a risolvere certi conflitti fra le persone. Gli interessati si fanno troppo male a vicenda; ciascuno provoca nell'altro troppe paure, troppe angosce. Entrambi non riescono a riconoscere le proprie ferite. L'unica soluzione allora è la separazione, che dà all'uno e all'altro lo spazio necessario per ritrovare la pace e ricuperare un po' di obiettività.
Saper rimproverare
All'Arca ho scoperto l'arte del rimprovero. Quando si è in una posizione di autorità e si ha la responsabilità di altre persone, a volte è necessario rimproverare chi ha agito male, non importa se per ignoranza, per impulsività o per cattiva volontà. Certi gesti antisociali e provocatori che una persona compie non possono essere ignorati, perché altrimenti rischiano di moltiplicarsi. L'interessato si aspetta più o meno coscientemente che gli si dica qualcosa, che qualcuno intervenga a fissare i parametri del suo comportamento. Anche a questo proposito vorrei indicare alcuni criteri fondamentali:
- Non fare mai un rimprovero "a caldo", sotto la spinta della collera o del risentimento, ma aspettare di essere in pace. In un foyer dell'Arca, ad esempio, si era deciso che Pierre avrebbe dato la sveglia e avrebbe preparato la prima colazione per le sette. Alle sette e mezzo arriva il responsabile: Pierre non c'è, la colazione non è pronta e tutti sono ancora a letto. Molto scontento, il responsabile raggiunge la stanza di Pierre, bussa alla porta e sfoga la sua collera. Ma forse Pierre è stato male durante la notte. È meglio aspettare tranquillamente e poi, al momento opportuno, chiedere che cosa è successo, con interesse e compassione. Si tratta di chiedere spiegazioni piuttosto che di accusare. Bisogna innanzitutto chiarire i fatti e le motivazioni.
- Non fare mai un rimprovero senza prima far sentire alla persona che la si apprezza e le si vuol bene. E inutile che abbia l'impressione di essere rifiutata, di essere considerata priva di valore, perché in tal caso le sarà più difficile accettare il rimprovero. Lo scopo non è quello di umiliare l'interessato, ma di aiutarlo a maturare e a fare meglio in futuro.
- È bene ricordare alla persona che anche noi commettiamo i nostri errori. Questo ci evita di parlare da una posizione di superiorità, dall'alto di un piedistallo. L'altro deve capire di trovarsi di fronte a un fratello o a una sorella che ha i suoi difetti e che vuole soltanto aiutarlo a fare dei passi avanti, perché lo stima e crede che abbia molto da dare.
- Questo processo esige un atteggiamento di fondo: credere nella persona a cui si fa un rimprovero e volerla aiutare a evolversi positivamente verso una maggiore libertà, a essere più coerente e più vera, a scoprire le proprie capacità di bene ma anche le proprie ferite e le proprie particolari difficoltà.